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#antonia contro
costancen · 6 months
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Qualcuno, forse, ha voluto che io nascessi donna.
In quanto donna desidero sentirmi libera di camminare per le strade di questa terra scegliendo cosa indossare e chi essere. Gli abiti sono espressione della propria identità e l'identità è un processo in fìeri. In quanto donna voglio vivere le trasformazioni della mia identità in maniera libera e spassionata, senza dover pensare esistano uomini incapaci di tenere a freno i loro istinti o persone, in generale, non in grado di dosare le parole. Non voglio subire il giudizio di nessun'altro, né farlo subire alla mia prossima, in quanto anch'essa presente su questo pianeta e deve godere degli stessi diritti.
Il caso ha voluto che io nascessi donna, non che subissi violenza verbale, fisica, psicologica, diretta o indiretta da chicchessia. Sì, perché la violenza non giunge soltanto dagli uomini, ma anche dalle donne che "temono" le altre o che non accettano ci sia sempre la possibilità di scegliere nelle varie strade che la vita propone, dove nessuno ha in partenza disposto che i diritti fondamentali dell'essere umano venissero sottratti.
Il caso ha voluto che io nascessi donna e di questo sono grata, anche se la società fatica ancora ad accettare ognuna possa esser fatta a suo modo: con un corpo che racconti una propria storia e che non per forza rispecchi rigide immagini, canoni o stereotipi; con sogni da inseguire, ambizioni e desideri da avverare senza dover per forza spiegare il perché. Una donna deve avere la possibilità di dire "no" e non bisogna pretendere essa si giustifichi. Una donna può essere chi vuole e nessuno deve erogarsi il diritto di decidere al posto suo.
Appartengo all'unica e universale "razza" dell'essere umano, anche se vengono spesso presi d'esempio coloro che dimenticano o addirittura non conoscono la loro umanità e seminano odio in ogni sentiero percorso. A un certo punto ci si chiede come mai esista la violenza, eppure ogni giorno essa assume sfumature d'ogni sorta attorno a noi, talvolta difficili da rilevare.
"Normalizzare" qualsiasi tipo di violenza - sminuendola o giustificandola - significa normalizzare l'odio. In realtà non bisognerebbe mai smettere di indignarsi dinanzi all'ennesimo insulto, all'ennesimo atto di bullismo o di cyberbullismo, all'ennesimo tentativo di prevaricazione, all'ennesimo abuso. Soprattutto non bisognerebbe mai sentirsi indifesi e impotenti.
Spesso non si discorre di come la violenza nasca da altra violenza, ma ci si limita al giudizio impervio. Non ci si domanda quali siano i fallimenti del nostro sistema, da quali "malattie" sia affetto e come noi agiamo per "prevenire" e "curare" i batteri della disuguaglianza, della disparità, del sessimo, del maschilismo, del razzismo, dell'intolleranza.
Fino a quando esisterà una "Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne" non potremo mai ritenerci pienamente al sicuro. Fino a quando esisteranno giornate volte a sensibilizzare contro qualsiasi genere di violenza, significherà che l'essere umano non avrà ancora compreso i principi basici su cui si fonda ogni singola esistenza.
La promessa urgente che ogni donna deve fare a se stessa è quella di non sentirsi mai sbagliata. Quando succede essa deve allontanarsi da persone e ambienti tossici. Ogni donna deve rivendicare il sacrosanto diritto di essere se stessa.
Il tempo è un bene prezioso e va donato a chi veramente merita: chi è capace di posare lo sguardo con assoluta delicatezza e non a chi vorrebbe vederci sofferenti o, addirittura, esanimi.
Il primo dovere che abbiamo è quello di essere libere di amarci!
Prometto questo e tanto altro a me stessa e anche a Giulia, Oriana, Martina, Teresa, Alina, Giuseppina, Antonia, Rosina, Stefania, Cesina, Iulia, Rossella, Francesca, Wilma, Safayou, Pierpaola, Floriana, Anna, Mara e a tutte le vittime di femminicidio in ogni parte del mondo, dunque alle attiviste politiche Mirabal che vennero deportate, stuprate e uccise sotto la dittatura della Repubblica Dominicana del 1960.
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agrpress-blog · 2 months
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“39 scalini” di John Buchan al Palazzo della Cultura di Locri Andrà in scena domenica 17 marzo 2024 ... #39scalini #alessandrodisomma #antoniabrancati #diegomigeni #johnbuchan #locri #marcozordan #palazzodellacultura #patrickbarlow #yasermohamed https://agrpress.it/39-scalini-di-john-buchan-al-palazzo-della-cultura-di-locri/?feed_id=3933&_unique_id=65f45ecd98568
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siciliatv · 1 year
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Traffico di droga nel Vallone, Riesame conferma il carcere. Sospetto pusher ricorre in Cassazione
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Mussomeli – Non si schiudono le porte del carcere per uno dei quindici coinvolti in un presunto maxi giro di droga nel Vallone. Scenario che nel marzo scorso è stato al centro di una operazione dei carabinieri con una pioggia di arresti per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e singoli episodi di spaccio. Era e resta in carcere il quarantaduenne Antonio Puma – assistito dall’avvocato Salvatore Baiamonte – come ha disposto il Tribunale del riesame di Caltanissetta presieduto da Andrea Catalano – completano il collegio i giudici Antonia Leone e Salvina Finazzo – che ha confermato l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip il 20 marzo scorso dal gip Grazia Luparello. Da qui il ricorso in Cassazione da parte dell’avvocato Baiamonte che, nel motivare l’impugnazione dell’ordinanza del tribunale del riesame, ha osservato che «il provvedimento impugnato risulta illegittimo in quanto viziato da violazione di legge per mancanza e insufficienza della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato soprattutto in relazione ai motivi della presenza di gravi indizi di colpevolezza». E, sempre secondo la difesa, se tanto il gip quanto il tribunale di Caltanissetta «hanno ritenuto che il lavoro di attività di indagine fosse stato fatto in maniera “fitta e coerente” e quindi in maniera molto precisa», di contro, secondo la tesi dello stesso legale, sia la memoria difensiva che il ricorso al Riesame avrebbero «pienamente dimostrato che il lavoro di indagine presenta delle imprecisioni molto importanti». Aggiungendo poi, in un altro passaggio, che «i delitti contestati all’odierno indagato, Antonio Puma, sottoposto alla misura cautelare di custodia in carcere non sono stati affatto dimostrati con indizi gravi, precisi e concordanti». Così, passando per tutta una serie di ragioni, è stato chiesto alla Suprema Corte l’annullamento della misura cautelare a carico dello stesso sospetto pusher che è stato tirato in ballo per quattro sospetti episodi di spaccio compresi tra il dicembre di quattro anni fa e il giugno dell’anno successivo.     Fonte: castelloincantato.it Read the full article
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dicevamo · 1 year
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dicevamo, col mio amico f
Da quando F. si è trasferito a Roma da Parigi ci vediamo praticamente tutti i giorni. A parigi F. lavorava nel settore infrastrutture, andava a molte feste e scopacchiava in giro, ma non era felice: «Non ho nessun amico più di sinistra di me, e non posso allenare una squadra di calcio femminile». Così ha deciso di rinunciare a tredicesima&quattordicesima, tecno&md a montreuil il sabato sera e allegre&borghesi studentesse nordeuropee per venire a seppellire polvere quaggiù, sotto il cielo-lingua di una Roma-biscia che lo annoia e consola.
A parigi F. viveva in una casa di 100mq a goutte d'or. Il quartiere africano, dice fiero a chi non lo conosce. F. ha lo stramaledetto impulso di palesarsi progressista all'incirca ogni volta che apre bocca, tipico di chi è costretto a tenere sempre alta la guardia contro il fascismo che zittozitto gli alberga dentro. Peccato non si renda conto che vivere in una casa di 100 mq spendendo 400 euro al mese dentro la péripherique non è altro che un privilegio di genere. La me sudaticcia e disperata di qualche agosto fa avrebbe saltato a piè pari l'annuncio della casa che è poi diventata la sua. A roma invece vive a metro san paolo e condivide la casa con la più pazza delle mie migliori amiche, S., aquario ascendente capricorno. L'altro giorno in treno, scrollando instagram, F. afferma: «S. un giorno si suiciderà». Ho odiato tutto: lo schermo del telefono che teneva tra le dita, il tono di voce pacato con cui ha formulato quel verdetto, il suo stupore nel vedermi fissare il vuoto, stordita dal ricordo di un lutto che non ho ancora vissuto eppure eccolo lì, metallico e violaceo, pronto a contorcermi il mondo.
F. è un ragazzo intelligente. Ha ventiquattro anni, o forse ventitré. Viene dalla provincia di Pisa, triennale in Scienze politiche a Firenze e poi ascensore sociale verso SciencePo e conseguenti aperitivi a Montparnasse con amici di amici del figlio di Baricco. Sua madre è una professoressa di italiano e latino al liceo, legge Isabelle Allende-Annie Ernaux e ha un podcast in cui spiega Antonia pozzi in sette minuti. Suo padre è un elettricista, vota PD e ogni sera scatta un Bereal. In passato F. è stato scout, oggi è solo un anticlericale molto parsimonioso. Per lui quasi niente è più importante della consapevolezza di classe, e le formule con cui elabora la sua non sono mai vittimistiche o auto-celebrative: è vero, ha studiato nella stessa grande école di macron-dimission, ma i tre anni da pendolare pontedera-firenze? Concordiamo sul fatto che riconoscere il proprio privilegio equivale, né più né meno, a raccontare la propria infanzia.
La sera in cui ci siamo conosciuti mi ha detto di essere liberale. Era molto ubriaco e un po' stavamo flirtando. Si è risentito quando gli ho detto che rientravo nella fascia alta per tasse universitarie e poi l'ho accompagnato a vomitare. Ai tempi aveva la bandiera dell'europa come bio su instagram e la spilletta di azione sullo zaino. Che tenerezza.
Parole/espressioni più usate da f: acknoledge the privilege; decostruzione, autocoscienza, utilità sociale, porcoddio.
Giochiamo spesso al gioco è-di-destra-o-di-sinistra: asciugarsi i capelli, destra. gli ac/dc, destra. le sdraio, sinistra. i lettini, destra. la lacoste, sinistra. il volontariato in africa, destra. tinder, destra. la wii, sinistra. gli scacchi, sinistra. i pranzi della domenica da tua nonna, sinistra. tua nonna, destra.
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lamilanomagazine · 1 year
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Canale5: da venerdì 14 aprile in prima serata "Il Patriarca" con Claudio Amendola.
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Canale5: da venerdì 14 aprile in prima serata "Il Patriarca" con Claudio Amendola. La serie in sei prime serate, prodotta da Camfilm e presentata da Taodue - Mediaset Group, per la regia di Claudio Amendola, racconta la storia di un carismatico imprenditore, Nemo Bandera (interpretato dallo stesso Amendola), che ha portato la Deep Sea a diventare una delle aziende più importanti della Puglia, grazie alla sua abilità negli affari, ma anche grazie a traffici illeciti che hanno la base nel porto della sua città, Levante. La vita di Nemo viene però improvvisamente sconvolta dalla scoperta di essere malato e dalla consapevolezza che, a breve, non sarà più in grado di portare avanti le sue attività. Solo il fidato Ferro (Michele De Virgilio) è a conoscenza della malattia, mentre alla moglie Serena (Antonia Liskova) e ai suoi due figli, Nina (Giulia Schiavo) e Carlo (Carmine Buschini), Nemo annuncia solo di volersi ritirare dagli affari e di voler scegliere il suo erede alla guida dell’azienda. Si scatena la guerra per la successione. L’avvocato della Deep Sea, l’affascinante e spregiudicato Mario (Raniero Monaco di Lapio), figlioccio di Nemo e fidanzato dell’ambiziosa Elisa (Giulia Bevilacqua) si aspetta che la scelta ricada su di lui e resta molto deluso quando il Patriarca annuncia che a succedergli sarà uno dei suoi due figli di sangue che però non sembrano avere né l’esperienza né il carattere per guidare un’azienda così complessa. Ma il sangue di Nemo ce l’ha anche una terza figlia, avuta prima del matrimonio e sempre tenuta fuori dalla famiglia: è la volitiva e ribelle Lara (Neva Leoni), con cui cerca di recuperare un rapporto dopo tanti anni di assenza. A rendere tutto più difficile per il Patriarca è anche l’offensiva congiunta che l’ispettore Monterosso (Primo Reggiani) e un boss locale, il Tigre (Antonio De Matteo) con l’aiuto del braccio destro Freddy (Marius Bizau), gli scatenano contro, proprio quando Nemo vorrebbe smettere con i traffici illegali che lo hanno arricchito fino a quel momento. «Il Patriarca è una serie che porta sullo schermo dei personaggi e delle storie molto coinvolgenti - commenta Camilla Nesbitt, produttrice per Camfilm de Il Patriarca - giocate su grandi temi universali come la ricerca del potere, i compromessi che questo spesso richiede per essere mantenuto e allo stesso tempo la forza dei legami familiari e dell’amore, capaci di sconvolgere la vita e di portare a decisioni estreme. Sono certa che il Patriarca, diretta e interpretata da un grande Claudio Amendola, che torna dopo alcuni anni sugli schermi di Canale5, affiancato da un cast di grande valore, saprà offrire agli spettatori sei serate ricche di emozioni». Il Patriarca è stato girato nel corso di 7 mesi tra la fine del 2021 e la prima metà del 2022 tra Roma e la Puglia. Per la regia di Claudio Amendola, al suo fianco nel cast troviamo Antonia Liskova, Raniero Monaco di Lapio, Giulia Bevilacqua, Primo Reggiani, Neva Leoni, Michele De Virgilio, Giulia Schiavo, Carmine Buschini, Carlo Calderone.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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amicidomenicani · 1 year
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Quesito Rev.mo Padre Angelo, su un sito di preghiere di ispirazione salesiana, nella sezione "Sacramentali", si parla dei medaglioni "Agnus Dei" fatti con la cera delle chiese di Roma e benedetti dal Papa ogni sette anni o quando lo stesso Papa lo ritenga opportuno. Secondo quanto detto sul sito avrebbero molte proprietà: Lei è a conoscenza di questo sacramentale? Cosa ne pensa? La ringrazio per il tempo che vorrà dedicarmi. Antonia Maria (sr. Rosa Maria O.P. nella Fraternita Laica) Risposta del sacerdote Cara Antonia Maria (sr. Rosa), 1. sì, esiste questa tradizione degli Agnus Dei. Si tratta di medaglioni di cera bianca, rotondi oppure ovali, sui quali viene raffigurato l'Agnello divino in piedi, caricato del legno della croce, oppure accovacciato accanto ad esso. 2. L'origine degli Agnus Dei è oscura. Secondo alcuni sarebbero stati dati come ricordo del battesimo nel giorno in cui si deponeva la veste bianca ricevuta la notte del sabato santo. Il giorno era quello della domenica in Albis, che oggi viene chiamata anche della divina misericordia. 3. Secondo altri furono istituiti da papa Zosimo nel secolo quarto per sostituire gli amuleti ai quali i pagani attribuivano virtù capaci di preservare dal male. 4. Poiché i fedeli avevano l'abitudine di prendere per devozione dei frammenti del cero pasquale dell'anno precedente, si ebbe l'idea di mescolarli con cera qualunque per fare i medaglioni. Dal secolo 16º i papi stessi li benedicono il primo giorno del loro pontificato e ogni sette anni, di preferenza il venerdì di Pasqua. Oggi i medaglioni vengono presi dalle candele che vengono offerte al Papa nel giorno della Candelora dai parroci di Roma e dagli istituti religiosi 5. Le lunghe orazioni della benedizione sono fra le più belle della liturgia. Il Papa immerge gli Agnus Dei nell'acqua che ha benedetto e nella quale ha versato balsamo e sacro crisma. Questa cerimonia viene chiamata “il battesimo degli Agnelli”. 6. Gli Agnus Dei si possono portare come si porta una medaglia Benedetta. Sono sacramentali. Se sono portati con devozione, memori del battesimo e dell'impegno di vita santa che dobbiamo condurre, possono ottenere grazie e anche favori straordinari.  Si possono appendere alle pareti della casa, come segno di benedizione. In quanto sono sacramentali, e pertanto in virtù delle preghiere della Chiesa, proteggono contro “i pericoli di malattie contagiose, dei pericoli del mare, del fulmine, degli incendi, delle inondazioni e procurano alle madri un parto felice” 7. Bisogna tuttavia evitare di attribuire loro potere magico per non cadere nella superstizione commettendo peccato. Allora, anziché ricevere benedizione, inconsapevolmente si apre la porta dal nostro comune avversario che quando viene, “viene per rubare, per distruggere e per uccidere” (Gv 10,10). Ti benedico, ti auguro ogni bene e ti ricordo nella preghiera. Padre Angelo
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songsforsquid · 3 years
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Our Edges Touched: Poets & Artists in Collaboration
Hugo House event: January 21, 2021 at 6:00 PM PST, via ZOOM
In this time of social distancing, connection is more valuable than ever. These six poets and artists have worked across distances to create work together. Join us for a reading/showing of collaborative book projects with poet and artist pairs: Matthea Harvey and Amy Jean Porter (Of Lamb, McSweeney’s), Elizabeth Bradfield and Antonia Contro (Theorem, PoetryNW Editions), and Sierra Nelson and Loren Erdrich (I Take Back the Sponge Cake, Rose Metal Press, and Isolation, artist book). A discussion between the artists and time for audience questions will follow the presentation. 
For more info: https://hugohouse.org/events/our-edges-touched-poets-artists-in-collaboration/
RSVP here to claim your spot at this free event; event link will be sent by email. All Hugo House events take place in Pacific Time.
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ma-pi-ma · 2 years
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                               ad A.M.C.
C'era un disordinato andirivieni di valige sfrangiate, penzoloni su ghette e scarpe gialle da provincia, che schizzavano dentro l'atrio grigio dagli sbadigli bianchi delle porte aperte sulla piazza e sui binari. Gli sportelli sbarravano sul muro uno stupore lucido, verdone; un ombrello, testardo, s'impuntava contro terra in un suo capriccio nero. Né tu né io ci guardavamo in viso: ma i miei occhi sentivan d'incontrarti. Dove, non so. Forse in quel po' di cielo che si vedeva sopra la tettoia o in mezzo alle fumate carnicine che il Vesuvio sbuffava senza posa e il vento senza posa smozzicava. Io mi sentivo libera e leggera come quei fiocchi bianchi di pelurie che si sprigionano dai pioppi, in maggio e cercan l'alto come delle preci. La tua voce era un mare di purezza: ogni ombra di materia vi affogava. A tratti le parole si frangevano in sfumature lunghe di silenzio e all'anima sembrava di vibrare nuda nel vento e di sfiorare Dio.
Milano, 17 aprile 1929
Antonia Pozzi, da Parole
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vecchiorovere-blog · 2 years
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•Tempia contro tempia si trasfondono le nostre febbri. Fuori, tremoli lunghi di stelle e l'edera, con le sue palme protese, a trattenere un luccicore mite. Nella mia casa che riscalda, tu mi parli delle grandi cose, che nessun altro sa. Lontano, una gran voce d'acqua scroscia a parole incomprese e forse a te benedice, dolce sorella, nel nome del mio amore e della tua tristezza, a te, ala bianca della mia esistenza• (Antonia Pozzi) Ph: Laura Makabresku
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diceriadelluntore · 3 years
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Tradimenti
Ha fatto molto scalpore cosa è successo ne Il Metodo Catalanotti, l’ultima puntata de Il Commissario Montalbano, tratto dall’omonimo romanzo di Andrea Camilleri. Sto parlando di una delle serie Tv più seguite di tutti i tempi, nonchè di una delle serie letterarie italiani più lette, vendute e tradotte degli ultimi 40 anni.
Non voglio entrare nel merito della questione, che riassumo brevemente: il Commissario perde letteralmente la testa per la nuova responsabile della Polizia Scientifica, Antonia, e chiude la sua relazione ultra ventennale con la sua compagna, Livia, con una telefonata dove non dice che qualche parola. Questo è quanto ha scatenato il dibattito su come sia sia comportato male (verissimo), ma anche ai tormenti di Livia (che nel libro e nel film non sono descritti), al ruolo di Antonia e così via.
Quello che a me affascina terribilmente è la potenza empatica (o anche di sdegno) che un personaggio, in questo caso letterario-televisivo, esprime in chi lo segue. È una caratteristica della contemporaneità, e ha illustri antecedenti, il più famoso è Sherlock Holmes che fu “resuscitato” da Conan Doyle dopo che il geniale scrittore, per liberarsi dal suo illustre personaggio, lo fa cadere abbracciato nella lotta al suo nemico Moriarty, nelle Cascate Reichenbach, con conseguente crisi dei suoi lettori. Ma è successo lo stesso, per dire, con il finale de Il Trono di Spade, serie TV. E che dire della saga di Star Trek, dove pur di non far terminare la serialità è nata in pratica la fan-fiction?
In un saggio bellissimo, Storia delle terre e dei luoghi leggendari, Umberto Eco sottolinea quanto cambi ad un luogo o un persona la trasformazione da “credenza” a “finzione”. Dice Eco: “tutti sappiamo che è innegabilmente certo che Superman è Clark Kent ed è falso che il braccio destro di Nero Wolfe sia il dottor Watson; che è vero indiscutibilmente che Anna Karenina è morta sotto un treno, e falso che abbia sposato il Principe Azzurro. In questo nostro universo ricco di errori e di leggende, di dati storici e false notizie, una cosa è assolutamente vera se lo è tanto quanto il fatto che Superman è Clark Kent. Tutto il resto può essere sempre rimesso in discussione” (pagg. 440-441).
In pratica nonostante ci sia differenza tra il credere nell’esistenza di Montalbano e il saperlo finto, la visione delle sue azioni (letterarie o cinematografiche poco importa) fa parte in modo veritiero della realtà del nostro immaginario, scatenando il dibattito quasi sul “personale”. Ma c’è di più, perchè molto spesso quei luoghi, in questo caso la Vigata fittizia della serie, diviene necessariamente da “visitare”. Tanto è vero che i sindaci delle zone, tra il Ragusano e il Siracusano, dove sono state girate le avventure del famoso Commissario, hanno subito manifestato contro l’idea che Il Metodo Catalanotti sia l’ultima puntata della serie. Poichè il clamoroso successo ha portano non poca visibilità a quei luoghi, peraltro di una bellezza mozzafiato: milioni di turisti atterrano a Comiso (in provincia di Ragusa) per fare il tour dei luoghi di Montalbano, tra lo splendore del barocco siciliano, le bontà da mangiare, le campagne assolate. Innescando un circolo virtuoso di recupero delle vecchie case, di attività, anche solo di notorietà.
Quando c’è stato l’ultimo vertice G7 a Taormina, la moglie dell’allora presidente del Consiglio Europeo Tusk, polacca, disse appena scesa dall’aereo: “Che meraviglia poter essere qui nella terra del Commissario Montalbano”.
Rimane un esempio formidabile della potenza dell’arte, della fascinazione e della necessità di evadere da quello che siamo, anche solo per una sorta di liberazione da quello che si è, che ci porta a “stare male” per una questione che, realmente, non è mai avvenuta. Ma forse in questo caso a sbagliare sono io. 
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Gli scavi archeologici condotti in tempi recenti in prossimità del muro occidentale del tempio erodiano a Gerusalemme hanno fornito risultanti sorprendenti e forieri di ulteriori sviluppi.
A distanza di alcuni anni dall'ultima campagna di interventi eseguita sotto l’attuale piano calpestato della città vecchia sono stati portati a termine esami stratigrafici comparati sui vari livelli occupazionali e il loro esito è stato clamoroso: si è riusciti ad appurare che l’antica pavimentazione (il cosiddetto «litostrato») conservata all’interno del convento delle suore di Sion, erroneamente attribuita integralmente al periodo dell’imperatore Adriano (132 d. C.), risale in realtà per ampie parti all’epoca della vita terrena di Gesù. Tale convinzione è ricavata appunto dalla comparazione del livello della pavimentazione con quelli di camminamenti e strutture varie attigui al Tempio, databili con sicurezza al periodo erodiano; ed è supportata dalla certezza che Adriano nel ricostruire Gerusalemme con il nome di «Aelia Capitolina» seguì una prassi in uso nei grandi lavori edilizi e urbani nel corso del primo Impero: recuperare e riattivare strutture preesistenti, migliorandone e conservandone le parti ancora integre.
Tale modo di procedere è ben testimoniato ad esempio nell’ampio programma di rifacimento messo in atto più di un secolo prima da Augusto nell’Egitto appena diventato provincia imperiale: gli architetti romani sfruttarono per lo più la rete viaria ed edilizia tolemaica, rafforzandola ma mutandola in minima parte. Nel caso del litostrato gerosolimitano l’esattezza della datazione è confortata da tracce di una distruzione storicamente attribuibile a un evento preciso e collocabile nel tempo: sono i segni, appena percettibili ma inequivocabili all’occhio allenato dell’archeologo, dello smantellamento del vicino Tempio ad opera del futuro imperatore Tito, attorno al 70 d. C., quindi ben prima del rifacimento adrianeo.
La pavimentazione conservata all’interno del convento delle suore in antico si trovava comunque all’esterno della Fortezza Antonia, la gigantesca struttura turrita da dove i romani controllavano l’interno del Tempio giudaico e dove Cristo comparve davanti a Ponzio Pilato.
Il lastricato si trova non distante da una sorta di piscina, descritta anche nei Vangeli, un’importante riserva idrica per tutta la città, costruita in epoca asmonea (II-I secolo a.C.) e recentemente riportata alla luce dagli scavi sotterranei.
Ulteriori elementi archeologici completano il quadro e confermano la collocazione temporale del litostrato conservato: su alcune pietre sono visibili i segni dei militari (uno scorpione, simbolo della X Legione Fretense, attiva proprio sotto Ponzio Pilato ) e dei loro giochi, tra cui il «gioco del re»; in esso il condannato era dileggiato come re e incoronato di spine, esattamente il ludibrio, a cui fu sottoposto Gesù. Gli accertamenti degli studiosi vorrebbero proseguire, ma cozzano contro difficoltà reali: la parte inferiore della Fortezza Antonia con forse parte del suolo originale risulta oggi sotto un’importante scuola musulmana, che di fatto ne impedisce l’ispezione sistematica; un ostacolo non da poco, con evidenti implicazioni politiche
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paoloxl · 3 years
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Lo strano comportamento della Procura di Roma - Osservatorio Repressione
La Procura di Roma accusa Paolo Persichetti di avere diffuso informazioni riservate ma ignora le ripetute fughe di notizie segretate che hanno contrassegnato l’attività della commissione Moro presieduta da Fioroni
I tre anni di attività della seconda commissione parlamentare sul rapimento e l’uccisone di Aldo Moro sono stati contrassegnati dalle ripetute violazioni del protocollo interno che regolava il regime dei documenti da mantenere riservati o segretati. Durante i suoi lavori abbiamo assistito ad una continua rincorsa all’anticipazione di notizie, o presunte tali, dove il più delle volte roboanti effetti d’annuncio servivano a colmare l’assenza di fatti nuovi. E’ andata avanti così fino al febbraio 2018 quando a causa della conclusione della legislatura la commissione ha dovuto chiudere anticipatamente i battenti senza essere in grado di produrre una relazione conclusiva. Nel frattempo commissari e consulenti avevano intrattenuto relazioni privilegiate con la stampa, fatto filtrare veline, notizie, documenti, fake news, avvalendosi anche di giornalisti che svolgevano la funzione di house organ, e ognuno come poteva si era avvalso di consulenze esterne e informali. Normale amministrazione di un organo eminentemente politico che però nella legge istitutiva si era dato anche delle prerogative giudiziarie, dando vita ad un ibrido dalle molte e irrisolte ambiguità.
Le ripetute fughe di notizie riservate ignorate dalla procura
Nonostante queste continue fughe di notizie siano avvenute sotto gli occhi di tutti la procura di Roma, che pure con la commissione intratteneva continui scambi, ha sempre girato il capo altrove ignorando le ripetute irregolarità.
Una rapida inchiesta ci ha permesso di individuare almeno cinque episodi (ma il numero è probabilmente superiore) nei quali esponenti della commissione hanno diffuso sui media notizie o documenti riservati o segretati. Queste violazioni, due delle quali avvenute prima del dicembre 2015, hanno riguardato la diffusione di verbali segretati di tre testimoni, due escussi dai consulenti della commissione e dallo stesso presidente, uno audito in seduta segreta dalla commissione stessa, e due notizie riservate raccolte dai consulenti. Si trattava di materiale documentale di prima mano funzionale allo sviluppo di successivi approfondimenti investigativi la cui divulgazione poteva nuocere allo sviluppo degli ulteriori accertamenti. A questa prima circostanza bisogna aggiungere che la divulgazione sui media è avvenuta spesso attraverso un uso sapientemente selezionato di stralci e notizie tale da distorcere il contenuto stesso delle informazioni presenti nei verbali e nei documenti, dandone in pasto all’opinione pubblica una versione finalizzata ad avvalorare ipotesi cospirazioniste che i commissari o i consulenti protagonisti di queste indiscrezioni appoggiavano. In questo modo accanto alla violazione delle regole di riservatezza si è dato corpo anche alla circolazione di fake news, in taluni casi di vere e proprie azioni di depistaggio informativo.
Primo episodio
Il 13 marzo 2015 il deputato Gero Grassi, membro tra i più attivi della commissione, rivelava l’acquisizione da parte della commissione di alcune musicassette ritrovate nell’aprile del 1978 in via Gradoli. L’informazione era contenuta in una informativa riservata prodotta dal magistrato Antonia Gianmaria, una consulente che lavorava per la commissione. La notizia appariva sui maggiori quotidiani, Corriere della sera, Repubblica, Stampa. «Da quel che si conosce dagli atti – spiegava imprudentemente Grassi – erano 18 le cassette registrate ritrovate nel covo e mai ascoltate: ad oggi ne manca dunque una. Per il momento le cassette sono nella cassaforte della Commissione, presto ne conosceremo il contenuto e valuteremo la rilevanza per le nostre indagini». L’entusiasmo appena velato di Grassi era dovuto alla convinzione che le audiocassette contenessero gli interrogatori di Moro. Non era affatto vero: i nastri provenivano da tre sequestri avvenuti in epoche diverse nelle basi brigatiste di via Gradoli, via delle Nespole e nell’abitazione di viale Giulio Cesare. Contenevano in prevalenza selezioni musicali, come riferivano i verbali dell’epoca acquisiti successivamente dalla prima commissione Moro. All’appello non mancavano cassette: alcune erano vuote, altre contenevano canzoni di Francesco Guccini, Gabriella Ferri, Bob Dylan, Enzo Jannacci, il duo di Piadena, canti rivoluzionari, gli Intillimani, il sax di Fausto Papetti, una – recitava il verbale – era «registrata da ambo le parti in lingua inglese», senza specificare se si trattasse di canzoni, discorsi, corsi di lingua o cos’altro. Altre due cassette repertate in viale Giulio Cesare, dove Faranda e Morucci avevano trasferito l’archivio della “Brigata contro” dopo la loro uscita dalle Br, contenevano il messaggio telefonico di un mitomane e le dichiarazioni di una teste (Chiarantano) interrogata da un membro delle forze di polizia nel corso di indagini condotte contro ambienti della estrema sinistra genovese. Si trattava di materiale di provenienza processuale e le dichiarazioni della teste erano riportate integralmente sulle pagine di Lotta continua dell’epoca.
Un testo dell’Ansa del 16 marzo 2015, ore 8,27, che riprendeva le affermazioni di Grassi raccoglieva anche le proteste del vicepresidente della commissione Gaetano Piepoli: «Il riserbo e la prudenza – dichiarava – sono l’unica bussola che la ricerca della verità ha per non smarrirsi nel labirinto delle infinite ipotesi».
Secondo episodio
Per due giorni consecutivi, il 17 e il 18 novembre 2015 sulle pagine di Repubblica il giornalista Paolo Berizzi ebbe modo di riportare ampi stralci del verbale segretato dell’escussione di Raffaele Cutolo, avvenuta il 14 settembre precedente nella sezione 41 bis del carcere di Parma. Le ennesime dichiarazioni dell’ex capo della Nuova camorra organizzata sulla vicenda Moro erano state raccolte dal tenente dei carabinieri Leonardo Pinelli e dal magistrato Gianfranco Donadio, entrambi consulenti della commissione e che il giorno successivo protocollarono il verbale insieme alle osservazioni e proposte di approfondimento investigativo. Qualche manina interessata farà pervenire due mesi dopo a Repubblica il documento segretato. La vicenda provocò anche una coda polemica: un membro della commissione, il deputato Fabio Lavagno, denunciò la fuga di notizie in una dichiarazione pubblica sottolineando per altro come fossero riportate in modo distorto. Il giornalista di Repubblica replicò che le fonti che avevano ispirato i suoi articoli erano interne alla commissione.
Terzo episodio
Il 5 settembre 2017 viene audito dalla commissione in seduta segreta Pietro Modiano, ex direttore generale di Intesa san Paolo, divenuto nel frattempo presidente della società che gestisce gli aeroporti milanesi. Modiano viene sentito in relazione all’ipotesi di legami tra le Brigate rosse e la ‘ndrangheta calabrese durante il rapimento Moro. Il contenuto dell’audizione era stato anticipato all’Ansa il giorno precedente dal solito Gero Grassi: «uno dei commissari che ha segnalato la volontà di Modiano di far conoscere quello che apprese anni fa spiega quello che potrebbe essere almeno uno degli elementi rilevanti dell’audizione» – scriveva l’Ansa: «Modiano era molto amico di Don Cesare Curioni (Il capo dei cappellani delle carceri italiane utilizzato come canale di trattativa con le Br dal Vaticano) e quindi potrebbe rivelare particolari inediti sulla conoscenza che il sacerdote aveva del mondo brigatista. Ricordando anche che don Curioni era presente all’obitorio quando fecero l’autopsia ad Aldo Moro». Secondo quanto riportato da Gero Grassi nel suo Aldo Moro, la verità negata, Pegasus edizioni 2018, durante l’audizione segreta Modiano avrebbe rivelato che poco dopo l’omicidio Moro il sacerdote suo amico gli avrebbe riferito «che chi ha sparato materialmente è Giustino De Vuono, calabrese». Al netto del gioco di specchi dei de relato, dove amici e conoscenti riportano fantasmagoriche affermazioni di defunti, assolutamente non verificabili, ciò che qui interessa è la circostanza che il contenuto dell’audizione segretata, oltre ad essere anticipata appare su due lanci dell’Ansa del 5 settembre, ore 17,37 e in un libro.
Quarto episodio
Il 20 Settembre 2017 è lo stesso presidente della commissione, Giuseppe Fioroni, a rivelare all’Ansa il ritrovamento del corpo di Giustino De Vuono nonostante l’informazione fosse contenuta in un atto da lui stesso classificato riservato. L’episodio, alquanto surreale, viene raccontato da Fabio Lavagno nel volume, Moro. L’inchiesta senza finale, Edup ottobre 2018, scritto insieme a Vladimiro Satta. A p. 56 si riportano gli stralci essenziali della dichiarazione di Fioroni: «Il Presidente della commissione d’inchiesta sull’assassinio di Aldo Moro, Giuseppe Fioroni, a proposito della figura del criminale Giustino De Vuono […] rende noto che ‘tramite l’Arma dei Carabinieri è stato possibile stabilire con certezza la sua data di morte e il luogo di sepoltura: De Vuono, ristretto, nel carcere di Carinola dal 16 marzo 1991, venne ricoverato il 1 novembre del 1994 nell’ospedale di Caserta, già operato per aneurisma fissurato, e lì morì il 13 novembre dello stresso anno. La salma di de Vuono venne tumulata nella tomba di famiglia presso il cimitero di Scigliano […]». La figura di De Vuono, come abbiamo visto, è ritenuta centrale da alcuni narratori complottisti. A loro avviso infatti era presente in via Fani e sarebbe stato l’esecutore materiale dell’uccisione di Moro, per questo aiutato dai Servizi ed esfiltrato all’estero. Da qui le strenue ricerche condotte dalla commissione per infine ritrovarlo inumato in un paesino della provincia di Cosenza.
Quinto episodio
Il 17 marzo 2016 Francesca Musacchio sul Tempo riportava ampi stralci del verbale segretato di escussione che Angelo Incandela, ex maresciallo delle guardie di custodia del supercarcere di Cuneo, aveva rilasciato dieci giorni prima, il 7 marzo, nei locali della questura di Torino davanti al presidente della commissione Giuseppe Fioroni e al consulente Guido Salvini (p. 200 della relazione sull’attività svolta dalla commissione, dicembre 2017). Incandela avrebbe riferito di un incontro con il generale Dalla Chiesa, presente anche Pecorelli, e poi di carte che il generale gli avrebbe chiesto di nascondere all’interno del carcere e successivamente ritrovare con una perquisizione camuffata. L’ex maresciallo lasciava intendere che si trattasse del memoriale Moro o di parte di esso ritrovato dagli uomini del generale in via Monte Nevoso a Milano.
Lo strabismo investigativo della procura e la caccia al reato
Dopo cinque anni di assoluta inerzia davanti alle continue fughe di notizie provenienti dall’interno della commissione Moro 2, alla fine del 2020 la procura di Roma si è improvvisamente interessata ad alcune mie mail. Si trattava dell’invio ad una cerchia ristretta di persone di alcune pagine della prima bozza di relazione annuale nelle quali si affrontava l’abbandono delle macchine del commando brigatista in via Licinio Calvo. La trasmissione era avvenuta l’8 dicembre 2015, meno di 48 ore prima della sua pubblicazione ufficiale. Secondo la procura quella spedizione costituiva una fuoriuscita di documentazione riservata, nonostante fosse di natura ben diversa rispetto ai documenti segretati resi pubblici nei cinque episodi prima descritti. La relazione è un testo politico, sottoposto ad emendamenti e voto finale, che riassume per sommi capi audizioni – già pubbliche – e l’indirizzo delle indagini intrapreso dalla commissione non un verbale di interrogatorio o una relazione su indagini in corso scritta dai consulenti.
L’inchiesta della procura partiva da una serie di informative della polizia di prevenzione realizzate dopo una lunga attività investigativa, nata almeno un paio di anni prima e scaturita dal monitoraggio dei rifugiati politici degli anni 70. In un rapporto del novembre 2020 la Dcpp ipotizzava la presenza del reato di rivelazione di segreto d’ufficio (326 cp), accusa mossa contro ignoti. In un nuovo rapporto del mese successivo venivo identificato come il responsabile della divulgazione di questo materiale e contemporaneamente veniva modificato il titolo del reato da rivelazione di segreto d’ufficio a favoreggiamento (378 cp). Dopo le dichiarazioni del presidente della defunta commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni, sentito come teste informato, il pubblico ministero titolare dell’inchiesta introduceva una nuova imputazione: associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270 bis) a corredo del favoreggiamento. Nello scorso mese di luglio, il tribunale del riesame, chiamato a pronunciarsi sulla legittimità del sequestro del mio materiale d’archivio, dei miei strumenti di lavoro e dei documenti e materiali amministravi, sanitari e scolastici dei miei figli, avvenuto l’8 giugno precedente, riteneva la sottrazione del materiale legittima se inquadrata sotto un diverso titolo di reato: la rivelazione di notizie riservate stabilite dall’autorità (262 cp), smontando di fatto il quadro accusatorio disegnato della procura. Nel giro di 8 mesi ho così assistito alla successione di ben quattro imputazioni per un unico episodio. Questa difficoltà nell’inquadrare giuridicamente il presunto fatto-reato addebitatomi rivela quanto sia fragile e pretestuosa l’inchiesta condotta dalla polizia di prevenzione e dalla procura di Roma che con tutta evidenza mira ad altro.
Le insinuazioni del presidente della commissione Moro 2
Tra i contatti a cui avevo inviato alcune pagine della bozza di relazione, tutti legati al lavoro di ricerca storica che stavo conducendo insieme a Marco Clementi e Elisa Santalena in vista della pubblicazione di un libro sulla storia delle Brigate rosse e del sequestro Moro uscito nel 2017 (Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, edizioni Deriveapprodi), erano presenti persone coinvolte nel sequestro. Si trattava di ex militanti delle Brigate rosse a cui avevo chiesto di vagliare il capitolo della “Relazione” e fornire la propria versione dei fatti, spunto da cui partire per una ricostruzione minuziosa poi sfociata in un capitolo del libro.
Nel corso della sua testimonianza Giuseppe Fioroni aveva insinuato un diverso scenario, sostenendo che fossero le informazioni contenute nella bozza il vero movente della divulgazione anticipata. Secondo l’ex presidente, le indagini condotte dalla commissione sulla possibile presenza di un garage compiacente o di una base dei sequestratori nei pressi della zona di via Licinio Calvo, avrebbero messo in allarme l’ambiente degli ex brigatisti. Da qui l’insinuazione che la diffusione in un circuito ristretto di quelle pagine non fosse dettata da ragioni di polemica storica, ovvero l’intenzione di contrastare le ricostruzioni dietrologie promosse dalla commissione perché travisavano i fatti, ma dalla necessità di carpire notizie in anticipo (48 ore sic!) sulla direzione delle indagini. Io sarei stato dunque una sorta di agente infiltrato!
Il capitolo su Licinio Calvo non conteneva anticipazioni o notizie riservate
Fioroni tuttavia dimentica di dire che il capitolo su via Licinio Calvo non conteneva notizie riservate ma fantasie ampiamente note. Il teorema del garage compiacente e di una base brigatista prossima al luogo dove vennero lasciate le vetture utilizzate per la prima fase della fuga e addirittura – secondo alcuni oltranzisti – prima prigione di Moro, è un clamoroso falso che circola da diversi decenni. Ne parlò già nel dicembre 1978 un articolo della rivista glamour Penthause, divenuta una delle maggiori referenze della commissione Fioroni. Soprattutto entrò nella sfera giudiziaria quando il pm Amato raccolse questa voce durante le udienze del primo processo Moro. Successivamente se ne occupò la prima commissione Moro e la leggenda fu ripresa nella pagine del libro di Sergio Flamigni, La tela del ragno, pubblicato per la prima volta nel 1988 (Edizioni Associate p. 58-61), divenendo uno dei cavalli di battaglia della successiva pubblicistica dietrologica. Alla luce di questi precedenti, con buona pace del povero Fioroni, l’allarme tra gli ambienti vicini ai brigatisti sarebbe dovuto scattare diversi decenni prima.
Il presunto favoreggiamento
C’è un altro aspetto davvero singolare di questa vicenda che merita di essere sottolineato: nelle informative della polizia di prevenzione mi viene contestato di aver riportato nelle pagine del libro dedicate a via Fani solo parte di quanto contenuto nelle mail intercorse tra me e uno dei partecipanti al rapimento Moro. Ad avviso dei funzionari di polizia avrei trattenuto dei passaggi che avrebbero consentito di attenuare il ruolo di Alvaro Loiacono Baragiola nella vicenda. Affermazione davvero ardita perché oltre a non esser vera in punto di fatto, nel volume si ricostruisce nel dettaglio – come mai era avvenuto in precedenza – il ruolo avuto da “Otello” in via Fani, dal punto di vista giuridico (che poi è l’argomento dirimente in questa circostanza) l’eventuale difesa di una persona, per giunta condannata in via definitiva per quei fatti, non comporta alcun favoreggiamento penale. Altrimenti quanti scrittori o giornalisti che hanno scritto libri o preso le difese pubbliche di un imputato o di un condannato avrebbero dovuto essere accusati di favoreggiamento? Mi pare superfluo ricordare che l’intento del mio lavoro non era quello di difendere o condannare qualcuno ma ricostruire, il più fedelmente possibile, contesto e dinamica dei fatti.
«Chi controlla il passato controlla il futuro»
La vera questione che questa indagine solleva è l’inaccettabile intromissione del ministero dell’Interno e della procura della repubblica nel lavoro complicato e complesso di ricostruzione del passato. In una delle ultime relazioni dei servizi di sicurezza (2019) si puntava l’indice contro la ricerca storiografica indipendente sugli anni 70. A preoccupare gli apparati era la presenza di una lettura non omologata di quel periodo, etichettata come «propaganda», rispetto alle versioni storiografiche ufficiali. Il pericolo – scrivevano gli estensori del testo – è quello di «tramandare la memoria degli “anni di piombo” e dell’esperienza delle organizzazioni combattenti», un «impegno divulgativo, specie attraverso la testimonianza di militanti storici e detenuti “irriducibili» che – sempre secondo i Servizi – rischia di trovare consensi «nell’uditorio giovanile».
Siamo un Paese dove polizia e magistratura pretendono di decidere cosa un ricercatore debba scrivere in un libro
Nonostante il quasi mezzo secolo trascorso gli anni 70 fanno fatica a ritagliarsi un posto nella storiografia suscitando ancora grossi timori in settori di peso delle istituzioni che pretendono di mantenere una tutela etica su quel periodo, estendendo all’infinito la logica dell’emergenza antiterrorismo fino ad occupare il campo della conoscenza del nostro passato. Da alcuni anni è venuto meno il monopolio delle fonti sugli anni 70, un accesso più fluido alla documentazione (direttiva Prodi e Renzi) ha democratizzato la ricerca storica, in passato nelle mani della magistratura e delle commissioni parlamentari con la loro scia di consulenti e periti. Agli apparati, come ai dietrologi, tutto ciò non piace. Per decenni l’accesso riservato alle carte aveva messo nelle loro mani un formidabile strumento per mistificare la storia, costruire un discorso funzionale ai poteri, una narrazione ostile alla storia dal basso, che nega alla radice l’agire dei gruppi sociali fino a negare la capacità del soggetto di muoversi e pensare in piena autonomia, secondo interessi legati alla propria condizione sociale, politica, culturale, dando vita ad una sorta di nuovo negazionismo storiografico. Recintare lo spazio storiografico degli anni 70, stabilire chi può fare storia è l’obiettivo di fondo di questa inchiesta giudiziaria.
Paolo Persichetti
da insorgenze.net
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rettabaleno · 4 years
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(...)
Così dolce è passare
senza parole
per le buie strade del mondo -
per le bianche strade dei vostri pensieri -
così dolce è sentirsi
una piccola ombra
in riva alla luce -
così dolce serrarsi
contro il cuore il silenzio
come la vita più fonda
solo ascoltando le vostre anime andare -
solo rubando
con gli occhi fissi
l’anima delle cose -
(...)
Antonia Pozzi, Sorelle, a voi non dispiace
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satiratea · 4 years
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immensoamore · 5 years
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Ai baci ho sempre preferito gli abbracci, per quella sensazione carnale, impareggiabile, di cuore contro cuore, di cuore sopra cuore, quando cuore e cuore si parlano a battiti, a colpi dentro il petto e, se cuore e cuore l'un per l'altro sono giusti, insieme fanno un solo suono, un unico "tum tum" euritmico, intonato, che ti esplode nelle orecchie come una rivelazione, come un fatto taciuto che all'improvviso si racconta.
Mi piace il perimetro di quegli abbracci, il cerchio perfetto che descrivono. Ci si sente ricomposti dentro, assemblati a mestiere: testa, braccia, pancia e gambe in ordine, precisi. Si fa più vera, dentro il perimetro di quegli abbracci, la certezza di essere esattamente dove si dovrebbe, di aver trovato una casa mobile nella quale entrare, aprendo le braccia verso l'altro e poi chiudendole, a qualunque latitudine, polo o pizzo di mondo.
E' la felicità a portata di mano e di cuore, letteralmente.
Antonia Storace - Donne al Quadrato -
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fotopadova · 5 years
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Francesca Della Toffola
di Cristina Sartorello
 --- Una interessante insolita e innovativa esposizione in una particolare location a Ceggia nello Spazio Ramedello creato da Valeria Davanzo che, per Nino Migliori, il grande fotografo bolognese, potrebbe essere chiamato “L’isola della cultura” pur essendo una ex stalla adattata a spazio artistico e di incontro per eventi culturali, ci propone la mostra di Francesca Della Toffola “Accerchiati incanti”.
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        Francesca Della Toffola
E’ lei la vincitrice a Lignano Sabbiadoro della sezione fotografia del premio Hemingway 2018, proprio con questo progetto, con la seguente motivazione: “Oggi la fotografia nell’attuale passaggio epocale, dalle impronte chimico-fisiche a quelle elettroniche, offre sorprendenti e magiche possibilità di visualizzazione e non solo della realtà corporea ma del pensiero e dei sogni. La giovane fotografa Francesca Della Toffola ha individuato nella Nuova Fotografia un suggestivo spazio alla sua ansia poetica, che riesce ad esprimere in immagini alchemiche tese a visualizzare il suo pensiero onirico e nel contempo esistenziale, anche in una colta lettura delle storiche tracce della fotografa vittoriana-preraffaellita Julia Margaret Cameron, la prima a cercare, con la speculare fotografia di esprimere, oltre al volto delle cose, soprattutto la loro anima”.
Francesca ha iniziato come fotografa freelance, di matrimoni, come fotografa industriale e grafica, ed ora insegnante di fotografia a Montebelluna in un istituto superiore di grafica e comunicazione; inoltre è curatrice della rassegna Trevignano Fotografia, giunto quest’anno alla decima edizione.
Lei predilige in fotografia il ritratto, la natura con la macro e l’autoritratto utilizzando la fotografia come un linguaggio con il quale riesce a parlare della sua interiorità; partendo dalla sua ombra con lo stupor dei bambini, passando all’autoritratto ambientato che interpreta con una sua rivisitazione pittorialista dei piedi, delle mani e poi alla figura intera, poco il volto.
In questa mostra troviamo 45 cerchi di legno grezzo dipinti in bianco dalla autrice, di 60 centimetri di diametro ed altri più piccoli larghi 40 ed una serie inedita di sfere in plexiglass con all’interno due fotografie differenti, una contro l’altra, che occupano tutto il perimetro del cerchio per dare tridimensionalità e non solo profondità, come se le sfere fossero dei pianeti rotanti, in multipli movimenti.
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        Particolare della mostra “Accerchiati incanti” di Francesca Della Toffola (ph. Cristina Sartorello)
 Questo andare simbolicamente in sé stessi, in questa rotazione dello spirito per ritrovare il nocciolo, l’essenza del proprio sentire, è la specificità del lavoro di Francesca Della Toffola che nel 2010, parte con il tentativo di fusione con la natura, con il girasole, il mare, con una tecnica di doppia esposizione non in contemporanea, ma ottenuta con due fotografie unite al computer, perché la fotografa usa una macchina Canon 5D che non ha doppia esposizione in automatico.
Il progetto precedente “The black line series” è stato fatto con una Minolta a pellicola, reinserendo nuovamente la stessa pellicola nella macchina, rifotografando e quindi togliendo la striscia delle diapositive a colori, tagliandola lungo l’inquadratura ed ottenendo così una fotografia con parti di un fotogramma e con la striscia nera che lo divide da un altro.
In questo progetto la fotografa si nasconde nelle sue stanze per cercare i colori della mente, angoli colorati dove reinventare nuovi spazi, nuove dimensioni, in frammenti di pensieri, immagini, ferite, rigurgito emotivo, usando come sfondi gli affreschi di una villa antica, l’acqua di una piscina, muri bianchi o colorati in cui fondersi.
Poi Francesca ha sentito la necessità di uscire di casa ed unirsi con la sua parte femminile in una riscoperta di sé stessa a colori all’esterno, individuando lo sfondo nella realtà, fotografandolo in una fusione con la natura, le erbe, la neve, la terra; subito dopo la fotografa si posiziona lì, si mette in posa adagiata proprio su quel terreno, o un albero, un muro di cemento, delle piastrelle, luoghi e spazi che fanno parte della nostra vita, facendo la seconda o terza fotografia, per avere la stessa luce.
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                                        ©Francesca Della Toffola, due opere da “Accerchiati incanti”
 I capelli rossi e la carnagione chiara di Francesca Della Toffola nelle sue creazioni mi riportano alle figure evanescenti della pittura preraffaellita di Dante Gabriel Rossetti, la cui moglie Elisabeth Siddal, anche lei pittrice, fu la modella per l’Ofelia di John Everett Millais, con una lettura simbolica, metafisica, onirica.
La scelta dell’abito serve per mimetizzarsi nello sfondo, ed a seconda del colore si nota che la pelle vince sul bianco o sul crema, l’abito verde risulta bene sul prato nelle foto a tutto corpo, e dove c’è più luce il corpo sparisce, mentre nelle zone di ombra in corpo compare; negli autoritratti parziali le unghie dei piedi con lo smalto danno a Francesca un tocco di colore e di modernità, mentre le mani con le lunghe dita si confondono con la texture scelta.
L’artista scrive anche suggestive ed emozionali poesie che lei abbina alle sue fotografie, positivamente influenzata dai versi di Antonia Pozzi e di Andrea Zanzotto, con una forte sensibilità, mettendosi a nudo per esprimere le proprie emozioni poiché Francesca Della Toffola ha sempre pensato che la poesia si avvicina alla fotografia e la scrittura al cinema.
Ecco nascere queste stupende fotografie in formato circolare, perché il formato 24x36 le andava stretto, perché il cerchio rimanda alla terra, al ciclo delle stagioni e della vita; quindi questi scatti non sono esperimenti ma il frutto di un lavoro con sé stessa svolto con grande coraggio, con fantasia, creatività, scoperta, ricerca ed innovazione, nel quale sempre si mette in discussione, ed i risultati sono pregnanti, tangibili davanti a noi.
Francesca spiega la sua tecnica senza segreti, gelosie e possesso come molti fotografi non fanno; ora lei ha pubblicato due libri ben fatti: il volume “The black line series” e più recentemente “Accerchiati incanti” (Ed PuntoMarte) ove troviamo le foto rotonde in doppia esposizione con i suoi autoritratti che hanno il suo marchio e solo il suo, con queste figure immerse nell’acqua, nella luce, nel colore verde di felci preistoriche, piante fantastiche dei disegni di Lele Luzzati o di Leo Lionni, che ti fanno sognare.
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        Particolare della mostra “Accerchiati incanti” di Francesca Della Toffola (ph. Cristina Sartorello)
Francesca Della Toffola si è laureata con una tesi su Wim Wenders, ha frequentato corsi e workshop con eminenti maestri quali Franco Fontana, Mario Cresci e Arno Rafael Minkkinen e si è specializzata presso l’Istituto Italiano di Fotografia di Milano. Ha allestito mostre personali e partecipato a svariate collettive conseguendo qualificanti riconoscimenti, oltre al Premio Hemigway, come il Premio Internazionale di fotografia Creativa alla Biennale di Fotografia Contemporanea Internazionale della città di Jinan (Cina).
Sue immagini fanno parte di collezioni pubbliche e private, tra le quali l’Archivio Zannier, l’Archivio Storico Fotografico della Galleria Civica di Modena, il Museo Nori De Nobili e l’Archivio Nazionale dell’Autoritratto Fotografico di Senigallia.
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