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#Alessandro Niero
pangeanews · 4 years
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“Nulla dovrebbe essere – nulla è – intraducibile”. Come si traduce la poesia russa? Intervista a tre voci: Maurizia Calusio, Alessandro Niero, Serena Vitale
“Tanto grande e popolare la diffusione delle opere dei grandi prosatori dell’Ottocento, quanto scarsa e manchevole la conoscenza, anche nell’ambiente letterario, dei poeti lirici russi”.  Con queste parole, nel 1949 Franco Fortini (recensendo l’antologia Il fiore del verso russo di Renato Poggioli) constatava la scarsa diffusione della poesia russa in Italia. Anche oggi, certamente, quando si parla della grande letteratura russa si fanno prima di tutto i nomi di Tolstoj e Dostoevskij, eppure molto è cambiato da quel 1949: Puškin, Mandel’štam, Cvetaeva, Pasternak, Brodskij e molti altri hanno infittito gli scaffali di poesia nelle nostre librerie, grazie agli sforzi di numerosi traduttori che si sono adoperati per dar loro una voce italiana. Tre di questi traduttori (Maurizia Calusio, Alessandro Niero e Serena Vitale) hanno accettato di rispondere a quattro domande sulla poesia russa e su che cosa significhi tradurla.
Quali sono le qualità e gli strumenti necessari a un traduttore di poesia? E cosa di specifico richiede e offre la poesia russa?
Maurizia Calusio Un traduttore di poesia deve essere un lettore di poesia, ossia deve essersi formato dentro la propria tradizione poetica, avere familiarità, nel nostro caso, con la poesia italiana. Deve avere orecchio, perché altrimenti non potrà cogliere e restituire il ritmo della poesia, e per farsi l’orecchio può essere di grande aiuto imparare a memoria molte poesie italiane, e poi cercare di tradurre poeti russi che in qualche modo non siano lontani dai poeti lontani amati. Puoi essere ferratissimo nella metricologia, ma se non hai orecchio, se per te la tradizione poetica italiana non è qualcosa di vivo e costantemente frequentato, è difficile che si avverta la poesia dell’originale nelle tue traduzioni. Se non è un poeta, un traduttore di poesia deve essere un filologo dotato di orecchio. Nel mio caso, non essendo poeta, utilizzo gli strumenti del filologo. E il filologo deve studiare l’opera del poeta che si appresta a tradurre, e sulla base di questa conoscenza scegliere le edizioni migliori da cui trarre i testi (la scelta dell’edizione dice già molto della qualità di una traduzione). Occorre poi usare i (numerosi) vocabolari giusti: penso a Dal’, Ušakov, Ožegov, a seconda dell’autore che si ha davanti. È importante anche conoscere bene tutte le migliori traduzioni già esistenti dell’autore, in italiano, come anche nelle altre lingue più o meno note. Accostarsi alla traduzione con una voce originale, portando con sé ciò che ci ha spinti a tradurre un poeta, non significa farlo “ingenuamente”, ignorando per esempio quanto prima di noi è stato fatto. Il traduttore di poesia si inserisce infatti in una doppia tradizione: quella della poesia italiana (sulla quale il poeta che traduce è destinato a influire – perlomeno, se ha scelto di tradurre un grande poeta) e quella della traduzione poetica italiana, e in particolare dal russo.
Alessandro Niero Credo che un traduttore di poesia debba essere, come minimo, un suo frequentatore assiduo, nelle varie forme in cui ciò può avvenire; ossia deve essere, imprescindibilmente, un lettore (appassionato ma non superficiale) e un grande utente della lingua, cioè avere la consapevolezza tecnica di cosa significhi comporre versi. Se, poi, a questi due aspetti (già, a loro modo, operativi e pratici), si affianca anche una qualche forma di “produzione propria”, meglio ancora, anche se ciò – vorrei precisare – non credo che sia da considerarsi né un obbligo né una norma. La poesia russa, oltre ad aver sempre intrattenuto un rapporto vero con la dimensione popolare (anche folclorica) della poesia е con i suoi strati non culti, ha di specifico un non tramontato e naturale attaccamento ai presìdi formali (metro, rima, strofa), sebbene sempre meno. Ciò pone al traduttore il dilemma se sforzarsi o meno di riproporre analoghi presìdi anche nella lingua di arrivo.
Serena Vitale Qualità? Pazienza e testardaggine. È necessario un buon orecchio (musicale). Più di tutto, forse, è necessaria una buona (preferibilmente ottima) conoscenza della lingua come pure della letteratura – in particolare la poesia – italiana. La conoscenza della lingua e della cultura russa mi sembra l’ovvio punto di partenza. “Strumenti” per tradurre? I dizionari – non ne vedo altri, ma a chi traduce poesia serviranno ben poco. Molto più utile, credo, è cercare nel Korpus della lingua russa le occorrenze del vocabolo che si vuole tradurre, ricostruirne la “storia”, i contesti in cui è già apparso. Sono convinta che volgere versi russi in italiano non presenti al traduttore difficoltà e/o problemi diversi da quelli che pone ogni traduzione poetica, salvo forse la maggiore libertà della poesia italiana, dal ’900 in poi, nei confronti della metrica e delle rime.
«Se il traduttore è una persona coscienziosa, cercherà di imitare la forma». Così categoricamente si esprimeva Iosif Brodskij nel 1979, in un’intervista con Eva Burch e David Chin. Siete d’accordo con quello che dice Brodskij? La riproduzione della forma è un elemento imprescindibile della traduzione poetica?
Maurizia Calusio Per me tradurre significa cercare di portare quanto più possibile del testo originale russo nella lingua italiana. Non si può portare tutto, le perdite sono irrimediabili, e implicite nell’atto stesso del tradurre. Nelle mie traduzioni, il metro e la rima dell’originale vanno perduti, mentre cerco di conservare quanto più possibile sintassi, immagini, lessico. In ogni caso, il rimando alla tradizione russa contenuto nella scelta di un metro come di un singolo vocabolo va pressoché sempre irrimediabilmente perduto. Il ritmo che mi sforzo di conservare è quello della sintassi (cercando di preservare la posizione delle parole a fine verso, ad esempio) e per fare questo cerco di procurarmi (quando ci sono) letture del testo russo, se possibile d’autore, altrimenti di un madrelingua (meglio se poeta in proprio). In questo senso anche il ritmo della lettura può essere una guida per restituire la sintassi.
Alessandro Niero Credo che le opinioni di Brodskij vadano viste alla luce della sua vicenda privata e delle sue predilezioni personali. Essendo egli stesso un acceso cultore della forma (anche se, con il tempo, divenne più allentata, sempre meno pressante), non poteva che richiamare il traduttore al rispetto della stessa; tanto più che si trovò nella singolare situazione di chi decise, a un certo punto, di autotradursi e, quindi, di sperimentare, con tutte le difficoltà del caso, ma anche con autorevolezza e autorialità, cosa voglia dire traghettare se stesso su altre sponde linguistiche cercando di trasmettere “tutto”. Quanto alle predilezioni personali, ricorderei che Brodskij (e non solo lui, ovviamente) stimava grandemente figure di calibro mondiale come Anna Achmatova, Osip Mandel’štam, Marina Cvetaeva, Boris Pasternak; i quali sono tutti autori primonovecenteschi che, nella loro scrittura, si sintonizzavano “fisiologicamente” sulle esigenze dettate da un certo tradizionalismo formale. Brodskij, da madrelingua qual era, ma anche da figura in grado di inserirsi potentemente nel contesto anglo-americano che lo adottò nel 1972 dopo l’emigrazione forzata dall’URSS, non poteva che leggere come inadeguati gli sforzi di chi impiegava uno strumento apparentemente lassista come il verso libero per spostare da una cultura all’altra testi di straordinario valore contenutistico e formale. Se poi questa sia una posizione da condividere pienamente, è un altro discorso. Traducendo poesia si cade inevitabilmente nel contesto di arrivo, dove vigono regole, spesso tacite, che reindirizzano quella stessa poesia, la adattano a ciò che quel contesto ritiene lecito, praticabile, rientrante nel gusto. È tra due confini – la spinta a rispettare gli istituti formali dell’originale e la cultura di accoglienza – che il traduttore deve ricavarsi uno spazio praticabile, una specie di “zona franca”. In questo non ci sono regole e non vi è nulla di scontato. Se posso, rimanderei, per complicare ulteriormente la cosa (e farmi un po’ di goffa pubblicità), a un mio volume che affronta queste tematiche: Tradurre poesia russa. Analisi e autoanalisi (Quodlibet, 2019).
Serena Vitale Chissà se ha detto proprio “imitare”… E chissà se il termine “riproduzione” si può applicare all’arte del tradurre. Per la poesia russa la “forma” è un elemento imprescindibile, una necessità quasi ontologica. Nel 2000 sempre Brodskij ha detto: “…Il poeta dovrebbe ripercorrere le strade della letteratura che lo ha preceduto, cioè passare attraverso una scuola formale. Altrimenti il peso specifico della parola nel verso si azzera”. La “forma” per Brodskij, è strettamente legata al Tempo, e il metro gli offre la possibilità (o soltanto l’illusione) di riorganizzare un tempo quasi mai amico. Del resto Brodskij ricorre al metro con una grande libertà e, seppure raramente, si cimenta anche nel vers libre, capace di rendere il “miracolo della lingua quotidiana”.
Esistono poeti russi intraducibili? Se sì, quali e perché?
Maurizia Calusio Puškin, naturalmente. In Puškin c’è una perfezione originaria che è al contempo il massimo della semplicità e il massimo della raffinatezza. L’italiano, con i suoi meravigliosi e ingombranti ottocento anni di tradizione poetica, è del tutto impotente a restituirla. Bisognerebbe tornare alla purezza della lingua primigenia di Dante, e coniugarla con la felicità di tutta la poesia successiva… bisognerebbe mettere dentro tutto, e questo non si può fare. Un altro poeta che si avvicina per difficoltà a Puškin è l’ultimo Boratynskij, quello della raccolta Sumerki (Crepuscolo), un poeta che io amo molto. Si può tradurne bene la sintassi, ma il suo lessico – al contempo lessico filosofico e lessico dell’elegia russa – è molto difficile da rendere. Continuo a provarci.
Alessandro Niero Se volessi essere sbrigativo e categorico le direi che in varia misura lo sono tutti. Ma sarebbe una posizione inutile, non produttiva e, soprattutto, irrispettosa di quanto è stato ottimamente fatto da molti traduttori italiani. Un nome, però, mi sento di farlo, ed è, paradossalmente, quello del poeta più grande di tutti, ossia Aleksandr Puškin (1799-1837), soprattutto per quanto riguarda la sua lirica (il suo miracoloso romanzo in versi Evgenij Onegin è un capitolo a parte). Con tutto il rispetto per i miei colleghi traduttori, devo dire che in pochi, pochissimi casi mi è capitato di sentire una voce italiana che abbia saputo contemplare, nel volgere di un testo, il romanticismo ammantato di eleganza classica, la capacità di essere tragico ma con straordinaria levità, la scarsa inclinazione alla pirotecnia formale esibita e perfino all’uso dei tropi e l’invidiabile tecnica di versificazione che costituiscono, ancorché sommariamente, la mia idea di Puškin.
Serena Vitale Nulla dovrebbe essere – nulla è – intraducibile. Sono stati tradotti poeti, ad esempio, come Chlebnikov e Cvetaeva, che pure in alcune loro opere sembrano rifiutarsi a ogni tentativo di resa in un’altra lingua.
Quali sono i poeti russi che non hanno ancora voce in Italia, o che aspettano una ritraduzione?
Maurizia Calusio Tra i poeti novecenteschi che non hanno voce in Italia c’è sicuramente Boris Poplavskij (1903-1935), grande talento della giovane generazione dell’emigrazione russa. Poplavskij è un autore su cui sto lavorando e che spero di poter pubblicare in un futuro non troppo lontano. Poi ci sono casi come quello di Nikolaj Zabolockij, poeta dell’età sovietica che, come non pochi altri russi, è noto solo per qualche scelta antologica.
In generale sarebbe importante anche dare versioni aggiornate di antologie che – come quelle di Ripellino e Poggioli – hanno consentito la ricezione dei poeti russi nel ’900 italiano. Oggi sarebbe il caso di riunire gli sforzi di più traduttori, che potrebbero lavorare ciascuno sui poeti e i testi più amati e meglio studiati. Un progetto che poi si potrebbe ampliare, grazie alle possibilità che oggi offre il digitale, per riprodurre la trama delle relazioni strettissime tra poeti russi e italiani. E sul fatto che per i poeti italiani i poeti russi siano importantissimi, non credo servano qui degli esempi.
Alessandro Niero Per quanto riguarda il XVIII secolo, sarebbe opportuno riproporre un poeta come Gavrila Deržavin. L’Ottocento – come dicevo sopra – ha il “problema” di Puškin. Il primo Novecento è stato ampiamente frequentato e annovera ormai dei lavori che sono o si avviano a essere dei “classici della traduzione” (penso ai lavori di Angelo Maria Ripellino, soprattutto, e più recentemente, a Serena Vitale, Remo Faccani e Caterina Graziadei). Ciò non significa che non si debba procedere a “rinfrescare”, per esempio, la ricezione italiana di Anna Achmatova e di Velimir Chlebnikov, così come quella di un autore ingiustamente negletto, Nikolaj Zabolockij. La poesia dell’emigrazione, poi, manca in Italia dei nomi di Boris Poplavskij e di una scelta vasta di Georgij Ivanov. Per il secondo Novecento, le cose si fanno certamente più complicate, giacché non esiste ancora un “canone” stabilizzato del who is who. Certo, un poeta come Iosif Brodskij – già in parte tradotto – andrebbe riconsiderato, così come andrebbero riconsiderate la sua generazione e quella immediatamente successiva, che comunque ha visto già alcuni volumi editi, ma aspetta ancora il traduttore di Bachyt Kenžeev, Inna Lisnjanskaja, Jurij Kublanovskij, Oleg Čuchoncev. Forse un’idea complessiva della poesia di Evgenij Evtušenko e di Andrej Voznesenskij pure non sarebbe da trascurare… Ma sono sicuro di aver fatto torto a qualcuno. Ecco perché, se ci spostiamo verso il contemporaneo in senso stretto, temo che i nomi si infoltiscano a tal punto da indurmi a scaricare la patata bollente sul collega e traduttore Massimo Maurizio, che ne sa più di me e che ha già strumenti affilati per distinguere il grano dal loglio.
Serena Vitale A mio avviso tutte le buone traduzioni (di poesia o prosa) sono sempre importanti e benvenute, quindi anche le “ritraduzioni” – purché affrontate con modestia, amore, senza alcuna pretesa di dimostrare “quanto sono più bravo io di X o Y”… Tra i poeti “che non hanno ancora voce in Italia” (salvo qualche lirica in raccolte antologiche e una versione non a stampa, che si può leggere on line, dеllo splendido poema Terra bruciata) devo forzatamente limitarmi e segnalo soltanto Nikolaj Kljuev, un grande del ’900 russo.
*Interiste a cura di Stefano Fumagalli; in copertina: Anna Achmatova (1889-1966)
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padovajazzclub · 4 years
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                                           HALL OF FAME  
 Artisti ospitati dal Jazz Club  rassegne jazz 2009 2010 2011 2012 2013
Venerdì,20 dicembre 2013
FERENC NEMETH "TRIUMPH" 4et
Kenny Werner - piano Gregory Tardy – tenor sax Lionel Loueke - electric bass Ferenc Nemeth - drums
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Giovedì,4 dicembre 2013
Simone Graziano "Frontal" 5et
Simone Graziano-piano
David Binney-alto sax
Dan Kinzelman -tenor sax
Gabriele Evangelista-contrabbasso
Stefano Tamborrino -drums
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Giovedì,24 ottobre 2013
SILVANIA DOS SANTOS Trio Silvania Dos Santos-vocals Ennio Righetti-guitar,mandolino e cavaquinho Roberto Rossi-drums , percussion
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Giovedì,16 ottobre 2013
OFF THE CHARTS 4et
Pietro Tonolo-tenor sax
Andrea Pozza-piano
Lorenzo Conte-double bass
Ferenc Nemeth-drums
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Giovedì ,10 ottobre 2013
Alex Schultz-guitars  Raphael Wressnig-hammond Silvio Berger-drums,tamburine
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Giovedì,3 ottobre 2013
The Mixtapers  feat. Flavio Sigurtà
Nico Menci-Keyboards
Michele Manzo-basso e chitarra
Brother Martino-drums
Flavio Sigurtà-tromba
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Giovedì,8 agosto 2013
Michael Blake-tenor sax  from NEW YORK
Alessandro Lanzoni-piano
Gabriele Evangelista-contrabbasso
Tommaso Cappellato-drums
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Giovedì,10 maggio 2013
MICHELA GRENA & THE ONE BEAT BAND
Michela Grena - voce Gianpaolo Rinaldi – pianoforte e tastiere Luca Amatruda - basso Andrea Pivetta - batteria Mirko Cisilino - tromba
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Giovedì,28 marzo 2013
Arthur Kell 4et
Loren Stillman - sax contralto
Brad Shepik - chitarra
Arthur Kell - contrabbasso
Tommaso Cappellato -batteria
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Giovedì,20 febbraio 2013
Kelvin Sholar Trio
kelvin Sholar-piano
Andrea  Lombardini-bass
Tommaso Cappellato-drums
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Giovedì ,9 febbraio 2013
Glaucorius 4et
Glauco Benedetti-basso tuba
Luca Grani-chitarra
Davide Agnoli-sax contralto
Lorenzo Terminelli-batteria
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Giovedì,7 febbraio 2013
Leroy Emmanuel 5et
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Giovedì,29 novembre 2012
Diodati Neko 4et
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Giovedì,22 novembre 2012
Hobby Horse trio
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Giovedì,25 ottobre 2012
Malastrana 4et
Michael Rosen-sax soprano
Stefano Raffaelli-piano
Flavio Zanon-contrabbasso
John B.Arnold-batteria ******
Giovedì,18 ottobre 2012
JELLY ROLLS BAND
Sergio Gonzo- tromba Fiorenzo Martini- tromba Marco Ronzani-sax soprano Bobo Beraldo-sax contralto Marco Bressan-sax tenore Luca Moresco-trombone  Giovanni Carollo-chitarra elettrica Andrea Miotello-chitarra elettrica  Federico Valdemarca-contrabbasso Giulio Faedo-batteria
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Giovedì,11 ottobre 2012
GROOVE ELECTION 5et
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Giovedì,4 ottobre 2012
Matteo Raggi,Davide Brillante,Luciano Milanese,Carlo Milanese
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Giovedì,27 settembre 2012
MORROCOY BAND
Ascanio Scano,Giuseppe Bertolino,Pasquale Cosco,Marco Andrighetto
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Giovedì,20 settembre 2012
GIANNI STEFANI 4et
Gianni Stefani-sax tenore
Matteo Alfonso-piano
Nicola Bortolanza-contrabbasso
Luca Lazzari-batteria
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Giovedì,3 maggio 2012
MEETING SOUNDS 4et
Claudio Giovagnoli- sax tenore
Simone Graziano-piano
Gabriele Evangelista-contrabbasso
Bernardo Guerra-batteria
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Giovedì,26 aprile 2012
Fabio Giachino trio
Fabio Giachino: pianoforte
Davide Liberti: contrabbasso
Ruben Bellavia: batteria
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Giovedì,19 aprile 2012
Alessia Obino 4et
Alessia Obino-voce
Fabrizio Puglisi-piano
Stefano Senni-contrabbasso
Tommaso Cappellato-batteria
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Giovedì,5 aprile 2012
Gabriele Boggio Ferraris 4et
Alessandro Rossi - batteria
Michele Tacchi contrabbasso
Gabriele Boggio Ferraris-vibrafono
Mirko Mignone-piano
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Giovedì,29 marzo 2012
Raffaele Genovese trio
Raffaele Genovese-piano
Marco Vaggi-contrabbasso
Ferdinando Faraò-batteria
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Lunedì , 26 marzo 2012
Simone Graziano Project  
Chris Speed -tenor sax
David Binney-alto sax
Simone Graziano-piano
Gabriele Evangelista-contrabbasso
Stefano Tamborrino -drums
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Giovedì,22 marzo 2012
Dario Carnovale-piano
Massimo Serafini-contrabbasso
Luca Colussi -batteria
Max Ionata -sax tenore
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Mercoledì,7 marzo 2012
RALPH ALESSI & SIMONE GUIDUCCI  Gramelot Ensemble
Ralph Alessi-tromba Achille Succi-clarinetto Oscar Del Barba-piano
Simone Guiducci-chitarra Giulio Corini-contrabbasso Andrea Ruggeri-batteria
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Giovedì,2 febbraio 2012
Andy Gravish e Mike Campagna 5et  
Andy Gravish -trumpet
Mike Campagna-tenor sax
Alessandro Collina-piano
Marc Peillon-double bass
Rodolfo Cervetto-drums
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Giovedì,26 gennaio 2012
DONATELLA VALGONIO 4et
Donatella Valgonio-voce
Stefano Caniato-piano
Peppe Rappa Rosario-contrabbasso
Paolo Mappa-batteria
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Giovedì,15 dicembre 2011
Tommaso Genovesi 4et
Tommaso Genovesi - piano
Nevio Zaninotto - sax tenore
Danilo Gallo – contrabbasso
U.T. Ghandi - batteria
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Mercoledì,14 dicembre 2011
Grant Stewart Italian 4et
Grant Stewart - sax tenore from Canada
Alessandro Collina - piano
Giovanni Sanguineti - contrabbasso
Enzo Carpentieri - batteria
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Giovedì,24 novembre 2011
Guglielmo Grillo trio
Guglielmo Grillo-voce e chitarra
Lello Petrarca-piano e basso
Domenico De Marco-batteria
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Giovedì,10 novembre 2011
Marco Pacassoni 4et
Marco Pacassoni-vibrafono
Enzo Bocciero-piano
Lorenzo De Angeli-contrabbasso
Matteo Pantaleoni-batteria
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Mercoledì,3 novembre 2011
Joel Holmes trio
Joel Holmes-piano
Stefano Senni-contrabbasso
Pietro Valente-batteria
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Giovedì,27 ottobre 2011
Danielle Di Majo 5et
Danielle Di Majo-sax contralto
Giancarlo Maurino-sax tenore
Fabio Giachino-piano
Marco Piccirillo-contrabbasso
Emilio Bernè -batteria
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Giovedì,20 ottobre 2011
Felice Clemente 4et
Felice Clemente-sax tenore e soprano
Massimo Colombo-piano
Giulio Corini-contrabbasso
Massimo Manzi-batteria
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Giovedì,13 ottobre 2011
Pietro Bonelli New Voice trio
Pietro Bonelli-chitarra
Pino Fusco-voce ed effetti
Daniele Petrosillo-basso elettrico
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Giovedì,6 ottobre 2011
Francesco Socal " Klezmer " 4et
Francesco Socal-clarinetto e voce
Enzo Moretto-fisarmonica
Giorgio Panagin-contrabbasso
Niccolò Romanin-batteria
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Giovedì,29 settembre 2011
Paolo Recchia - sax contralto Nicola Muresu - contrabbasso Nicola Angelucci - Batteria
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Mercoledì ,28 settembre 2011
ANDREA LOMBARDINI  & his BROKEN BAND
Andrea Lombardini - Basso Elettrico Fulvio Sigurtà - Tromba Paolo Porta - Sax tenore Federico Casagrande – Chitarra elettrica Marcos Cavaleiro - Batteria *****
Giovedì,22 settembre 2011
Max Amazio-chitarra Ugo Bongianni-piano Andrea Cozzani-basso Angelo Ferrua-batteria
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Giovedì,15 settembre 2011
Dario Carnovale trio  Feat.  Fabrizio Bosso
Fabrizio Bosso-tromba
Dario Carnovale-piano
Simone Serafini-contrabbasso
Luca Colussi-batteria
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Giovedì,8 settembre 2011
Maria Patti " The Silver Lining" 4et
Maria Patti-voce
Michele Franzini -piano
Attilio Zanchi-contrabbasso
Tommy Bradascio-batteria
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Giovedì,18 agosto 2011
Michael Blake-sax tenore Stefano Senni-contrabbasso Tommaso Cappellato-batteria
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Giovedì,23 giugno 2011
HOT BOW  trio
Mattia Martorano-violino
Andrea Boschetti-chitarra acustica
Beppe Pilotto-contrabbasso
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Giovedì,16 giugno 2011
Fabrizio Gaudino 4et
Fabrizio Gaudino-tromba
Danilo Memoli-piano
Luca Pisani-contrabbasso
Oreste Soldano-batteria
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Giovedì,9 giugno 2011
Robert Bonisolo- tenor sax
Marc Abrams-double bass
Enzo Carpentieri-drums
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Lunedì,23 maggio 2011
El Portal 5et
Nolan Lern -tenor sax
Rainier Davies- guitar
Paul Bedal-fender Rhodes
Joe Rehmer-bass
Dion Kerr-drums
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Giovedì,19 maggio 2011
Sara Righetto 4et
Sara Righetto-voce
Roberto Brusca-piano
Rosa Brunello-contrabbasso
Davide Lo Cascio-batteria
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Giovedì,12 maggio 2011
Intersection 4et
Mattia Dalla Pozza-sax contralto
Paolo Garbin-piano
Franco Catalini-contrabbasso
Enrico Smiderle- batteria
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Giovedì,5 maggio 2011
Alessandra Pascali 4et
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Giovedì,28 aprile 2011
Paolo Faga 5et   from Milano
Paolo Faga-tromba
Flavio Nicotera-sax tenore
Mario Zara-piano
Tito Mangialajo-contrabbasso
Giorgio Di Tullio-batteria
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Giovedì,21 aprile 2011
Enrico Dal Bosco 5et
Enrico Dal Bosco-sax contralto
Roberto Soggetti-piano
Massimo Niero-chitarra
Cristian Roque Allende-basso elettrico
Max Chiarella-batteria
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Giovedì,14 aprile 2011
Michele Manzo -Marc Abrams-Tommaso Cappellato
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Giovedì,7 aprile 2011
Psaico Bop 4et
Fabrizio Puglisi-piano
Alessio Alberghini-sax baritono e soprano
Tiziano Zanetti-contrabbasso
Claudio Trotta-batteria
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Mercoledì,6 aprile 2011
Flavio Sigurtà 5et
Flavio Sigurtà-tromba
James Allsopp-sax tenore
Francesco Casagrande-chitarra
Riaan Vofloo-contrabbasso
Timothy Giles-batteria
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Giovedì,31 marzo 2011
Sugar Pie & the Candymen
Giorgia Ciavatta-voce
Jacopo Delfini-chitarra gipsy
Renato Podestà-chitarra semiacustica
Alex Carreri-contrabbasso
Roberto Lupo-batteria
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Giovedì,17 marzo 2011
G.B. Funky & Jazz Orchestra ( 12 elementi)
Gastone Bortoloso -direzione ,arrangiamenti e tromba solista
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Giovedì,10 marzo 2011
Antonello Marafioti-piano Stefano Senni-contrabbasso Tommaso Cappellato-batteria
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Giovedì,3 marzo 2011
Massimo Zemolin -chitarra  Stefano Olivato -armonica Leonardo Di Angilla -pandeiro
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Giovedì,24 febbraio 2011
RAPHAEL WRESSNIG Trio (swinging' the blues) Raphael Wressnig organo Hammond B3 Scott Steen tromba Vincenzo Barattin batteria
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Giovedì,17 febbraio 2011
Alex Sipiagin - Michele Calgaro Duo Alex Sipiagin Tromba Michele Calgaro Chitarra
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Giovedì,10 febbraio 2011
LEYDIS MENDEZ Y CARRETERA CENTRAL (son cubano) Leydis Mendez chitarra e voce Gianluca Nuti chitarra tres e cori "Mr. Top" Tiziano Melchiori bongos e cori Stefano Andreatta basso e flauto Mario Zivas tromba
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Giovedì,3 febbraio 2011
BLUE NAIF Fabio Rossato-Accordeon Mattia Martorano-violino Andrea Boschetti-chitarra acustica Alessandro Turchet-contrabbasso
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Giovedì,27 gennaio 2011
NEW QUARTET Danilo Memoli-piano Gianni Stefani-sax tenore Stefano Senni-contrabbasso Max Chiarella-batteria
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Giovedì,20 gennaio 2011
BOCHO FIGO Quartet Lisandra Hernandez Betaille ”da Cuba” (voce & chitarra) Matteo Pescarolo (sax tenore e soprano, clarinetto, flauto) Daniele Labelli (tastiere) Pasquale Cosco (contrabbasso)
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Giovedì,23 dicembre 2010
Stefano Raffaelli,Fiorenzo Zeni,Romano Todesco,Giorgio Zanier
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Govedì,16 dicembre 2010
Marco Zambon,Angelo Ferlini,Giorgio Panagin,Marco Callegaro
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Giovedì,9 dicembre 2010
Nicola Fazzini,Riccardo Chiarion,Marco Privato,Luca Colussi
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Giovedì,25 novembre 2010
Carlo Porfilio,Marco Bassi,Nicola Di Camillo
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Giovedì,18 novembre 2010
Federico Casagrande,Christophe Panzani,Ferenc Nemeth
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Giovedì,11 novembre 2010
Dario Carnovale,Simone Serafini,Luca Colussi
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Giovedì,4 novembre 2010
Gianni Stefani,Ivan Tibolla,Franco Catalini,Tommaso Cappellato
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Giovedì,21 ottobre 2010
Maria Patti,Luciano Zadro,Attilio Zanchi,Marco Castiglioni
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Giovedì,14 ottobre 2010
Marco Pacassoni ,Giacomo Dominici ,Filippo Lattanzi
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Giovedì,7 ottobre 2010
Max Amazio,Ugo Bongianni,Andrea Cozzani,Angelo Ferrua
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Giovedì,30 settembre 2010
Guido Bombardieri – sax soprano  Roberto Soggetti – piano
Sandro Massazza – contrabbasso  Valerio Abeni – batteria
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Giovedì,23 settembre 2010
Sandro Gibellini-Ares Tavolazzi-Mauro Beggio
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Giovedì,29 luglio 2010
Mimmo Turone,Max Turone,Fiorenzo Ferriani
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Giovedì,22 luglio 2010
TEATRIO'
Marta Facco,Stefano Santangelo,Fabiano Guidi Colombi,Giancarlo Tombesi
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Giovedì,15 luglio 2010
Francesco Geminiani,Marcello Tonolo,Lorenzo Conte,Tommaso Cappellato
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Giovedì,8 luglio 2010
Stefano Raffaelli,Romano Todesco,Fiorenzo Zeni,Giorgio Zanier
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Giovedì,20 maggio 2010
Matteo Raggi 4et
Matteo Raggi -sax tenore
Davide Brillante-chitarra
Mirko Scàrcia-contrabbasso
Stefano De Rosa - batteria
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Giovedì,6 maggio 2010
ALMA SWING
Mattia Martorano-violino
Lino Brotto-chitarra
Andrea Boschetti-chitarra ritmica
Diego Rossato-chitarra ritmica
Beppe Pilotto-contrabbasso
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Giovedì,29 aprile 2010
BALKANICA
Sladjana Bozic-accordeon
Maurizio Scavezzon-contrabbasso
Divide Michieletto-batteria
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Giovedì,22 aprile 2010
Marco Zambon 4et
Marco Zambon-sax tenore
Dario Volpi-chitarra
Otello Savoia-contrabbasso
Marco Callegaro-batteria
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Giovedì,15 aprile 2010
PIETRO BONELLI Group
Pietro Bonelli-chitarra
Mario Zara-piano
Daniele Petrosillo-contrabbasso
Giorgio Di Tullio-batteria
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Giovedì,8 aprile 2010
TEA  FOR FIVE
David minotti- jazz crooner
Alberto Berlese-piano
Giovanni Masiero-sax tenore
Mauro Bonaldo-contrabbasso
Luca Lazzari-batteria
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Giovedì,1 aprile 2010
STEFANO RAFFAELLI Trio
Stefano Raffaelli-piano
Flavio Zanon -contrabbasso
Giorgio Zanier-batteria
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Giovedì,25 marzo 2010
DARIO CARNOVALE trio
Dario Carnovale-piano
Simone Serafini-contrabbasso
Luca Colussi-batteria
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Giovedì,18 marzo 2010
ORIGINAL PERDIDO JAZZ BAND
Giannantonio Bresciani,Saulo Agostini,Federico Benedetti,Rossano Fravezzi ,
Francesco (Chicco) Agostini
Gianni Romano,Maurizo Rozzoni,Piero Delia,Caterina Dal Zen
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Giovedì,11 marzo 2010
MIMMO TURONE Trio
Mimmo Turone-piano
Aron Widmarck-contrabbasso
Vittorio Sicbaldi-batteria
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Giovedì,25 febbraio 2010
Monica Giorgetti 4et
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Giovedì,11 febbraio 2010
Giovanni Perin-vibrafono Giuliano Perin-piano Otello Savoia-contrabbasso
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Giovedì,28 gennaio 2010
Maria Patti trio
Maria Patti-voce
Massimo Colombo-piano
Attilio Zanchi-contrabbasso
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Giovedì,21 gennaio 2010
Mauro Negri Trio
Mauro Negri-clarinetto
Marcello Tonolo- piano
Stefano Senni -contrabbasso
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Giovedì,17 dicembre 2009
Marco Zambon 4et
Marco Zambon-sax tenore
Aaron Widmark-piano
Giorgio Panagin-contrabbasso
Marco Callegaro-batteria
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Giovedì,3 dicembre 2009
FABRIZIO GAUDINO Trio
Fabrizio Gaudino-tromba e flicorno
Oscar Zenari-piano
Luca Pisani-contrabbasso
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Giovedì, 26 novembre 2009
ADOVABADAN JAZZ BAND
Franz Falanga-piano
Michele Uliana-clarinetto
Isaac De Martin-chitarra
Mauro Brunato-banjo
Fabio Sparano-contrabbasso
Paolo Marconati-batteria
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Giovedì, 22 ottobre 2009
ROBERTO RIGHETTO 4et
Roberto Righetto-chitarra
Marco Strano-sax tenore e soprano
Domenico Santaniello-contrabbasso
Marco Campigotto-batteria
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Giovedì,15 ottobre 2009
GIORGIA SALLUSTIO Trio
Giorgia Sallustio-voce
Giuseppe Emmanuele-piano
Guido Bergliaffa
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lacollanaisola-blog · 7 years
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Elegia su Nuovi Argomenti
Su Nuovi Argomenti alcuni testi tratti da Elegia di Lev Rubinsteijn, seguiti da una nota di Alessandro Niero.
http://www.nuoviargomenti.net/poesie/elegia-2/
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fluttering-slips · 13 years
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SKY
Too often one thinks- metaphorically and not- of a sky fused to the earth.  The prerogatives of October though draw the clouds above with picture postcard clarity, colors too saturated to be real. Two worlds grazing and gazing upon one another and we too are spectators.
  ALESSANDRO NIERO
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pangeanews · 4 years
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“Scopo dell’arte è donare se stessi, non clamore o successo”. Dialogo su Boris Pasternak con Alessandro Niero
Dico – indipendentemente dal mio ardore, dalle mie primaverili passioni. Mi è sempre parso un paradosso. Una idiozia, meglio. Le poesie di Boris Pasternak, tra i poeti più grandi del secolo, in Italia sono introvabili. Certo, c’è l’antologia Einaudi, rabdomantica, di Angelo Maria Ripellino, una specie di miracolo: ma quella, appunto, fa venire voglia di leggere tutto il resto. Assente. Boris Pasternak è il solo poeta a cui il Nobel per la letteratura – egli lo intuiva, per altro – abbia fatto l’effetto di una ghigliottina, di una affettatrice. Pasternak, così, è passato alla storia della mistificazione letteraria come l’autore del Dottor Živago, romanzo potente, per carità, non indimenticabile (le parti più belle, guarda caso, sono quelle ‘liriche’); e Mondadori ha dedicato a un poeta un ‘Meridiano’ per le Opere narrative (tra l’altro, ottimamente introdotto da Vittorio Strada e con una congrua Cronologia curata da Evgenij Pasternak). Paradossale, appunto. Così, per leggere i poemi di Pasternak (L’anno novecentocinque; Il sottotenente Schmidt; Spektòrskij) bisogna raspare nei mercatini (io ho una versione delle Edizioni Accademia del 1968), mentre Mia sorella la vita, la raccolta stupefacente del 1922 (l’anno dell’Ulisse di Joyce e della Terra desolata di Eliot; l’anno in cui muore Proust, in cui Kafka comincia Il castello e Rilke termina le Elegie duinesi), la più nota, è pubblica – con copertina orrenda – da Mondadori, per la cura di Nadia Cicognini, nel 1999, ora è sparita dal circolo librario. Insomma, si è sempre trattato il poeta Boris Pasternak a pesci in faccia, o con progetti editoriali al limite dell’irrisorio (Le poesie di Jurij Živago edite da Feltrinelli nel 2018, che tutti conoscono perché sono in calce al fatidico romanzo). Per fortuna, da qualche anno, in visione di un anniversario doppio, importante – quest’anno sono i 60 anni dalla morte di Pasternak, i 130 dalla nascita – Passigli ha cominciato a pubblicare le poesie dell’immenso poeta russo. Dopo l’antologia curata da Marilena Rea, Anch’io ho conosciuto l’amore (2016) sono seguite le pubblicazioni di singole raccolte, Temi e variazioni (2018, a cura di Paola Ferretti; in origine 1923), Sui treni del mattino (2019, a cura di Elisa Baglioni; in origine 1943) e ora Quando rasserena, per la cura di Alessandro Niero, che esce a Parigi, in russo, nel 1959. L’ultima raccolta di Pasternak – che si poteva leggere, ma solo in parte, nel volume Feltrinelli Autobiografia e nuovi versi, ormai irreperibile – ha la gioia del congedo, la concretezza di ciò che non muta, senza invidia di cielo. Quando rasserena raccoglie alcune delle poesie più note di Pasternak, All’ospedale (“Spegnendomi in un letto d’ospedale,/ sento il calore delle mani Tue./ Mi tieni come fossi un manufatto,/ come un anello mi riponi in un astuccio”) e Arano, ad esempio, e alcune dichiarazioni di poetica che lasciano senza fiato per immediatezza, che vanno scritte sui muri di casa: “In ogni cosa ho voglia d’arrivare/ fino al nòcciolo, al nucleo”; “Scopo dell’arte è donare se stessi,/ non clamore o successo”; “Si deve invece vivere senza impostura,/ vivere così da attrarre, in fine, a sé/ l’amore dello spazio,/ udire la chiamata del futuro”. Mentre lavora a questa raccolta, nel 1958, Pasternak scrive a Nina Tabidze, pieno di una energia imperiale, nuova, evocando il futuro, il prossimo candore, “di fronte a me, ancora vivo, si libera uno spazio la cui integrità e purezza vanno dapprima comprese e poi riempite di questa comprensione”. Pasternak è il poeta che ausculta il mistero, la sua forma di vento e di betulla, di sciacallo e di collina – e a noi, tra le mani, poverissime, pare un premio. (d.b.)
Ripellino amava poco l’ultimo Pasternak; d’altronde Pasternak stesso sembra minimizzare, in alcune lettere, le poesie di Quando rasserena: come mai? In verità, lì raccoglie alcune delle sue poesie più note, profonde, umane. Cosa è cambiato dall’epoca di Mia sorella la vita?
Nella splendida edizione einaudiana delle Poesie di Pasternak, che non contiene prelievi da Quando rasserena (siamo nel fatidico 1957, ma prima che compaia Il dottor Živago), Ripellino, in effetti, sembra paventare una involuzione dello scrittore: «Il poeta si scioglie dai vecchi viluppi di suoni e immagini, per tornare nell’ambito del “melodismo”. Questo mutamento ci fa temere che la poesia pasternakiana, perdendo il suo peso specifico, si abbandoni in futuro a cadenze gratuite, a una generica musicalità orecchiabile […]». Nell’edizione del 1959, che già, invece, contempla una ventina di liriche da Quando rasserena, il giudizio rimane come sospeso: «Le più recenti poesie tuttavia sostituiscono alla calcolata strumentazione una scioltezza cantabile, riprendendo quasi la liquida melodicità dei simbolisti». Certo, anche così è difficile sottrarsi all’impressione che Ripellino nutra qualche dubbio sulla “nuova”, illimpidita maniera dello scrittore. A un traduttore come lui, che veniva dalla possente opera di antologizzazione della poesia russa del (primo) Novecento, e quindi era uso a confrontarsi con una stagione che innalzava – per necessità, certo (anche se non sempre) – la bandiera della complessità come segno distintivo, la relativa semplificazione del tessuto lirico pasternakiano può essere apparsa come un décalage. O, peggio, come un adeguamento al «minimalismo estetico» (sono sempre parole di Ripellino) della coeva poesia sovietica, che, tra l’altro, Ripellino di lì a poco proporrà al lettore in Nuovi poeti sovietici (Einaudi, 1961). Ragione o torto che abbia, temo che queste circostanze possano aver fatto velo sul lascito umano e profondo dei testi di Quando rasserena (anche se questi tratti non sono sempre garanzia di tenuta poetica). Non amo fare le classifiche, ma, del resto, ho l’impressione che l’intensità dello sguardo di Mia sorella la vita, pur comportando una certa quale ermeticità, rimanga insuperato in termini di prodigiosa lettura del mondo e sintonia con i fenomeni atmosferici. L’ultimo Pasternak, va letto con il metro di una pacificata senilità, di un allentamento della tensione immaginativa giovanile. Se ciò, poi, rappresenti un passo in avanti o indietro, è materia dei critici. Per parte mia posso dire che trovo commovente la condizione dell’ultimo Pasternak, con la sua fiducia ormai minimale (perché insidiata dal tempo e dall’esperienza) nella poesia, anche laddove essa porti a esiti sguarniti, quasi basici. E non dimentichiamo che questo signore di quasi settant’anni è reduce dall’affresco del Dottor Živago, spossante sotto ogni profilo e, forse inevitabilmente, capace di relegare sullo sfondo tutto il resto. Ma – mi si lasci dire – il Dottor Živago è anche latore di un’informazione di fondo: Pasternak è, e resta, principalmente un poeta: anche il poeta di Quando rasserena.
Domanda al traduttore: rispetto ad altri grandissimi (chessò: Achmatova, Mandel’štam, Majakovskij) qual è il carato, il carattere linguistico di Pasternak?
È una domanda che costringerebbe ad affrontare una fetta enorme della storia della letteratura russa. E, credo, costringerebbe anche a indagare su quanto sia diversificata la poesia stessa di Pasternak al suo interno. Suppongo che nemmeno con uno sforzo supremo (e un po’ ingrato) di semplificazione si possa fare, almeno in questa sede. Temo, quindi, di poter tentare di sintetizzare solo qualcosa sul Pasternak di Quando rasserena, riprendendo – inelegantemente – me stesso. Lo scrittore, da più di un decennio ormai, si sta allontanando dal suo stile precedente e orientando verso quella affabilità di dizione e relativa comprensibilità di contenuti che contraddistinguono la cifra della sua fase estrema. La sua «fedeltà alla vita, alla vocazione di scrittore, alla natura animata dall’attività fruttuosa dell’uomo» (sono parole del figlio Evgenij) vengono restituite in uno stile dove è come se Pasternak si fosse definitivamente scollato dallo sgargiante groviglio metaforico-metonimico delle sue prime raccolte, senza però smarrire la concentrazione dello sguardo e, semmai, schiarendo la sua vena di «preciso e brusco descrittore» (D. Bykov). Siamo vicini, quindi, a quanto Pasternak stesso disse il 25 giugno 1935, a Parigi, al Congresso per la difesa della cultura: «la poesia […] giace nell’erba, sotto i nostri piedi, e bisogna soltanto chinarsi per scorgerla e raccoglierla da terra».
Boris Pasternak in un disegno del padre, Leonid
Fino a che punto possiamo dire che con Quando rasserena si chiude la parabola lirica di Pasternak? E che rapporti intrattiene questa raccolta con Il dottor Živago?
Credo che la parabola lirica di Pasternak si sia chiusa solo con la sua morte. Non immagino un Pasternak totalmente svincolato dal suo essere agganciato all’universo tramite la scrittura in versi (anche se l’ultimo grande progetto a cui lavorava era, a dire il vero, un’opera teatrale: La bellezza cieca). Anzi, mi sarebbe piaciuto percorrere criticamente il sottile crinale di gusto e di talento che comunque avrebbe separato Pasternak dai suoi colleghi coevi (almeno nell’ambito della poesia ufficiale), fin da subito ben disposti verso una poesia intesa come programmaticamente veicolabile a (e condivisibile con) un pubblico ampio e, anche, “popolare”. Quanto al rapporto con Il dottor Živago, riprendo – di nuovo – alcune mie suggestioni. Se consideriamo che Jurij Živago, “fratello letterario” di Pasternak, elabora, senza sbandierarlo, uno status da superbo dilettante, quasi un contegno da anti-poeta sideralmente lontano dalla comunità/consorteria letteraria, mi vien da pensare che, in Quando rasserena, è come se Živago fosse idealmente uscito dalla pagina, smettendo la sua natura di alter ego, per ricongiungersi con il suo creatore, Boris Leonidovič Pasternak, per irrorarne l’estrema, preziosa fatica.
Scelga una poesia, un verso della raccolta che ha tradotto, a suo avviso esemplare. E mi dica perché.
Potrà sembrarle strano, ma la poesia che vado a scegliere è tra le più “semplici” del volume e s’intitola Arano (con voluta, e imprudente, declinazione pascoliana: Aratura avrebbe funzionato altrettanto bene) e la saluto come esemplare in quanto portavoce del tema “mondo naturale”, importantissimo in Quando rasserena. Allo sguardo del poeta (o dell’io lirico implicato) si apre uno spazio vasto trapuntato di natura sia disciplinata dall’uomo (i campi arati) sia, semplicemente, in fiore. Spira una tale armonia tra lavoro contadino e rinverdire primaverile, si sposano in modo talmente felice i toni pastello delle betulle e quello dei terreni toccati dall’opera dell’uomo, che mi prende nostalgia di questa possibilità di connubio (specie in tempi come questi, dove è quasi più normale parlare di un conflitto tra uomo e natura). E mi delizia la limpidezza – perfino demodé, se si vuole – con cui Pasternak si affida all’incanto di quel paesaggio “natural-colturale”, così gentilmente calato in semplici quartine, dove comunque si sente, quasi schivo, l’occhio parcamente trasfigurante del poeta. Inoltre, e per finire, è l’incipit che mi colpisce in modo particolare, con quel trapassare della terra nel cielo (o viceversa). Lo cito: «Cos’è successo al posto di sempre? / Tra cielo e terra il discrimine è stinto. / Caselle arate, come di scacchiera, / si sono sparse a perdita d’occhio»
Ultima. L’autore che vorrebbe tradurre. Quello che le ha dato più gioia tradurre.
Ho studiato per almeno una dozzina d’anni e amato (e amo tutt’ora) l’opera di Iosif Brodskij, ma, per motivi vari, sempre non dipendenti dalla mia volontà, non ho potuto mai dare alle stampe il non molto che, in privato, ho tradotto. L’autore che mi ha dato più gioia tradurre è quello che ha inaugurato, nel 2013, la collana «Russia Poetica» di Passigli, ossia Boris Sluckij («Il sesto cielo» e altre poesie), un poeta sovietico di grandissima levatura, diviso fra fedeltà all’establishment politico e tentativo di essere integerrimo. Non è un caso che sia tra i pochissimi lirici salvati – appunto – da Brodskij, che non era tenero con la poesia sovietica.
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lacollanaisola-blog · 7 years
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Lev Rubinštejn, Stefano Ricci. Elegia
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Febbraio 2017, 10x15, 32 pagine
Traduzione di Alessandro Niero
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pangeanews · 5 years
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“Una letteratura autentica può esserci soltanto là dove a farla non sono funzionari coscienziosi e benpensanti, ma folli, eremiti, eretici, sognatori, ribelli, scettici”: leggete Evgenij Zamjatin, l’antidoto contro l’esteticamente corretto
La frattura, qui, è scomposta. Intanto: bibliografia liofilizzata e un titolo. E poi: poetica in forma di ideologia. Partiamo dalla seconda. Dei molteplici sguardi che ci sono dati, ci accontentiamo di uno. Narrare, oggi, significa quasi sempre pattinare sulla superficie: una forma di giornalismo con pathos, far cronaca della propria fantasia. Occorre ‘farsi capire’ – mica capire! Non si elabora, dico, altra strategia narrativa che quella dell’italiano in America, mero scimmiottamento della trama. Allenamento alla stupita stupidità dei ‘fatti’. Alienazione dalla lingua – perché tutto ciò che è lingua sa di intransigenza, ha una autenticità al diamante, insopportabile.
*
Di Evgenij Zamjatin, ad esempio, sappiamo solo Noi, la cui scrittura iniziò un secolo fa, fu pubblicato per la prima volta, in inglese, nel 1924, “è il capostipite di tutte le distopie del Novecento”, come insegna la ‘quarta’ dell’edizione Mondadori, a cura di Alessandro Niero, pubblicata nel 2018. La versione Mondadori ripiglia quella Voland del 2013, segue quella di Barbara Delfino per Lupetti del 2007 e soprattutto quella di Ettore Lo Gatto pubblicata da Garzanti e da Feltrinelli. Insomma, Zamjatin è risolto lì. Morto nel 1937 a Parigi, dove era riuscito a espatriare nel 1931, grazie all’avallo di Maksim Gor’kij, Zamjatin, esaltato come un nuovo Gogol’, fu ‘rivoluzionario’, poi spina nel fianco della Rivoluzione, con la penna intinta nell’acido. Fu decisamente celebre: nel 1930 l’Anonima romana editoriale traduce la “tragicommedia in quattro atti” Mister Kemble: la società degli onorevoli campanari. Eroe del gruppo dei “Fratelli di Serapione” – teorico di una narrativa formalmente ineccepibile, con tecniche di montaggio scacchistiche, in reazione all’egida dell’impegno ‘sociale’ – nell’anno della morte è censito così da Lo Gatto, che mise una pietra sopra all’incontenibile: “Originariamente comunista, lo Z. si allontanò sempre più dalle idee sovietiche, ma all’estero visse solitario, senza aderire all’emigrazione politica. Scrittore originale di contenuto e di stile tra il raffinato e il popolare, Z. non aveva ancora dato piena espressione alle sue grandi possibilità artistiche”. Fu, anche in gruppo, solo a se stesso, per questo morì, poeticamente, da poveraccio.
*
In un memorabile articolo del 1921, dal titolo indicativo, Ho paura, Zamjatin delinea la cruna dell’arte in contrasto con la politica imperante, contro lo Stato dilagante. “Una letteratura autentica può esserci soltanto là dove a farla non sono funzionari coscienziosi e benpensanti, ma folli, eremiti, eretici, sognatori, ribelli, scettici”.
*
Sostanzialmente, Zamjatin è risolto in Noi. Tra gli sparuti testi altri, Il destino di un eretico (Sellerio), Racconti inglesi (Voland), A casa del diavolo (Mup). Così, quando Dafne Munro mi invia il trittico di racconti edito da Edizioni Urban Apnea – sia lode all’iniziativa editoriale che pubblica una invidiabile varietà di testi riesumati dall’oblio, da Ambrose Bierce a Camillo Boito, da Horacio Quiroga ad Antonio Ghislanzoni, da Bruno Schulz a Gertrude Barrows Bennett – resto ingenuamente sbalordito. L’ironia corrosiva di Zamjatin, il genio nello strutturare situazioni apodittiche e apocalittiche, la sinuosità del linguaggio, tra coltello e piuma, me lo fa preferire a tanti narratori americani precipitati nel canone (Carver? Ma che è al confronto? Un cioccolatino nella fabbrica di cioccolato…). Zamjatin, ecco, è una specie di antidoto all’esteticamente corretto.
*
Zamjatin flirta con il paradosso e la sinestesia (“Caldo. Le giornate sono gialle, cariche della gialla pienezza delle mele mature pronte a cadere al primo tocco, al primo sguardo o soffio”), ha il talento della metafora esistenziale (“Se una pietra cade in acque sonnolente, le agita creando mulinelli che ne increspano la superficie. Ma poi i mulinelli si espandono, lasciando solo irrilevanti increspature simili alle rughe che si formano nell’angolo di un occhio sorridente. E alla fine tutto torna piatto e immobile”), pone gli occhi, su ogni situazione, di sbieco, puntati sull’inatteso e sulla vergogna. Il racconto X è spassoso, racconta l’abiura di un diacono, non tanto attratto dal marxismo quanto dal ‘marthismo’, cioè dalle dolci forme dell’ambita Martha: “la fondatrice di questa dottrina (totalmente avulsa da qualsiasi riferimento filosofico alle classi sociali), al momento solo accennata tra le righe, un giorno di primo mattino, si dirigeva verso il fiume per un bagno. Si spogliò, appese il vestito su un ramoscello, mise in acqua la punta del piede destro… e a un paio di metri a sinistra, sotto a un cespuglio, stava accovacciato nudo il diacono Indikoplev (non ancora pentito)”. Zamjatin, con esasperante bravura, passa dallo sketch divertito alla descrizione lirica, dal grottesco all’appagato, dal colto al greve.
*
Il racconto più bello – a varietà di stili corrisponde pluralità di invenzioni narrative – s’intitola La caverna, riproduce una nuova era del ghiaccio, postumana. Questo è l’esordio. “Ghiacciai, macerie, mammut. Le buie scogliere notturne sono case da rivivere in qualche modo. Nelle scogliere, le caverne. E nessuno che conosca l’origine di quel rumore notturno sul sentiero pietroso degli scogli, chi sia a soffiare la nevosa polvere bianca sniffando su per il sentiero. Forse un mammut color grigio-tronco, forse il vento. O il vento stesso è il ruggito ghiacciato del re dei mammut. Una cosa è certa: è inverno. E tu devi stringere i denti più forte che puoi per non sbatterli; devi fare legna con un’accetta di legno e ogni notte devi trasportarla di caverna in caverna, sempre più in profondità. Poi devi coprirti il più possibile con ispide pelli di animali. Anni fa, un mammut grigio-tronco si aggirava tra le scogliere di notte, dove sorgeva San Pietroburgo. Uomini della caverna avvolti in stracci, pelli e mantelle si spostavano di caverna in caverna”. I mammut a San Pietroburgo – lo spettro di Zamjatin dovrebbe irrorare le nostre vite, dovrebbero usarlo nelle scuole di scrittura, dovremmo leggerlo per dare profondità a furor di farfalle a questa bieca ‘realtà’. (d.b.)
*In copertina: Evgenij Zamjatin (1884-1937)
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