Tumgik
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T'accorgi
D'improvviso ti sembra tutto più chiaro, tutto più nitido, quasi ovvio, patetico e stupido. D'improvviso t'accorgi che questo mondo è di quelli che non hanno mai saputo prendere una posizione netta, per rimanere invece in silenzio anche quando non si poteva ed equivaleva a una presa di colpe.
T'accorgi che di silenzio son state costruite intere carriere professionali; silenzi il cui scopo era elemosinare, genuflettersi in cambio di possibili chance.
T'accorgi che non sono i soldi spesi in istruzione quelli che contano, quelli che veramente possono aiutarti a portare avanti un principio con un capo ed una coda.
Ti accorgi che a contare davvero sono i soldi che invece si scambiano, si scommettono, si guadagnano, si perdono, si dividono nei posti più improbabili, nei posti più bizzarri.
T'accorgi che non sa meravigliare più niente; che il cugino di quel “bravissimo” e rinomato medico, ora lavora proprio lì… lì dove stava quel “bravissimo” e rinomato medico.
T'accorgi che non riesce a meravigliarti il nuovo posto fisso di quella collega che parlava poco poiché sapeva bene cosa significassero le parole, il potere di cui disponevano; quella che non stava ne “di qua” e nemmeno “di la” e che a vederla per troppi secondi pareva addirittura scomparire, evaporare.
T'accorgi che lo stupore non è scoprire che tutte e tre i figli maschi alfa del famosissimo politico abbiano scelto di seguire la “vocazione” di studiare odontoiatria ma che addirittura scelgano di indossare abiti diversi tra loro, come se potessero essere persone come tutti noi.
T'accorgi che è del conformismo questo mondo, di quelli che rimbalzano da una parte all'altra, di quelli a cui i genitori hanno insegnato che i mezzi contano davvero poco quando si conosce bene la meta d'arrivo.
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Tumblr media
È il mio 10 anniversario su Tumblr 🥳
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Citazion #52
Il bambino che non ha mai conosciuto l'amore, ne sentirà lo spasmo tutta la vita più di chi lo ha conosciuto e perduto; chi non ha mai conosciuto la sazietà, è condannato a una fame ben più spaventosa di chi è stato sazio e poi non più: la nostalgia di ciò che si è perso si consola, in qualche modo, si appoggia alla memoria, al ricordo che, per quanto struggente e potenzialmente persecutoria, non espone l'essere al nulla, mentre la nostalgia del mai posseduto non si limita ad una perdita da elaborare, ma crea una mancanza senza rimedio.
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Quanta fatica evitare il dolore, evitare l’amore. Quanto dolore vedere chi sta vivendo il proprio malessere ma si protegge esclusivamente con esso, nient’altro che con questo.
Lo psicologo
Quanta fatica sto sentendo.
Questo lavoro maciulla tutti i miei pensieri, tutti i miei organi, tutte le mie azioni. Posso vedere e posso sentire ma devo tenere tutto per me, essere d’aiuto in un modo innaturale, in un modo diverso dai comuni mortali, dalle altre persone . Devo fare i conti con ciò che voglio ma anche con ciò che non posso fare benché il compito datomi era proprio quello di aiutare. 
Quanto stordimento mi procurano le frustrazioni, il desiderio di voler essere d’aiuto ma solo a metà, col rischio sempre dietro l’angolo di chi mi dice di fermarmi a metà strada. 
Quanto malessere mi fa provare la rabbia di non poter parlare francamente e nitidamente di ciò che non va, di ciò che capisco, di ciò che attanaglia la mente dell’altro. 
Quanta fatica stare al mio posto, essere moderato, vivere il silenzio dei pazienti, le scuse più dolorose pur di non affrontare il dolore. 
Quanta fatica l’ambiguità, i giorni, le attese, i ritorni di questi. Quanta fatica la pazienza di dover aspettare il momento più opportuno per parlare di qualcosa. Quanta fatica evitare il dolore, evitare l’amore. Quanto dolore vedere chi sta vivendo il proprio malessere ma si protegge esclusivamente con esso, nient’altro che con questo.
Non fate questo lavoro, perché la sua bellezza è la fatica di accertarsi come inconcludente, inutile, sterile e troppo informato. 
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Ridatemi
Ridatemi quel dolore li
Quelle scarpe che avevo
Ridatemi il tempo vissuto
Ridatemi quell’insicurezza 
Dolce e amara dei 15, 16 dei 17 anni
Ridatemi quelle paure li
Quella madre che cucinava 
E mi faceva amare 
Ridatemi il dimenticato
Tutto quello che non capisco più
Dei ragazzini, dei loro sguardi.
Ridatemi le gambe ciondolanti 
I capelli arruffati, la grandezza dei sogni e dell’amore.
Ridatemi quella musica, quei beat,
Quel amore per la smisuratezza
I sogni che ho dimenticato per strada, 
tra le preoccupazioni, la smania del denaro
La voglia di diventare “qualcuno”.
Ridatemi un pezzo di me
Voi che mi guardate
Voi che mi ascoltate
Voi che mi vivete.
Ridatemi quella fame lì
Perché quella di oggi
È quella di un uomo
Che si sazia solo e soltanto di verità.
Ridatemi l’amore non corrisposto
Quello che fa piangere
Fa scrivere, fa ascoltare 
Fa dimenticare di studiare
Di mangiare, di respirare
Quello che fa morire
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Lo psicologo
Quanta fatica sto sentendo.
Questo lavoro maciulla tutti i miei pensieri, tutti i miei organi, tutte le mie azioni. Posso vedere e posso sentire ma devo tenere tutto per me, essere d’aiuto in un modo innaturale, in un modo diverso dai comuni mortali, dalle altre persone . Devo fare i conti con ciò che voglio ma anche con ciò che non posso fare benché il compito datomi era proprio quello di aiutare. 
Quanto stordimento mi procurano le frustrazioni, il desiderio di voler essere d’aiuto ma solo a metà, col rischio sempre dietro l’angolo di chi mi dice di fermarmi a metà strada. 
Quanto malessere mi fa provare la rabbia di non poter parlare francamente e nitidamente di ciò che non va, di ciò che capisco, di ciò che attanaglia la mente dell’altro. 
Quanta fatica stare al mio posto, essere moderato, vivere il silenzio dei pazienti, le scuse più dolorose pur di non affrontare il dolore. 
Quanta fatica l’ambiguità, i giorni, le attese, i ritorni di questi. Quanta fatica la pazienza di dover aspettare il momento più opportuno per parlare di qualcosa. Quanta fatica evitare il dolore, evitare l’amore. Quanto dolore vedere chi sta vivendo il proprio malessere ma si protegge esclusivamente con esso, nient’altro che con questo.
Non fate questo lavoro, perché la sua bellezza è la fatica di accertarsi come inconcludente, inutile, sterile e troppo informato. 
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33 anni
Oggi faccio 33 anni. 
Il giorno prima ho tolto la visibilità ai miei contatti del mio compleanno su facebook e come immaginato, alle 9 e 21, solo i miei genitori mi hanno fatto gli auguri. Oggi devo pensare che sia un giorno come gli altri altrimenti il dolore e la tristezza mi assalirebbero come già è successo altre volte, come non ha mai smesso di accadere. 
Allo scoccare dei miei 33 anni la tristezza mi ha vestito dell'abito più scuro, come a ricordarmi che tutto sta passando e che l'insoddisfazione, l'incapacità di sentirmi adeguato, siano gli unici amici sempre pronti a battersi per me, a schierarsi e difendermi da ogni parvenza che possa darmi serenità. Oggi faccio 33 anni e mi sento ancora quel 20enne che usciva di casa e che sperava di adeguarsi agli altri, di riconoscere quando sarebbe arrivata quella persona che avrebbe fatto rima con casa, con amore, con speranza. 
Faccio 33 anni e ancora mi preoccupo quando i miei genitori non mi vedono felice, non mi vedono un loro pari, una persona con una stabilità emotiva, una persona pronta a girarsi quando la chiamano tale. 
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Non c’è più tempo
Non c’è più tempo per noi. Non c’è più modo di nascondere quello che siamo, quello che abbiamo respirato. 
Non c’è più niente e l’unico verbo che conosco per dirtelo è quello del silenzio. 
Non c’è più niente ma solo l’ingenuità del dolore, del suo peso e della sua confusione. 
Non c’è più niente ma solo l’immagine di te poggiato sul frigo, mentre discutiamo, con gli occhi farneticanti, disperati dalle mie parole e dalla loro fredda, stupida e razionalizzate organizzazione. 
Non c’è più niente oltre queste parole scritte. Non c’è più colpa se non siamo riusciti, durante tre anni e mezzo, a capirci, a parlarci con terminologie su misura per noi. 
Non avevamo altri vocaboli: non avevi altri termini e non avevo la pazienza per accettare quelli che usavi, quelli che mi proponevi e che mi davi. 
Non c’è più niente se non il tempo per riprendersi, salutarsi e promettersi di non soffrire più così. Di non amare più così
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Che questi giorni portino tutto quello che, prima o poi, non sarai più disposto a subire.
Untitled #60
Che questi giorni portino tutto quello di cui ancora non hai capito di avere paura.
Che questi giorni ti scaraventino contro ogni muro.
Che ti buttino giù per i dirupi.
Che questi giorni scompiglino le stupide certezze a cui ancora t’aggrappi a costo di spaccarti le unghie.
Che questi giorni siano come un maledetto figlio di puttana che ti riempie di sangue, calci e pugni.
Che questi giorni servano da monito - comandamenti come quelli di dio - sui cui non potere avere diritto di replica, parola e modifica.
Che questi giorni portino tutto quello che, prima o poi, non sarai più disposto a subire.
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Ho fatto questo breve video il 23 dicembre 2020 mentre ero diretto verso una clinica per fare il test per il COVID.
Voglio condividerlo perché credo rappresenti un pò quest’anno: i colori che lo hanno abitato, le inquietudini che lo hanno caratterizzato, il senso di sospensione e arresa che ha portato con sé, l’indefinitezza e la limitatezza della vita e del tempo.
Mi sono sentito sopraffatto perché per la prima volta avevo iniziato a pensare ad un futuro in cui riuscivo a mettere nel suo centro il mio lavoro, il ragazzo che amo, la casa che vorrei che ci ospitasse, ci proteggesse.
Ho sentito scorrere tutto più velocemente, più intensamente. Ho sentito a fior di pelle la rabbia che saliva quando ho avuto a che fare con colleghi di lavoro il cui talento mostrato era solo un velo poggiato a nascondere, negare e ripudiare partizioni di sé mai accettate.
Ho sentito scorrere ancora più velocemente la sensazione che potessi farcela a vivere questa vita, queste sensazioni che muovevano e agitavano gli occhi, i sonni, i silenzi e tutti i miei gesti.
Ho sentito i miei genitori chiedere aiuto. Ho sentito cambiare la ricezione che avevo nell’ascoltare queste loro richieste. Ho sentito cambiarmi, muovermi verso loro e non verso me.
Ho sentito però anche il vuoto e lo stordimento quando i telegiornali, i morti, i contagi che salivano e che, tutt’ora, non smettono di decrescere, mi dicevano di stare attento, di volare più basso, più cautamente, ancora più rasoterra.
Ho sentito questo. E questi colori qui sopra, sono più o meno quello che meglio esprimono tutto ciò, tutto questo..
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L’amore umano
La fatica di stare con te, tu non la conosci. Non sai cosa comporta convivere con un sentimento d'amore grande, profondo, necessario, ma al contempo col sentimento d'essermi innamorato di te quasi per sbaglio, per un fraintendimento. Senza che l'abbia voluto veramente. 
Tu non sai cosa significhi convivere con tutto questo, con questa disforia interiore, questa alterazione che mi fa abissare in idee che ti vogliono quanto più lontano da ciò che minimamente possa avere a che fare con la mia vita, e idee che mi fanno sentire che la tua essenza è la cosa più giusta e bella che potesse succedermi. 
Tu non potrai capire tutto questo perché prontamente deludi, fai in modo che in me cresca un sentimento d'odio così sincero, vero, così presuntuoso da farmi dimenticare tutto l'amore, quello che sentivo fino a poco fa. 
Tu non potrai capire un sentimento d'odio così massiccio, delineato, esplosivo, che mi fa sentire uno scemo nel aver declinato il verbo “amare” addosso a quello che sei. 
Tu fai in modo che io possa odiarti così bene, così benevolmente che non ci sono altre strade percorribili quando è in circolo, quando mi muove. 
Non riesci a far convivere amore e odio. Non riesco a vedere niente altro quando sento tutto questo. Non riesco a vedere amore e odio insieme. Non riesco a vedere amore quando litighiamo, non riesco a vedere rabbia quando c'è amore. 
Non riesco a vedere alcuna adultità in te perché i sentimenti che provi sono la cosa più falsa che ti ha fatto crescere, perché ti fanno pensare idealisticamente che l'amore è solo amore e l'odio è solo odio quando invece è solo la loro convivenza che permette l'adulità, l'amore umano. 
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Untitled #61
Non so perché tu mi faccia sentire così impoverito, così solo. Non so perché lasciarti sia così doloroso. Alla fine tu, in due anni, non mi hai dato tanto di più di quello che mi stai restituendo ora, in silenzio, da lontano. Non so perché sento tutto questo vuoto solo adesso, da quando ho deciso di dire basta, di non lasciarti consumare ancora altro tempo utile. Non so perché sto provando, per la prima volta, tutto questo, ne perché, per la prima volta, sento che questo tempo, il mio tempo, mi sia così prezioso. Forse però quello che d'utile m'hai dato è stato poter capire quanto facile sia stato accontentarci - tu di me e di quello che avevo, che non avevi e che per questo volevi, e io di te e di tutto quello che avevi e che non ho - quanto facile sia stato ubriacarci - io di te e tu di me - solo per tacere le nostre rispettive difficoltà e farle fare un altro giro di giostra, sperando, nel frattempo, che lo stordimento potesse renderle meno spaventose, più domabili.
Ma io son ancora qui. Ancora da solo. E provo a riflettere, come succede sempre dopo una storia. Provo raccontarmi le ragioni di questa cosa che ci è capitata quando ci siamo conosciuti, quando abbiamo fatto l'amore, quando ci siamo offesi, quando ci siamo fatti male, quando ci siamo sentiti stupidi, quando ti ho detto di non poterne più. Provo a dirmi qualsiasi cosa che faccia meno male perché, come sempre, son solo e questa è l'unica cosa che ben tre “storie d'amore” m'hanno saputo lasciare. 
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Untitled #60
Sono troppi i dubbi. Troppe le cose per cui giro a vuoto. Troppo poche le cose per cui credo serva lottare. Sono troppo poche, troppo fragili le cose che mi fanno tenere stretto alle maniglie del mondo. A volte penso ai malati mentali con cui mi son ritrovato a parlare per via del mio lavoro e sento di capire cosa comporti la mancanza di senso nei gesti, negli anni, nella propria maturazione fisica, culturale ed emotiva. Sento allora il terrore salirmi …come quello che più volte loro mi hanno fatto conoscere sottoforma di disperazione, di domande volte a strutturare, ad organizzare - con quel poco che gli rimaneva, con quei pochi brandelli che si ritrovano disordinatamente tra le dita - la realtà circostante, le cose che la costituiscono.
In questi momenti, e solo in questi, capisco quello che sentono queste persone e forse per un attimo sento più conforto perché mi ripeto che il senso delle cose può perdersi, può essere difficile da capire, da risignificare ma che non è perduto per sempre. Questa sensazione, quando sopraggiunge, scatena maremoti nelle mie vene, mi fa credere che non sia possibile resistere con questi “attaglianamenti mentali”.
Poi però si esce e come succede ora, non solo si fatica a capire come sia stato possibile uscirne, riprendere il normale flusso monotono delle cose,  ma anche come sia  possibile che possano venire certi dubbi, certe insicurezze. 
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Untitled # 62
Pensieri che rimangono incastrati, chiusi dentro me, sfiniti di stanchezza, sfiniti dal non riuscire a farsi mai parole, suoni, forme comprensive. 
Pensieri che rimangono nel buio delle mie viscere, dello stomaco, della mia maledetta testa. Pensieri che una parte di te non vuole più rendere agibili agli altri. 
Pensieri, che le persone attorno a te, han fatto in modo di rendere inagibili, inutili da condividere, da formare. 
Pensieri che non diventano più scelte, ma solo cose che ti agiscono, che si muovono contro te, che non riesci più toglierti da dosso. 
Pensieri che muovono i tuoi sbagli, pensieri che muovono altri pensieri, pensieri che diventano vicoli ciechi, sempre più obbliganti. Gesti d'inaudita violenza. Pensieri che non ti fanno pensare. 
Pensieri estranei, forestieri, pensieri che ti fanno tenere, tenere e tenere e poi d'improvviso scoppiare davanti agli occhi di chi, quei pensieri, quei scarti della sua mente, li ha raccolti per poi gettarli dentro te perché non c’erano più altri cassonetti nel proprio sé, altri bidoni, altro spazio per differenziare, ripulire, elaborare. 
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Adolescenti e pornografia
L'adolescenza non è sempre esistita. Basti pensare che nel medioevo i bambini e gli adolescenti venivano pensati e rappresentati come degli adulti in miniatura o come degli "ometti"; termine quest'ultimo che è ancora presente nel nostro linguaggio come rifiuto inconscio di riconoscere tratti specifici di questo periodo. Lo stesso termine "adolescente" non è sempre esistito: ha cominciato ad essere utilizzato dall'Ottocento, per indicare una fase di passaggio tra l'essere bambino e l'essere adulto. 
Ma è solo dal Novecento che questo termine ha cominciato ad indicare tutta una serie di fenomeni fisici, psichici e sociali che agiscono e che operano tra loro. Si è cominciato così a comprendere che durante l'adolescenza si avvia una trasformazione mentale in virtù di un metamorfosi fisica che fa sentire nuove sensazioni, nuove emozioni, nuovi bisogni e desideri. Il corpo dell'adolescente comincia a farsi sentire, a inviare a sé e agli altri segnali mai sentiti prima, poco definibili, per cui non ci sono ancora parole. Il nuovo corpo cerca risposte attraverso le parole altrui, attraverso i modelli sociali appresi a scuola, dalla rete amicale più stretta, dai trend più in voga su social network.
È utile sottolineare che il cambiamento dell'adolescente non può avvenire senza conseguenze dirette per i suoi genitori, i quali devono fare i conti con vissuti ed emozioni disorientanti, molto simili a quelle dei figli e che si concentrano sulla paura di perdere il controllo del corpo del figlio che fino ad allora avevano esercitato; sull'angoscia che provano quando il/la figlio/a si espone a pericoli che neppure riesce a immaginare; invidia inconscia per un corpo e una condizione esistenziale di cui vedono solo gli aspetti più positivi, dimenticando il disorientamento e la sofferenza che crea. 
Entrambi - genitori e figli - sperimentano il lutto del corpo infantile del figlio, al quale si contrappone questo nuovo corpo che impone un confronto, come mai successo prima, che si può dire "alla pari". Tuttavia succede che tante volte i genitori siano svalutativi, banalizzanti, intestarditi a controllare le modalità con cui il/la ragazzo/a fa uso del proprio corpo rischiando così di ostacolare il processo evolutivo dell'adolescente. Ciò che più temono i genitori è l'inesorabile delusione di un corpo che dopo aver attraversato a grandi falcate l'infanzia, celebrato come meraviglioso e promettente, inciampa ora nel desiderio dell’altro, nel desiderio di scoprire mete sconosciute che potrebbero metterlo in "pericolo".
Ma quali sarebbero questi pericoli?
Un corpo in cui emerge la dirompenza della sessualità è un corpo pericoloso, un corpo che non risponde più alle "vecchie abitudini", ma a qualcosa che la mente dell'adolescente stesso fatica a tenere sotto controllo. Questo è un corpo che "sente" e "vuole" cose che potrebbero generare ansie, tensioni, inibizioni, frustrazioni, paure abbandoniche, episodi di regressione e rifiuto di crescere. A ciò, non si può fare a meno di aggiungere l'influenza che esercitano su tutti, ma in particolare modo sugli adolescenti, l'utilizzo dei social network e il mondo web.
Su Instagram ad esempio è stato studiato che parte delle adolescenti che si sessualizzano, mostrando corpi fantastici (coi filtri o meno) generano insicurezze nelle altre coetanee e al contempo ideali distorti nei ragazzi coetanei. Da tutto ciò è stato mostrato che il 15% di essi/esse ha percepito aumentare il proprio livello di ansia a proposito del proprio aspetto fisico, sviluppando anche dei disturbi del sonno.
Ma non solo. Diversi studi internazionali hanno mostrato che il 30% dei bambini tra gli 11 e i 12 anni (compresi quelli italiani) ha visto pornografia online e che il 44% dei ragazzi italiani tra i 14 e 17 anni usufruisce della pornografia nelle loro camerette, coi genitori fisicamente presenti in casa. L'esperta criminologa e ricercatrice presso la Middlesex University di Londra Elena Martellozzo e la Polizia Postale ha affermato che la maggior parte di questi video contengono sesso violento, scene in cui la donna è sottomessa e felice di assecondare il desiderio maschile, sessismo, aggressioni, umiliazioni, degradazioni e pseudo stupri. Ciò che dunque ha preoccupato i ricercatori è che questi adolescenti, dopo una prima reazione di shock e confusione, hanno mostrato eccitazione: superato il primo impatto, diminuisce il disgusto e cresce l’eccitamento.
Sarebbe bello pensare che la colpa di tutto ciò sia di Instagram o della pornografia in se. Lungi dai moralismi, credo che questi dati confermino che la mancanza di una buona educazione sentimentale e sessuale porti gli adolescenti a cercare le risposte ai loro dubbi e alle loro paure per conto proprio, nel modo che gli è più congeniale, nel modo che più gli è proprio, senza rendersi conto che Instagram come le produzioni pornografiche sono aziende che traggono profitto e non hanno alcun scopo educativo, etico/morale. 
Ciò che allora mancherebbe, parlando dell'Italia, è qualcosa che aiuti gli adolescenti ad avvicinarsi alla sessualità, alle infinite implicazioni che questa comporta, per mezzo di una educazione e comunicazione sentimentale/sessuale con degli esperti in materia. Essi  purtroppo non possono essere i genitori. I legami e le implicazioni emotive tra genitori e figli infatti,  non permettono la condivisione di questo genere di informazioni. Molte volte infatti seppur mossi da buone intenzioni, i genitori non sanno, fanno finta di ignorare la sessualità dei figli, dimenticando che, volente o nolente, essa non sparirà, non può essere ignorata ed è il motore che spinge tutta l'adolescenza.
 Gli adolescenti hanno il diritto di sapere cosa sia un legame affettivo, l'attrazione e l'eccitamento sessuale, l'orgasmo maschile e femminile, l'anatomia degli apparati genitali, cosa sia la masturbazione  e le fantasie masturbatorie, cosa sia l'identità di genere, la disforia di genere, cosa è  e cosa comporta una gravidanza, quali sono i contraccettivi più convenienti sia per il ragazzo che per la ragazza, cosa siano le malattie sessualmente trasmissibili, un utilizzo corretto e comprensibile della pornografia, ecc. 
Succede così che mentre in paesi come l'Olanda la soddisfazione per la vita sessuale è fra le più alte nel mondo poiché si crede all'importanza dell'educazione sessuale e sentimentale fin dalle scuole elementari, in Italia, insieme alla Lituania, Polonia e Romania, non esiste nulla che obblighi a insegnare questa materia nelle scuole. Eppure il corpo, come detto, non smette di farsi sentire e, molte volte, ciò che fa sentire, in mancanza di una buona educazione, porterebbe il/la ragazzo/a a percepirlo - il corpo - come un estraneo; schiavizzato o trascurato nelle sue richieste; trasfigurato fino a renderlo irriconoscibile; nascosto come qualcosa di cui vergognarsi; imprigionato tra la voglia di rimanere infante (privo di desideri e pulsioni sentimentali e sessuali) e la voglia matura, equilibrata di stare in una relazione sana e accrescitiva. 
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Claude Monet e la coazione a ripetere
La nostra vita è fatta di ripetizioni: la pasta al sugo la domenica, il natale a casa dei parenti (che probabilmente vedi solo in quella occasione), i rituali prima di un esame universitario, le raccomandazioni dei genitori prima di uscire (anche  a 40 anni suonati), la visione di quel film che ogni volta aiuta a rilassarsi dopo una giornata particolarmente dura. E poi ci sono i compleanni, le varie ricorrenze, le varie festività.
Tutti questi eventi sono alla base dei sentimenti individuali e collettivi di identità, familiarità e di vivibilità del nostro mondo interno ed esterno. Essi possono dirsi "ripetizioni sane" in quanto ci permettono di avere un' integrità, un equilibrio tra ciò che è passato, presente e futuro nonché una certa sicurezza di continuità tra chi si è stati, chi si è e chi si vorrà essere.
Ci sono delle ripetizioni però che, nel linguaggio più tecnico, si direbbero "coazioni a ripetere", che assumono i contorni di una forma di ripetizione ben diversa, ben più dolorosa e che è indipendente dalla nostra volontà. In tal senso l'esperienza di vita di Claude Monet, pittore espressionista nonché fondatore del movimento stesso, sembra poterci venire incontro. 
La morte dell'adorata madre, quando lui aveva 17 anni, e poi dell'amata moglie Camille, sembrano essere stati due eventi determinanti per tutta la sua produzione successiva. Dall'anno della morte di quest'ultima infatti, datata 1879, salvo rarissime eccezioni, (a) la figura e il volto umano tenderanno completamente a sparire; (b) focalizza la sua attenzione sui riflessi della luce, del sole che poggia sulle cose e più in generale sulla paesaggistica, (c) sembra farsi strada sempre più il meccanismo volto a ripetere, a "serializzare". 
Tutte le opere, infatti, saranno accompagnate dal sottotitolo "serie": la serie dei filari di pioppi, dei bracci e gli affluenti della Senna, delle cattedrali di Rouen (il ciclo conterrà fino a 50 dipinti), dei covoni di fieno, dei parlamenti inglesi, delle vedute del Tamigi, dei palazzi di Venezia ed infine delle sue tanto amate tele gigantesche delle Ninfee. 
Ma come si potrebbero interpretare queste serie di tele, coi medesimi soggetti? 
La psicoanalisi potrebbe aiutarci a comprendere qualcosa. 
Se, come detto, esistono delle ripetizioni sane, capaci di restituire conforto, esistono dei gesti ripetitivi di tutt'altra natura che, la psicoanalista Melanie Klein, dice essere incentrati sul tema dell'angoscia. Questi gesti ripetitivi - la coazione a ripetere - mostrerebbero allora uno stato di impotenza originaria in cui si è in balia di tutto: dei legami di dipendenza, della paura e, come detto, dell'angoscia più profonda. Qualcuno, a questo punto, potrebbe dirmi: <Perché ripetere e rifare dei gesti che fanno stare male? ....che creano dolore fino allo sconfinamento nell'angoscia? Domanda più che legittima a cui si potrebbe rispondere con un’altra domanda ancora, che solo apparentemente, non ha nulla a che fare col tema principale : <Perché scegliamo, ci innamoriamo e stiamo sempre con persone che poi si rivelano "sbagliate"?>. 
Freud, in tal senso, ha detto che esistono forme di ripetizione dei nostri vissuti che non sono il frutto di un soddisfacimento ma che in ogni caso rifacciamo, contro la nostra volontà al di là della ricerca di un principio di piacere o dispiacere. Appare così evidente che siamo "condannati a ripetere" qualsiasi esperienza passata significativa,"buona" o "cattiva" che sia, soddisfacente o meno. Siamo costretti a ripetere tutto quello che ha segnato la psiche, che lo si voglia o no, che abbia portato piacere o meno, che abbia portato dolore.
Se quindi si ripete per il piacere di ripetere - perché una attività, una situazione, una relazione ci fa stare bene e ci gratifica - questo tipo di ripetizione ha poco a che fare con la costrizione e la coazione ed è evidentemente la dimostrazione di un io sano, funzionale, capace di gestione, di venire a compromessi e regolarsi di conseguenza. 
Se invece, al contrario, si ripetono attività, situazioni, relazioni che vanno contro la nostra soggettività/volontà significa che la psiche sta cercando e sta provando con tutte le sue forze di ripristinare un ordine interno, di equilibrare, dotare e integrare ciò che non si comprende, ciò che fa soffrire. Riprendendo le parole di Melanie Klein, si può affermare che lo scopo di quest'ultimo tipo di ripetizione è "dominare l'angoscia". Non a caso, quando non si comprende, ripetere, fino a che non si è capito, può aiutare. Repetita iuvant. 
Le pennellate di Monet, varie migliaia per ogni dipinto - come si evince dai quadri della serie "Lo stagno delle ninfee" sembrano insistenti e ripetitive, sembrano non avere a che fare col piacere della ripetizione ma con qualcosa che lo fa sprofondare, gli fa temere, come ribadisce egli stesso, di non portare a conclusione la serie de "Le cattedrali di Rouen":  < sono spezzato, non ne posso più, ho avuto una notta da incubi: la cattedrale mi crollava addosso>.  
Tuttavia, come sottolinea Donald Winnicott, la ripetizione di queste esperienze, per certi verso, porta con sé anche un elemento curativo, che aiuta a superare il senso di perdita e il sentimento di cordoglio. 
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La personalità anancastica e Piet Mondrian
Osservando i quadri Piet Mondrian si potrebbe pensare che essi siano di facile realizzazione, di facile comprensione. Nessuno avanzerebbe l'ipotesi che, proprio tra queste rette e questi colori primari si manifesti tutta quella che è la complessità della vita, delle paure e delle angosce più profonde di un uomo. 
Eppure, conoscendo il percorso artistico nonché la vicenda umana di quest'uomo, si potrebbe cominciare ad intuire che queste tele rappresentino il  tentativo di intravedere, quasi microscopicamente, un ordine preciso nelle cose, negli oggetti, nella natura umana. 
Ciò che l'artista olandese cerca di compiere, prima di ogni altra cosa, è dare un senso alle cose, un ordine rigoroso a quello che si muove intorno a lui, al caos del disfacimento, dell'informe. 
È utile sapere che tutti noi abbiamo bisogno di ordine, di capire come muoverci nell'ambiente circostante, di conoscere il modo in cui le cose e gli oggetti si compongono, si costituiscono intorno a noi. Tutti abbiamo bisogno di riferimenti precisi, che perdurino e rimangano stabili. 
Mondrian però, potrebbe tranquillamente riderci beffardamente in faccia, aggiungendo che quanto detto non impedisce ad una mela, dopo due/tre giorni, di cambiare e putrefarsi; né che il comodino smetta di impolverarsi generando sporcizia; o che il quadro in soggiorno sia leggermente più storto di ieri e che la pelle, rispetto ad un anno fa, sia più raggrinzita e ricca di batteri.
Ciò che i quadri di Mondrian tentano di alleviare allora è quel disordine interno che fa percepire, vivere e sentire costantemente il disfacimento, un movimento continuo di precarietà, paura e angoscia. Ma non solo. Ciò che queste tele tentano di alleviare è pure un disordine esterno in cui i batteri e la polvere, nel loro comparire dappertutto, ci ricordano che niente si salva, niente riesce a rimanere e a perdurare: gli oggetti, coi loro microbi e il loro movimento, dimostrano che le cose sono mobili, sfuggenti, inaffidabili, pericolosi, anche se fingono un'apparenza inoffensiva.
Si potrebbe così affermare che Piet Mondrian sia una personalità anancastica, termine che in latino fa riferimento all'ineluttabilità di alcuni gesti, di alcuni pensieri, che pur stremando di fatica la persona, sono messi in pratica per fare ordine in mezzo al disordine.Quante volte, nel nostro piccolo, seppur certi di averlo fatto, abbiamo pensato di non aver chiuso la leva del gas, di aver lasciato la macchina aperta, di aver dimenticato le luci accese? Per quanto incredibile possa sembrare, questi esempi sono collegabili proprio a questo genere di pensieri che non ci lasciano in pace e che ci inducono a tornare sui propri passi per andare a verificare, spingendoci quasi a credere, sotto il livello della coscienza, che la leva del gas sia animata da una vitalità nascosta, da un intrinseco dinamismo che ci obbliga e ci affligge a sorvegliare, aggiustare, perfezionarel'ordine delle cose, proprio come Piet Mondrian, proprio come quando decise di vivere in una casa priva di verde, priva di piante e qualsiasi cosa potesse far riferimento alla natura. 
Egli scriveva:<Detesto tutto ciò che mi ricorda la natura, odio il colore verde che ho bandito dai miei quadri e dal mio studio>. E ancora:<Non dipingevo come un romantico ma dipingevo con occhi realistici, odiavo il movimento di cose e persone>.
Tuttavia, la mela che marcisce, la polvere che si posa sulle cose, la pelle che si raggrinzisce, altro non sono che immagini che rimandano inevitabilmente alla natura e dunque alla morte: essa si insinua ovunque e nessuno più di una personalità come quella che caratterizza l'anancastico lo sa bene. 
La carne umana è, per natura, abitata  e destinata alla morte: il sesso, le funzioni intestinali, la malattia, l'invecchiamento sono l'esempio massimo di questo disfacimento, di questa minaccia costante alla vita. 
Per tale ragione la sensazione costante che muove la vita di un anancastico è quella del pericolo, quella dell’insicurezza, quella dell'ansia, quella delle "fissazioni", dei pensieri ricorrenti e ripetitivi. Tuttavia è pur vero che questa parola - "fissità" - rimanda l'idea di immobilità, di stallo e, come nota bene il fenomenologo Lorenzo Calvi, poco si addice ad una personalità ingarbugliata come quella dell'anancastico. 
Per tale ragione è proprio quest'ultimo che preferisce parlare di "fremito" poiché in ogni momento, in ogni istante l'anancastico mette alla prova i fondamenti su cui si basa l'essenza della vita: le amicizie, gli amori, le simpatie, gli interessi, le opportunità, le idee. L'incertezza a cui sottostà non concede l'illusione di un sentimento duraturo. Quello dell'anancastico è lo sforzo estenuante di ordinare l’indeterminato, verso un obiettivo semplicemente impossibile da raggiungere e che per tal ragione mai riuscirà a rilassarlo.Le tele di Mondrian, così intese, si caratterizzano per una complessità senza precedenti.
<Per avvicinarmi alla realtà> scrive  <ho dovuto scomporre tutto, fino a giungere all'essenza delle cose>. Sembrano i reticoli di cui si compongono gli oggetti, i tessuti, la struttura oltre la quale non c'è più niente.
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