Tumgik
buonista · 5 years
Text
Den Gamle By
La cultura della Danimarca è in generale molto legata a quella della Germania. Questo vale anche per la canzone tradizionale danese, la cui origine può essere ricondotta a influenze esterne e soprattutto a quella tedesca (in particolare quella di J.P.A. Schultz, vissuto tra il 1747 e il 1800).
La rinascita di questa canzone nazionale danese è avvenuta nel corso del XX secolo, per opera di autori come Carl Nielsen e i suoi allievi Oluf Ring, Thorvald Aagaard, Otto Mortensen.
Testimonianza di questo piccolo fenomeno culturale si trova in un nuovo disco di musiche corali pubblicato da Naxos il 20 luglio 2018, che si intitola Forar Og Sommer I Den Gamle By.
Nella raccolta, oltre a diversi brani di Nielsen e degli allievi già citati, compaiono vari altri musicisti danesi vissuti tra la seconda metà dell’800 e i giorni nostri.
19 canzoni in tutto, che hanno fatto da sfondo alla vita vissuta in passato nelle vie del centro storico.
Il significato del titolo infatti è La primavera e l’estate nella Città Vecchia. E teniamo conto che “Città Vecchia”, come mi ha fatto notare Alessia, non è una espressione generica. Si chiama proprio Den Gamle By ed è un’attrazione turistica di Aarhus: come in un viaggio indietro nel tempo, il visitatore si ritrova in questo ambiente perfettamente ricostruito dell’antica Danimarca, suddiviso in varie epoche. La parte più antica è ambientata a prima del 1900, in una cittadina mercantile, completa con case, giardini, negozi, laboratori. Le persone che vi si incontrano sono figuranti vestiti come all’epoca.
Più moderna è la parte ambientata nel 1927, che si è arricchita di strade, automobili, asfalto, lampioni, annunci pubblicitari murali e telefoni pubblici.
Ancora più recente il quartiere degli anni 70, con parrucchieri, cliniche ginecologiche, supermercati, minimarket, asili pubblici e radio private. Oltre alle famiglie tradizionali, c’è una comune. Le automobili sono il Maggiolino e la Citroen.
Aarhus è la seconda città della Danimarca, situata nella regione dello Jutland Centrale. È stata capitale europea della cultura nel 2017 (insieme a Paphos, Cipro).
Da quanto mi ha raccontato Alessia, a Den Gamle By tutto è perfetto e assolutamente finto. Una città immaginaria.
Questo mi ricorda varie cose: l’Italia in Miniatura dove andavo da piccolo a Viserba di Rimini, e gli altri parchi di divertimenti nati per ricostruire un ambiente del passato (il Far West per esempio).
La Betlemme in miniatura, comunemente chiamata “presepe”.
Le città che costruivo io con i Lego.
L’idea borgesiana di una mappa grande quanto la realtà.
Il set di un film o una serie tv ambientata nel passato. O in cui i personaggi viaggiano nel tempo.
Via Fondazza a Bologna, che è un luogo reale e attuale, ma talmente perfetto con la sua serie di botteghe tradizionali da sembrare costruito a tavolino.
I giochi sul modello di Dungeons & Dragons (“Segrete e Draghi”), che prevedono ampie e dettagliate rievocazioni storiche. Nell'agosto 2018, una puntata di Wikiradio su Radio3 Rai raccontava proprio la nascita e l’importanza di Dungeons & Dragons per il mondo dei giochi.
Quest’anno ho imparato quanto sia utile praticare i giochi di ogni tipo per comprendere la vita e il mondo, ma non è questo il prossimo argomento. Adesso parliamo della
1 note · View note
buonista · 5 years
Text
Comunità intenzionali
In un gioco tra amici, abbiamo immaginato di darci a vicenda un nome alternativo a quello reale. Quando è arrivato il mio turno, li ho ricevuti tutti religiosi e pacifici, con una larga prevalenza di Christian: per i miei amici, uno con la mia faccia, il mio fisico e il mio modo di fare dovrebbe chiamarsi Christian. Un nome per me sorprendente, viste le mie attitudini anticlericali, che forse sono diventate meno vistose rispetto a quando ero giovane: ma forse è sempre difficile accettare per la seconda volta un dome dato da altri, dopo quello che i tuoi genitori – e senza ancora nemmeno averti visto in faccia – ti diedero a priori.
Inoltre, riguardo a Christian, sapere che trasmetto questa immagine di bontà all'esterno mi ha messo un po' di inquietudine, perché temo di non esserne all'altezza. In compenso mi diverte pensare alla possibilità di guardarmi allo specchio e dire «che cazzo fai, Christian!».
Nel quartiere di Christiansavn a Copenhagen, c’è un posto chiamato Freetown Christiania dove oggi abitano un migliaio di persone. È una comune anarchica nata nel 1971, sull'onda delle utopie dell'epoca, e più precisamente si può definire una comunità intenzionale: ambiente nato con lo scopo di mantenere un’alta coesione sociale tra i loro componenti.
Di queste comunità intenzionali (pur non chiamandole così) parla anche un libro che sto leggendo in questi giorni: Il metodo Ikigai, di Héctor Garcìa e Francesc Miralles: I segreti della filosofia giapponese per una vita lunga e felice.
Gli autori (che citano altre ricerche di Dan Buetter, in Lezioni di lunga vita) hanno identificato cinque zone nel mondo che presentano casi di longevità eccezionale. In tre di questi casi si tratta di isole, e questo si può capire, perché stare su un'isola incentiva la coesione tra gli abitanti. La prima è infatti il nord di Okinawa, in Giappone, dove tra l'altro si trova il cosiddetto “villaggio dei centenari”.
Sulla speranza di vita influisce positivamente il concetto di moai: il gruppo di amici intimi, che condividono gli stessi interessi e si aiutano a vicenda.
I membri del moai devono versare una quota mensile. I soldi raccolti vengono usati per le attività del gruppo, a cui tutti i membri possono partecipare: per esempio le assemblee, le cene, il gioco degli scacchi giapponesi (shogi) e quello cinese antichissimo del go.
Se avanza denaro, viene distribuito a un membro a rotazione. E se un membro del gruppo è in difficoltà economiche, questo versamento si può anticipare per aiutarlo. È una forma primitiva di risparmio gestito, che favorisce la stabilità finanziaria e dunque anche quella emotiva.
Un esempio estremo e inquietante di comunità intenzionale è il film Un affare di famigliadel giapponese Hirokazu Koreeda, Palma d'Oro a Cannes 2018. Come dice il titolo, racconta vicende legate a una famiglia, e fino a qui niente di strano: senonché veniamo progressivamente a scoprire che quella “famiglia” è una famiglia di fatto ma non di nome, essendosi i suoi elementi incontrati in varie situazioni senza avere tra loro legami di sangue. Insomma si sono scelti e hanno più o meno consapevolmente accettato di fare parte di una famiglia inesistente. Anch'essa è in un certo senso una comunità intenzionale insomma.
Legato al concetto di comunità intenzionale è anche quello delle transition town, il movimento delle “città di transizione” che si propongono di rendere meno catastrofico l'impatto con la prossima fase del nostro pianeta: quella in cui verosimilmente gran parte delle città tradizionali verranno sconvolte dall'impatto del riscaldamento globale e l'esaurimento delle risorse petrolifere. Il movimento delle transition town è stato fondato dall'esperto di permacultura Rob Hopkinsa Kinsale (Irlanda) e Totnes (Inghilterra) tra il 2005 e il 2006. Nel suo saggio Energy Descent Action Plan, il fondatore esprime le sue proposte di tipo resiliente sui temi dell'energia, della salute, educazione, economia e agricoltura. Il primo scopo di una città di transizione è quello di raggiungere l'indipendenza energetica. In Italia, uno dei primi paesi riconosciuto dal network di Transition Town è stato Monteveglio in provincia di Bologna.
Ma torniamo a Christiania. Christiania prende il nome da Cristiano IV di Danimarca. Nato nel 1577 e morto nel 1648, è il monarca scandinavo che ha regnato più a lungo (59 anni). La casata era quella degli Oldenburg. All’epoca esisteva un unico regno di Danimarca-Norvegia, ed era una monarchia elettiva. All’età di 3 anni Cristiano era già stato scelto come successore da suo padre Federico Secondo. Quando questi morì, nel 1588, Cristiano ne aveva 11 ed era ancora troppo piccolo per regnare. Lo Stato fu dunque guidato da un consiglio di reggenti fino al raggiungimento della maggiore età del principe, che fu incoronato il 29 agosto 1596 all’età di 19 anni. Pochi giorni prima aveva firmato il documento chiamato haandfaesting, l’equivalente scandinavo della Magna Charta, che a ogni sovrano spettava sottoscrivere.
Nel 1606 fece visita a suo cognato James Sesto di Scozia, re di Inghilterra. Entrambi erano buoni bevitori e potevano bere grandi quantità di alcol senza ubriacarsi. Lo stesso non si poteva dire però per gli altri componenti della corte: lo spettacolo svoltosi per l’occasione (un ballo in maschera, forma di intrattenimento allora in voga) fu descritto come un clamoroso insuccesso perché i partecipanti caddero a terra da quanto erano ubriachi.
Oggi ci sono molti motivi per i quali Cristiano IV viene ricordato e tuttora ammirato dal popolo danese. Fu lui per esempio a mandare un gruppo di esploratori alla conquista della Groenlandia, e da lì in America. Lo scopo era trovare il famigerato passaggio a Nord-Ovest che avrebbe consentito di ottenere un accesso navigabile all’Oceano Pacifico.
La spedizione guidata da Jens Munk arrivò nel 1619 con due navi nella zona che più avanti prenderà il nome di Churchill, nella baia di Hudson (Canada). La missione si concluse con la morte di quasi tutto l’equipaggio di 64 persone durante l’inverno. Furono solo tre i sopravvissuti che poterono ritornare in Danimarca.
Molti secoli prima di questa spedizione (e anche molto prima di Cristoforo Colombo) erano stati i guerrieri Vichinghi ad attraversare l'Atlantico partendo dalla Scandinavia, raggiungendo anche loro il Canada e stabilendo un insediamento a Newfoundland. Nel 2010, alcuni ricercatori hanno riprodotto una delle loro navi, per replicare questo viaggio leggendario.
A questo popolo è dedicata anche la serie Netflix dal titolo appunto The Vikings. Sicuramente è interessante anche se sono un po' stufo di queste storie medievali dove gli uomini sono tutti guerrieri e le donne solo carne da stupro. A volte penso che vorrei vedere una serie dedicata alla noiosa e pacifica vita di una famiglia di contadini.
«Cosa fa un uomo?» chiede il papà vichingo al bambino la notte prima della cerimonia di iniziazione. «Combatte», risponde il bambino. «E poi?» chiede ancora l'uomo. «Protegge la sua famiglia», risponde l'aspirante uomo. Un modello di comportamento che oggi non funziona più, anche se per molti è tranquillizzante.
Tornando a Cristiano IV, egli fu molto legato alla Norvegia, in cui passò più tempo che ogni altro sovrano danese. Dopo l’incendio durato tre giorni che distrusse Oslo nell’agosto del 1624, decise che la città non fosse ricostruita nella stessa area, ma si spostasse in un’altra, presso la fortezza di Akershus. Questa città totalmente nuova fu chiamata Christiania, un nome che ha mantenuto fino al 1925 quando ha ripreso quello originario di Oslo.
Ma adesso cambiamo argomento, e parliamo di una cittadina chiamata
1 note · View note
buonista · 5 years
Text
Classe disagiata
«Non mi è mai mancato nulla»: questa è la frase tipica di molti della mia generazione, e anche leggermente successiva, diciamo dei nati fino alla fine degli anni 80. Non ci è mancato nulla, con riferimento ovviamente ai beni materiali, e con questa frase esprimiamo la nostra appartenenza a una classe agiata. Peccato che poi, nell’arco di una generazione, questa classe agiata si sia rovesciata nel suo opposto: di ciò parla appunto il libro Teoria della classe disagiata, di Raffaele Alberto Ventura, pubblicato in rete nel 2015 e da Minimum Fax nel 2017.
Come è avvenuto un simile ribaltamento? Secondo l’autore, in effetti, la linea che separa l’agio dal disagio è molto sottile e si fa presto a passare dall’altra parte. Diventando grandi, la situazione globale è cambiata, la crisi economica è scoppiata, e abbiamo cominciato a rinunciare a quello che ormai davamo per acquisito: tranquillità economica, serenità lavorativa, possibilità di soddisfare la nostra voglia di superfluo.
Oggi non ci sentiamo più in grado di soddisfare i nostri bisogni, e questo genera frustrazione, rabbia, angoscia, paura.
Ma il concetto di bisogno non è assoluto, è relativo: dipende da come siamo abituati.
Ventura per spiegarlo introduce la storia di Controcorrente, un romanzo di Joris-Karl Huysmans del 1884. Parla del ricco duca Jean des Esseintes, che un giorno raccattò per strada un ragazzino povero di nome Auguste Langlois: lo portò con sé al bordello, offrendogli l’opportunità di spassarsela come non gli era mai capitato; e ogni 15 giorni ripeté l’operazione. Dopo tre mesi, il ragazzino si era talmente abituato a quell’esperienza godereccia che non avrebbe più potuto farne a meno. Il progetto del duca non era generoso, ma diabolico: una volta privato di questo piacere, il ragazzino sarebbe stato disposto a tutto, anche rubare e uccidere, pur di ritrovarlo: sarebbe diventato un mostro.
Insomma, conclude Ventura, «Per rendere infelice un uomo è sufficiente abituarlo a uno stile di vita che non può permettersi: l’infelicità aumenterà il suo risentimento nei confronti della società, incapace di garantire bisogni divenuti assolutamente necessari. E il risentimento fomenterà la rivolta».
Per capire i fenomeni economici, bisogna dunque usare un po' più di psicologia e un po' meno di economia: i comportamenti delle persone nel soddisfare i propri bisogni non sono sempre razionali, Ventura parla di una “gerarchia dei bisogni” che a volte viene rovesciata, inseguendo il superfluo per rinunciare all'indispensabile. Ed è la stessa cosa che tanti anni fa un mio amico siciliano mi aveva fatto notare a proposito dei suoi conterranei, che pur di farsi i cerchi in lega della macchina erano disposti a morire di fame.
Questo rapporto autolesionista nei confronti degli status symbol fu spiegato già nel 1899 da Thorstein Veblen, autore di quella Teoria della classe agiataalla quale il libro di Ventura esplicitamente si ispira. In esso ha definitol'effetto Veblen, riguardante quei beni la cui domanda non diminuisce con l'aumentare del prezzo – come sarebbe logico – ma al contrario, aumenta. E tante persone sono contente di pagare un prezzo più alto solo perché questo garantisce loro l'ingresso in un gruppo privilegiato, quello appunto di chi se lo può permettere. Insomma, paradossalmente “si compra il prezzo”, invece di comprare un oggetto. Ostentandolo poi, non si ostenterà l'oggetto, quanto il suo valore di scambio simbolico.
Secondo Ventura l'effetto Veblen si manifesta anche tra gli intellettuali, essendo in grandissima parte le loro attività nient'altro che uno status symbol appunto: non producono ricchezza, anzi, la disperdono, servono solo a testimoniare che chi pratica queste attività se le può permettere. Apparentemente fare corsi di biodanza, ritiri di meditazione, lauree in filosofia, scrittura creativa e traduzioni dal latino sono attività molto diverse dal comprare un orologio d'oro o un gadget della Ferrari; nella sostanza però, sembra dire l'autore, si tratta solo di due tipi diversi di consumo posizionale. Ovvero, di spreco.
C'è una serie infinita di citazioni che si potrebbero approfondire. Ventura cita il caso dei Rich Kids Of Instagram, cita l'entreprecariato di Silvio Lorusso, il Neoproletariatodi Tommaso Labranca e l'autorealizzazione di Abraham Maslow, cita le delusioni di Luciano Bianciardi degli anni 50 a proposito del “lavoro culturale”, cita un saggio di Baudrillard intitolato La genesi ideologica dei bisogni (1969), e gli scritti di Pierre Bordieu sulla cultura come “distinzione” e il “capitale simbolico”. E poi c'è Francesco Pacifico che nel suo romanzo Class sembra raccontare proprio cosa è e come vive la classe disagiata.
Una lunga e articolata intervista all’autore è comparsa nel settembre 2017 sul blog Bastonate.
Altri articoli interessanti sono stati scritti per il magazine del Sole 24 Ore, su minimaetmoralia.it, sul suo blog personale e sul tlog, che però non vengono più aggiornati da tempo. Ventura è anche direttore della collana di libri che ha pubblicato Datacrazia e Panarchia.
Adesso cambiamo argomento, e parliamo delle
0 notes
buonista · 5 years
Text
Case discografiche
Negli ultimi anni, la mia passione per la musica unita alla sua disponibilità illimitata garantita da Spotify, si sono unite per portarmi a un maniacale completismo del nuovo: pensare di poter conoscere tutta la nuova musica che viene pubblicata settimana per settimana, mese per mese, anno per anno. Abbandonato o quasi il filtro della stampa specializzata, mi sono avvicinato a realizzare questa utopia seguendo direttamente le case discografiche di mio interesse (cioè quelle indipendenti di popular music e tutte quelle importanti di musica classica). Le ho distinte in meticolosi elenchi di link per aree geografiche, in particolare Stati Uniti, Regno Unito, Italia, Canada, Francia, resto d'Europa e Australia. Nel 2015 scrissi un intero grosso libro in formato pdf che si chiamava L'atlante della musica indipendente, ed elencava le opere pubblicate in quell'anno dalle principali case discografiche indipendenti nel mondo.
Oggi ho realizzato un microblog apposito, che si chiama Festival della Musica e mi serve per avere facile accesso ai link di queste case discografiche.
Per esempio, nel 2018 la Anti-ha pubblicato il secondo album dei Mothers, la band di Kristine Leschper: Render Another Ugly Method. E poi Songs Of Resistance 1942-2018 di Marc Ribot, che comprende una struggente versione di Bella Ciao cantata da Tom Waits. È uscito Quiet River of Dust Vol 1, di Richard Reed Parry (membro degli Arcade Fire, una band che in passato ho amato). Sono usciti anche i lavori di Deafheaven, Calexico, i Foxwarren di Andy Shauf, Pillar Of Na dei Saintseneca, e Neko Case. Anti- è la succursale di Epitaph nata nel 1999 appositamente per acquisire il catalogo e le nuove opere di Tom Waits (che cercava una casa tranquilla, lontano dalle major).
La Burger Records nel 2018 è andata avanti con la consueta ampia collezione di punk rock adolescenziale: fra le nuove uscite hanno avuto Gymshorts, Turbonegro, Dwarves, The Garden, Longmont Potion Castle, MIEN, The Growlers, Veneer e tanti altri che si fa fatica a distinguere.
La newyorkese Cantaloupe, dedicata alla musica contemporanea d'elite, ha pubblicato Mystery Sonatasdi David Lang e Augustin Hadelich, il progetto di musica e film The Unchanging Sea, ancora David Lang con Writing On Water, e Clouded Yellow di Michael Gordon con il Kronos Quartet.
La Captured Tracks di Brooklyn ha proposto l'australiana Gabriella Cohen, l'esordio dei canadesi Chastity, i Gift Wrap, Molly Burch, Mourn, Robert Earl Thomas, Wild Nothing, Drahla. Ma nessuno di questi mi pare particolarmente originale.
Tra le altre case discografiche negli Stati Uniti ci sono: Dead Oceans, Drag City, Fat Possum, Important Records, Jagjaguwar, K Records, Matador, Merge, Mexican Summer, Not Not Fun, Polyvinyl, Run For Cover, RVNG Intl., Sacred Bones, Sargent House, Secretly Canadian, Thrill Jockey, Topshelf, Trouble In Mind, Western Vinyl, Woodsist.
Tra le case discografiche inglesi, quasi tutte basate a Londra, abbiamo per esempio: 4AD, Bella Union, Big Dada, Brownswood, Chemikal Underground, Domino, Erased Tapes, Fat Cat, Fire, Ghost Box, Hyperdub, Leaf, Memphis Industries, Moshi Moshi, Mute, Ninja Tune, One Little Indian, Opal Tapes, Play It Again Sam, Planet Mu, Rough Trade, Touch, Transgressive, Warp, Wichita, XL, Xtra Mile, Young Turks.
Per l'Italia: 42 Records, Artist First, Bomba Dischi, Believe Digital, Boring Machines, Carosello, Dischi Bervisti, Garrincha, La Tempesta, Maciste Dischi, Martelabel, Picicca, Sugar, To Lose La Track, Trovarobato, Urtovox, V4V, Woodworm.
Dal resto dell'Europa arriva invece l'etichetta belga Crammed Discs.
Per molti anni, il mio supremo oggetto del desiderio musicale è stata ECM, fin da quando lavoravo al reparto cd di Corso Como a Milano. Poi quando è iniziata l'era di Spotify, i dischi ECM hanno continuato a farsi desiderare perché non si trovavano in streaming. Poi nel 2017, di colpo, è stato messo online tutto il catalogo e oggi anche le ultime novità sono sempre disponibili.
E poi ci sono le case propriamente dedicate alla musica classica, come ad esempio la BIS.
Ma adesso cambiamo argomento, e parliamo di una teoria. Quella della
4 notes · View notes
buonista · 5 years
Text
Carta
Imparare a leggere, penso di averlo fatto con Topolino un po' prima di andare a scuola. E non credo di essere stato un lettore particolarmente precoce, o almeno, ricordo pochissime letture importanti nei cinque anni delle elementari. In effetti, l'unico libro che ho fisso in mente è Il giro del mondo in ottanta giornidi Giulio Verne: solo che non era propriamente un libro, ma un audiolibro – cioè una audiocassetta – e per giunta in lingua inglese. Penso di averlo ascoltato talmente tanto che ancora oggi alcune frasi mi riecheggiano in testa. Comunque il fatto che già da piccolo il mio rapporto con la letteratura sia passato attraverso un supporto alternativo alla carta, e in una lingua straniera, indica come fossi destinato a cercare alternative al libro tradizionale. Forse anche per una sorta di ribellione alla famiglia che mi aveva circondato di libri di ogni genere, in ogni angolo della casa, in corridoio, in salotto, e ovviamente in camera da letto. Quasi come se i libri fossero stati la mia culla, e crescendo, ho sentito il bisogno di distanziarmene.
Ma non ho sentito il bisogno di distanziarmi dalle parole, nelle varie forme che le parole possono avere. Anzi proprio parole sono ancora oggi la mia vera casa, e continueranno a esserlo; ma come forse anticipato dal mio precoce innamoramento per quell'ascolto di Giulio Verne, il mio formato preferito è quello dell'audiolibro. E la “vera” dimensione della narrativa, per me, è quella del suo ascolto ad alta voce. Che se da un lato si configura come evoluzione tecnologica rispetto alla vecchia carta – comodamente gestibile dalle applicazioni per cellulare come Audible – dall'altro ne è esattamente l'opposto, è un ritorno alle origini della nostra civiltà. Ai cantastorie. A Omero.
Quando sono andato a vivere da solo, nel 2015, mi sono deciso a fare quel passo che per un intellettuale come me potrebbe sembrare strano se non inspiegabile: liberarmi di tutti i libri, o quasi. Mantenerne soltanto alcuni in bella evidenza, quelli davvero importanti che mi piace non solo poter prendere in mano in qualsiasi momento, ma anche semplicemente guardare per la bellezza del loro aspetto fisico. Oggetti d'arredamento. E tutto il resto via, in cantina, o a casa di mia madre, o regalato a chi lo vuole o persino buttato nella spazzatura in casi estremi.
In realtà non ho smesso di tenere per le mani i libri di carta, solo che li prendo in biblioteca, li tengo con me per un mese e poi li restituisco. Sono sempre stato molto preso dalla vertigine delle novità, dalla sensazione urgente di dover in qualche modo controllare l'infinita gamma dei mutamenti che attimo dopo attimo fanno girare il mondo. E questo vale anche per le novità editoriali: così quando vado in Sala Borsa e cerco qualcosa da prendere in prestito, avrei voglia di mettermi nello zaino tutto quello che è stato scritto in ordine di tempo a ritroso, dal più recente al più vecchio, come in un blog uscito dallo schermo per diventare la realtà quotidiana della mia vita.
Con il tempo ho iniziato a pensare delle tattiche per placare questa mia ossessione, nutrire la bestia nuovista che mi agita.
Per farlo, digito il nome di un editore nel catalogo di Sala Borsa, alla voce “ricerca libera”, poi visualizzo le uscite appunto in ordine cronologico inverso, dalla più nuova alla più vecchia.
Così posso trovare velocemente le ultime uscite di Adelphi, Quodlibet, Minimum Fax, Guanda, Bollati Boringhieri, La Nave di Teseo, Feltrinelli, Marsilio, Einaudi, Sellerio, Nottetempo, Raffaello Cortina, Carocci, NN, Sur, Il Saggiatore, Voland, Nutrimenti, Rubbettino, Neo, Beat, TEA, Chiarelettere. E alla fine mi importa ben poco se sono grandi o piccole, mainstream o indipendenti, l'importante è il risultato cioè che pubblichino libri che mi piacciano.
Ho anche aperto un microblog, che si chiama proprio Sala Borsa, ed è un promemoria dei libri trovati con queste ricerche. Ovviamente non faccio in tempo a leggere questi testi per intero: ho il piacere di prenderli in mano, capire di cosa si tratta, iniziare appena a tuffarmi sotto la loro misteriosa superficie per ammirare brevemente cosa c'è sotto. Ma certo non li leggo per intero.
Con gli audiolibri invece vado fino in fondo, ed è incredibile pensare che soltanto nel 2017 mi sono iscritto ad Audible e dunque ho iniziato a fruirli in modo sistematico: ora mi sembra che tutta la mia vita precedente sia stata una transizione, un'infinita attesa prima di scatenarmi nella conoscenza di grandi classici, nonché di tante altre cose più o meno divertenti o interessanti. In poco più di un anno da allora ho completato opere che avevo sempre avuto lì tra i doveri, i “prima o poi lo leggo”, ma non avrei mai avuto davvero il tempo o la voglia di farlo. Per esempio Dostoevskij (L'idiota,Delitto e castigo), I Miserabilidi Victor Hugo, Don Chisciottedi Cervantes, Moby Dickdi Melville, Il processodi Kafka, Harry Potter, tutto il ciclo deL'amica geniale,Frankensteindi Mary Shelley, La luna e i falòdi Pavese, Il rosso e il nerodi Stendhal, Il gattopardo,Orgoglio e pregiudiziodi Jane Austen, il Decamerondi Boccaccio, Lolitadi Nabokov, L'insostenibile leggerezza dell'esseredi Milan Kundera, Trans Europa Expressdi Paolo Rumiz, Millennium Poetry – Viaggio sentimentale nella poesia italianadi Valerio Magrelli, L'ultimo arrivatodi Marco Balzano, Le piccole virtùdi Natalia Ginzburg, Vergine Giuratadi Elvira Dones. E tanti di più ne rimangono da ascoltare.
Ma adesso cambiamo argomento, e parliamo delle
0 notes
buonista · 5 years
Text
Bunkerizzazione
Fino a pochi giorni fa pensavo che Enver – il nickname di Enrico Veronese – fosse dovuto, oltre che alle iniziali del suo vero nome, all'intento di omaggiare il leggendario Enver Hoxha, leader dell'Albania dal 1944 fino alla sua morte nel 1985. Soltanto qualche giorno fa l'ho risentito e mi ha spiegato che no, era solo una coincidenza (peraltro perfetta per quegli anni ostalgici che segnarono tra l'altro l'ascesa degli Offlaga Disco Pax).
Tumblr media
Enver l'albanese fu in un certo paradossale modo una creatura del fascismo italiano, in quanto emerse come leader dalla resistenza all'occupazione colonialista decisa da Mussolini nel 1939. L'invasione era stata rapida e facile, nel giro di cinque giorni aveva portato all'esilio del re Zog I e all'inclusione dell'Albania nell'impero italiano.
Nel 1941 fu fondato il Partito Comunista Albanese, che chiamò a raccolta la popolazione per lottare contro i fascisti. I partigiani albanesi si costituirono nel 1942 come Movimento di Liberazione Nazionale dell'Albania, che riuniva orientamenti ideologici diversi e comprendeva anche i nazionalisti anticomunisti del Balli Kombetar. Ma alla fine i comunisti prevalsero largamente e dopo la liberazione del 1944 Enver emerse come leader unico dell'Albania, mettendo fuorilegge tutte le altre forze politiche e non mancando di eliminare i suoi stessi ex compagni di lotta che potevano minacciare il suo potere.
Enver fu celebre per la sua irriducibile ortodossia, per il suo essere “più stalinista di Stalin” e durante la vita – ma anche dopo la morte – fu venerato come un dio laico. Era talmente stalinista che dopo il 1956 si allontanò dall'Unione Sovietica diventata troppo riformista, avvicinandosi invece alla Cina di Mao. A differenza degli altri paesi comunisti dell'Europa dell'Est, l'Albania non si lasciò mai sottomettere, e nel 1968 addirittura uscì dal Patto di Varsavia per protesta contro l'invasione sovietica della Cecoslovacchia. Dopo il 1972 invece, ruppe anche con Mao per protesta contro la visita di Nixon in Cina. Enver rimase sempre ostile al governo troppo moderato di Tito in Yugoslavia, e non concluse mai accordi di pace con la Grecia dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
In compenso furono abbastanza buoni i rapporti con l'Italia, che a quanto pare non ha lasciato un brutto ricordo e viene tuttora considerata un paese amico dalla popolazione albanese.
Oggi uno dei segni più visibili del quarantennale governo di Enver è l'onnipresenza dei bunker fatti costruire nella prospettiva di resistere a invasioni straniere e guerre nucleari. La bunkerizzazione del paese iniziò negli anni 60, e nel 1983 aveva portato alla costruzione complessiva di 173.371 unità, mediamente 5 ogni chilometro quadrato (una densità impressionante, in un paese con peraltro meno di 3 milioni di abitanti).
Nell'ottobre del 2018 sono stato in Albania, e un amico di Alessia ci ha portato a visitare uno di questi, particolarmente enorme, ora trasformato in un museo. Ci si arriva in automobile attraverso un tunnel.
Tumblr media
Ci vorrebbero diverse ore per girarlo tutto.
Tumblr media
Il bunker-museo ricostruisce molti aspetti della storia nazionale albanese, in particolare la Resistenza al fascismo italiano e poi il regime di Enver. Inoltre ci sono varie installazioni artistiche per incuriosire i visitatori, e ciò dà anche il nome al luogo:
Tumblr media
Questo caso non è però usuale: oggi la maggior parte di quei bunker è abbandonata alla rovina.
L'amico di Alessia ci ha anche spiegato che in Albania «per ogni regola, c'è sempre un'antiregola», perché si tratta di un popolo tendenzialmente anarchico, e lo vedi platealmente da come si comportano nel traffico: molto simili agli italiani, ma peggio. È paradossale che proprio qui si sia sviluppato uno dei regimi politici più inflessibili della Storia, e che prima ancora del comunismo vigesse una sorta di codice cavalleresco – antico di cinque secoli – per regolare comportamenti sociali e controversie. Esso si chiamava Kanun, cioè Canone, e incorporava tradizioni locali che ai nostri occhi possono sembrare quasi mostruose. Per esempio nel nord del paese vigeva quella della Vergine giurata, che poi è stata raccontata nel libro di Elvira Dones (scrittrice albanese di lingua italiana) e nell'omonimo filmdi Laura Bispuri con Alba Rohrwacher: un adattamento molto libero ma più potente dell'originale, che fu presentato al Festival di Berlino 2015.
Secondo questa tradizione, tipica degli ambienti montanari, quando in una famiglia non ci sono figli maschi allora una delle femmine può decidere di “diventare uomo”, non avere rapporti sessuali e assumersi tutte le funzioni, i ruoli, i doveri e i diritti di un uomo (che alla donna sono preclusi, trattandosi di società estremamente maschilista). E una volta fatta una tale scelta, deve tenervi fede per tutta la vita.
In un certo senso, la protagonista di Vergine giurata ha deciso – dopo la morte dello zio, l'unica persona che teneva a lei – di proteggere il suo cuore chiudendolo ermeticamente e definitivamente al mondo esterno, proprio come i bunker che in Albania avrebbero protetto chi li abitava da ogni pericolo straniero.
Negli albanesi e nei calabresi che ho conosciuto, ho trovato la stessa durezza di carattere unita a un senso estremo di ospitalità, che fa intuire una infinita tenerezza per quei pochi che siano ammessi a entrare nel loro bunker.
Il mio primo impatto, indiretto, con il popolo albanese risale al 1991. Io facevo il liceo, il comunismo era caduto da poco, e quell'estate una nave che trasportava zucchero di canna proveniente da Cuba, e diretta in Italia, fece scalo a Durazzo. La nave venne pacificamente assaltata da un numero enorme di uomini, donne e ragazzi, che approfittarono dell'assenza delle forze dell'ordine dopo il collasso del regime per scappare dall'Albania. La nave così partì, e sbarcò a Bari. Fu l'inizio di quel fenomeno delle migrazioni di massa non autorizzate verso il nostro paese, che in questi 27 anni ha conquistato il cuore dell'opinione pubblica italiana (la quale ha infine reagito come sappiamo, dando tutto il potere a Salvini). La storia è stata raccontata nel 2017 da un documentario di Daniele Vicari, La nave dolce (che si può vedere su Youtube).
In quei giorni invece, ricordo il titolo di Cuore – il settimanale satirico “di resistenza umana” che era il mio punto di riferimento informativo – del 12 agosto: Notti Maaaagiche/ Inseguendo un goool!. Ovviamente era un riferimento agli ancora recenti mondiali di Italia 90, ma anche al fatto che quell'enorme folla di profughi era stata reclusa dentro lo stadio di Bari. Infatti l'occhiello recitava “Italia 91 meglio di Italia 90: tutto esaurito allo stadio di Bari”. E a fianco della testata, la celebre mascotte dei mondiali compariva attrezzata di casco e manganello, per fare riferimento alla gestione autoritaria della vicenda da parte delle forze dell'ordine italiane.
Tra l'altro, tutto l'archivio di Cuore si può leggere online, ed è come una macchina del tempo.
Ma adesso cambiamo argomento e parliamo di
0 notes
buonista · 6 years
Text
Blogstalgia
Nei primi anni 2000 abitavo a Bologna e cercavo di fare economia su tutto, per esempio rinunciando a Internet. Mi connettevo alla biblioteca di via Zamboni 25, per quanto possibile, e per il resto nel fine settimana andavo a trovare i miei genitori a Gabicce Mare, e lì potevo farlo senza limiti.
Questo mi dava modo di riflettere molto sulle cose che leggevo. Dopo l'11 settembre il mio interesse per le letture in rete ebbe un impennata, e in un bel giorno di ottobre scoprii anche il sito di Claudio Sabelli Fioretti – che conoscevo come l'ex direttore di Cuore – e che però era diverso da tutti gli altri siti.
Il suo sottotitolo era una domanda retorica: «Chi non ha un blog, oggigiorno?». Come dire: tutti ce l'hanno ormai, un blog. La caratteristica di questo blog era di presentarsi come una successione di articoli in ordine anticronologico, vale a dire, dal più nuovo al più vecchio.
In questo caso, gli articoli erano principalmente lettere al giornalista, da parte di nomi del tutto sconosciuti al pubblico – i quali però, essendo spesso ospitati sul blog, mi divennero in qualche modo familiari – e parlavano quasi unicamente di tutto il casino geopolitico in corso: Bush, Bin Laden, Berlusconi e D'Alema, i talebani, i no global, la Fallaci. Ogni tanto c'era un articolo scritto dallo stesso Sabelli.
E poi aveva aperto un altro blog, di tipo totalmente diverso e all'epoca per me molto esotico nonostante fosse bolognese, che si chiamava Polaroid: un blog alla radio. Cioè, non solo il blog era di per sé una cosa nuova. Questo era blog e programma radiofonico insieme, eravamo già al crossover dei media. E poi l'argomento: parlava di musica, la musica era la mia specialità e io mi vantavo di avere gusti oscuri e originali, però questi parlavano di artisti che erano più oscuri e originali dei miei. Il primo post è di martedì 13 novembre 2001, e faceva così: «Good evening ladies and gentlemen, si inaugura qui il blog di Polaroid, la trasmissione di Radio Città 103 in onda (forse) il venerdì alle venti sui 103.1 mhz di Bologna. Ebi + Ellegi selezioneranno per voi musiche, drinks e letture appropriate. Speriamo che vi piaccia. A presto». Ebi era Enzo e Ellegi era La Laura, una coppia che in seguito avrei conosciuto anche di persona.
Polaroid fu il primo in quella che scoprii essere una comunità che si riconosceva come tale, con i suoi leader, i lettori silenziosi, i membri storici, quelli ortodossi, i non ortodossi, i fiancheggiatori eccetera: era la comunità degli indieblogger, come si sarebbe definita in seguito.
E incredibilmente, Polaroid è regolarmente attivissimo ancora oggi, con lo stesso indirizzo addirittura (piattaforma blogspot), autore di un'impresa che fosse anche solo per la costanza – oltre che per il tempismo, la professionalità, l'indipendenza e la passione – credo sia unica al mondo.
Passò comunque parecchio tempo, da quelle prime esperienze di lettore, prima che decidessi a mia volta di aprire un blog. Eravamo all'inizio del 2003, avevo letto su l'Espressoun esaltante articolo intitolato Dieci cento mille blog che fotografava l'esplosione di questo fenomeno in Italia, anche grazie a una piattaforma gratuita e dutta italiana chiamata Splinder.
Così fu su Splinder che iniziai quell'avventura, e siccome le mie condizioni di utente del web non erano nel frattempo cambiate – mi connettevo solo nel fine settimana, e dunque potevo anche pubblicare solo nel fine settimana – decisi di chiamarmi ilblogdelladomenica. Misi un sottotitolo che voleva essere ironico: Contro Castaldo senza se e senza ma, scimmiottando lo slogan dominante in quel periodo contro le varie guerre e i vari terrorismi di turno, ma applicandolo alla musica. E scegliere come bersaglio il giornalista musicale di punta diRepubblica, Gino Castaldo appunto, mi sembrava perfetto per vari motivi: primo perché avere un “nemico” definiva immediatamente la mia identità di blogger e di opinionista, secondo perché indicava nella musica il mio argomento principale, terzo perché Repubblicaera il punto di riferimento indiscusso del popolo di sinistra, quindi criticandola da sinistra mi mettevo in una posizione da cui potevo sparare a zero praticamente contro tutto il panorama culturale italiano, e quarto perché Castaldo era famoso ma non troppo, quindi nessuno prima di me lo aveva onorato tanto da eleggerlo a simbolo di un sistema (per quanto da combattere). Decisi fin da subito che ilblogdelladomenica – abbreviato in bdd – sarebbe stato un opinionista polemico e iconoclasta, ma al tempo stesso “umano”, e (oggi lo riconosco) fin troppo emotivo e umorale. La polemica per me era per così dire un atto d'amore, come per quei personaggi dei film di Ettore Scola che si insultavano simpaticamente e creativamente per fare conversazione.
Naturalmente però, non tutti stavano al gioco, e con questo modo di fare ho finito per offendere un sacco di gente e purtroppo anche vari amici.
Amici che comunque all'epoca erano tanti, perché proprio nel 2003 – grazie a Splinder e forse grazie anche a quell'articolo dell'Espresso – furono in tanti ad aprire un blog contemporaneamente al mio, e tanti che avevano i miei stessi interessi e finemmo per costituire la comunità degli indieblogger. Di questi, Enzo e La Laura di Polaroid erano i veterani essendo attivi già da due anni che all'epoca era un'eternità.
Il più rispettato, e il più bravo a scrivere, era Leonardo, prevalentemente politico: nel 2001 aveva fatto la storia della blogosfera con la sua diretta dal G8 di Genova. È attivo ancora oggi allo stesso indirizzo, ma è più attivo su Il Post dove si raccolgono molti superstiti della primissima stagione (lo stesso direttore Luca Sofri, che sui blog era ed è Wittgenstein, e l'esperto di web Massimo Mantellini). Un vecchio post proprio di Leonardo, del 24 dicembre 2001, è una perfetta foto di famiglia della blogosfera di allora. C'era già anche Valido: uno che il suo primo sito l'aveva aperto il 9 settembre 1999, e non essendo ancora un blog ne aveva già anticipato alcune caratteristiche.
Più avanti Valido avrebbe lasciato il segno – ma nascondendo la sua vera identità – in avventure fortunatissime come quella de I 400 Calci (dove si firma Nanni Cobretti). Collaborava o collabora anche con Orrore a 33 Giri, un blog collettivo dedicato a stramberie musicali.
E Valido ha frequentato gli indieblogger: che pure erano, per così dire, una generazione successiva alla sua. Per molto tempo è stato anche autore ospite su Inkiostro.
Quest'ultimo fu uno dei primi indieblogger che notai, ed era uno dei più noti. Oggi è ancora online (a un altro indirizzo, perché Splinder non esiste più) ma non viene più aggiornato da anni. Il suo primo post è del 6 gennaio 2003. Anche lui si occupava di musica indie, anche con lui fummo amici per un po' ma poi abbiamo litigato malamente perché entrambi abbiamo un carattere apparentemente dolce ma anche permaloso e irritabile.
Anche Enrico Veronese, noto in rete come Enver, aveva un caratteraccio. Di lui colpiva il superattivismo entusiasta, sia come giornalista musicale che come opinionista di sinistra. Era famoso come rubrichista di Blow Up. Si è lanciato in tanti progetti, quasi sempre abbandonandoli a metà. Oggi è ancora su Twitter.
Credo che il primo a linkare il mio blog della domenica nel 2003, e quindi a farmi entrare nel giro, sia stato Batteria Ricaricabile, anche se nella prima fase aveva un altro nome che non ricordo più. Questo è stato attivo fino al 2013.
Tra quelli che seguivano la musica indie, ce n'erano due particolarmente brillanti e drittoni. Uno era Andrea Girolami, che veniva da Senigallia mi pare, e fu il primo blogger che avvicinai di persona: fu al famoso festival Frequenze Disturbate del 2003, lui aveva lanciato l'invito a farsi vedere, io mi feci vedere e attraverso lui feci amicizia con tutti gli altri. Il suo blog si chiamava Loser, poi ne aprì un altro – Nonsischerzapiu – oggi scrive su Twitter e chissà dove, ma mi pare non si occupi più di musica.
Un altro particolarmente brillante che era di Roma e il suo blog si chiamava shoegazer. Sempre su splinder. Conosceva un sacco di gente e aveva un sacco di progetti, alcuni non hanno funzionato molto. Uno è diventato la casa discografica 42 records, che ha lanciato I Cani di Niccolò Contessa e avuto così un ruolo di primo piano nella trasformazione dell'indie italiano (a tale proposito era stato intervistato nel 2017 su Pagina99) Oggi scrive ancora su Twitter.
Non ricordo quando iniziai a seguire Francesco Farabegoli, che si faceva chiamare Disappunto, ed è un altro che ha avuto tanti progetti diversi, e tardivamente – dal 2009 al 2017 – ha realizzato il blog musicale italiano più bello in assoluto. Si chiamava Bastonate, oggi si può ancora ricevere la sua newsletter, e leggerlo su Twitter.
Su Twitter è anche Michele Boroni, noto come Emmebi, che non era tanto interessato alla musica indie quanto alla cultura pop, e alla politica. Scriveva anche sul Foglio, quindi insomma già allora aveva un altro tipo di notorietà. Ma seguiva comunque lateralmente gli indieblogger. E il suo storico blog, attivo dal 2002 al 2014, è ancora online (anche nell'impaginazione tradizionale). Poi scrive di musica mainstrindie su rockol.
In generale è curioso osservare il diverso destino che si è avuto a seconda che la piattaforma fosse su splinder o su blogspot. Di chi era nella prima, oggi non rimane più niente: salvo nei rari casi di chi è migrato in tempo su un altro dominio, come nel caso di Pubblicodimerda, che degli indieblogger fu l'ideologo e il teorizzatore durante l'età dell'oro: che possiamo dire coincide con il suo periodo di attività, l'incredibile triennio 2003-2006. Fu lui fra l'altro a inventare un premio burla per gli indieblogger (gli Indieblog Awards) e a idolatrare il giornalista Fabio De Luca che a forza di essere chiamato in causa finì per entrare nella ballotta anche lui: e c'è ancora, su Tumblr che è la piattaforma di microblog che uso ancora anch'io.
Uno che stava un po' in disparte, e non ci siamo mai visti di persona, era Elrocco. Ancora attivo su blogspot dopo tutti questi anni.
Di quella blogballotta faceva parte anche Aurelio Pasini giornalista delMucchio, anche se non aveva un blog. La sua fidanzata sì, il blog era A visible Sign Of My Owne pubblicava soprattutto fotografie. All'epoca mi sembrava una cosa un po' superflua, poi sono arrivati i fotoblog e oggi è quello che facciamo tutti con Instagram. Era anche lei più avanti della sua epoca.
Luca Castelli invece era una vecchia firma di Rumore, aveva cominciato con il blog un po' più tardi degli altri: il suo era Ilpozzodicabal e lo è ancora.
Poi c'era Akille, un tipo di Roma molto flemmatico e simpatico che non ho mai saputo come facesse di cognome, quindi oggi che non è più online chissà che fine ha fatto. L'unico segno che ho ritrovato ora della sua esistenza è questa intervista del 2006.
Un po' più lontano dalle nostre frequentazioni era Ludik, storicamente uno dei primi blogger italiani in assoluto, che oggi è attivo più che altro su Twitter.
Lontano da noi era anche il vulcanico Zoro, che poi è diventato un personaggio televisivo e oggi conduce Propaganda Live su La7.
Io nell'epoca d'oro dei blog sono rimasto sempreIl Blog Della Domenica, fino al 2006 mi pare. Poi mi ero buttato sui social network dell'epoca e su Tumblr. Poi sono successe tante altre cose, ho avuto un altro blog che si chiamava Complotto e Mezzoe anche in quello ci ho messo tanto impegno, e sarà stato verso il 2009 e 2010. Dopo quello credo di avere perso traccia persino io di cosa scrivevo in giro. Per esempio nel 2014 avevo un blog che si chiamava La rassegna della domenica, era cominciato parlando di musica poi era finito per diventare una serie di racconti molto intimisti.
Qualche giorno fa, Polaroid ha rilanciato una riflessione di Matthew Perpetua, storico blog (o m-blog) americano, che ha scritto: «Le cose andavano molto meglio quando c'erano i blog». E nella sua ingenuità, questa lamentela mi ha colpito. Mi sono concesso di provare nostalgia, una sensazione che normalmente detesto, la trovo sempre insensata, il segno della senilità.
E adesso la provo anch'io, la nostalgia, o meglio la blogstalgia per quell'età dell'oro, per quei tre anni in cui è successo di tutto e i blog erano un'avanguardia di libertà espressiva e di sperimentazioni. Più di ogni altra cosa erano una comunità, per quanto deterritorializzata e instabile, ma proprio per questo magica e irripetibile.
Ma adesso cambiamo argomento, e parliamo della
30 notes · View notes
buonista · 6 years
Text
Beccamorto
Mia nonna usava la parola “beccamorto” per dire “becchino”. Non credo siano mai esistiti beccamorti famosi o importanti, eccetto uno: William Banting. Che famoso non fu però in quanto beccamorto, ma in quanto inventore di una delle attività più importanti del mondo moderno e contemporaneo: la dieta.
Nato nel 1796, Banting veniva da una famiglia di beccamorti di Londra, che aveva avuto più di una volta il prestigioso incarico di organizzare i funerali dei re britannici. Il lavoro di un beccamorto consiste nell'accompagnare le persone alla tomba, ma William Banting alla tomba rischiava di andarci lui, se non avesse curato in tempo il problema della sua obesità. Fu questo che lo spinse un giorno a rivolgersi al dr. William Harvey per migliorare la situazione. Il medico, che aveva assistito alle lezioni del fisiologo francese Claude Bernard a Parigi, gli consigliò di limitare l'assunzione di carboidrati e in particolare amidi e zuccheri. Le indicazioni di Bernard erano rivolte a combattere il diabete, ma Banting ne beneficiò anche dal punto di vista estetico.
L'entusiasmo per i risultati lo portò a raccontare la sua esperienza nel 1863, pubblicando la Letter on corpulence, addressed to the public, che conteneva il piano dettagliato della dieta seguita. Essa consisteva in quattro pasti al giorno, con carne, vegetali, frutta e vino secco.
Il successo dell'opuscolo fu enorme, e lo rese il modello per tutte le successive pubblicazioni dedicate all'argomento. Tanto che in alcuni paesi, la parola “banting” ancor oggi significa “essere a dieta”.
Sempre in Inghilterra, nello stesso periodo, nacque un altro fenomeno fondamentale del mondo di oggi: il turismo. La prima agenzia di viaggi della storia fu fondata infatti nel 1841 da Thomas Cook. E il primo in assoluto di questi viaggi lo organizzò per un gruppo di 500 attivisti anti-alcol, che vennero accompagnati dalla stazione di Leicester a Loughborough (11 miglia di distanza). Ognuno dei partecipanti pagò uno scellino per il tragitto di andata e ritorno.
Ma prima che Thomas Cook ne facesse un business, esisteva già il Grand Tour: una pratica in uso durante il Seicento e il Settecento da parte delle famiglie benestanti europee – soprattutto inglesi – che consisteva nel fare un viaggio di formazione in Italia, culla dell'antica civiltà romana e poi del Rinascimento. Tipicamente si intraprendeva questo Grand Toural compimento della maggiore età (21 anni), ed era più frequente per i giovani di sesso maschile.
Il 2 giugno del 1819, una bizzarra carrozza bianca in stile “napoleonico”, fabbricata a Londra da un celebre costruttore di carrozze, lasciò Venezia alla volta di Bologna. Il veicolo era dotato di un letto per dormire, di un tavolo e provviste per mangiare – praticamente un camper – ed era seguito da un'altra vettura che trasportava la servitù e gli animali domestici del proprietario. Il proprietario si chiamava Lord George Gordon Byron, o più semplicemente Lord Byron, e arrivò a Bologna dopo un viaggio di quattro giorni, soggiornando all'albergo del Pellegrino in via dei Vetturini – oggi via Ugo Bassi, dove tuttora una targa porta memoria dell'evento. Qui il poeta restò una decina di giorni, e nonostante il caldo insopportabile, riuscì a visitare vari luoghi della città e in particolare la Certosa e la Pinacoteca, prima di ripartire per Ravenna.
Le città principali in cui si faceva il Grand Tour erano Roma, Firenze, Napoli, Pompei, Torino, Milano, Cremona, Siena, Vicenza, Paestum, e Urbino.
Più o meno le stesse di oggi, un'epoca in cui l'apparentemente inarrestabile turistificazione rende sempre più concreto il rischio che una città si svuoti delle proprie comunità locali, e si trasformi nella maschera di se stessa, un guscio ancora bello ma ormai inerte. Il punto di arrivo paradossale di questo processo sarebbe una città senza più residenti, abitata solo da gente di passaggio e dagli addetti alla loro accoglienza.
E si direbbe che tutto sommato, tra turistificazione e desertificazione, non c'è poi molta differenza.
Mi viene in mente un noir del 2016 di Massimo Carlotto che racconta la storia di un serial killer chiamato appunto “il turista”, perché colpisce le vittime in tutta tranquillità grazie all'anonimato garantito appunto dai luoghi sempre affollatissimi di visitatori. Infatti la storia è ambientata a Venezia.
Ma adesso cambiamo argomento, e parliamo della
(continua)
1 note · View note
buonista · 6 years
Text
Bologna, vicolo Malgrado 8,
Domenica 28 Ottobre 018
Ogni tanto ripenso all'epoca in cui Internet entrò nella mia vita, e cerco di ricordarmi la prima volta che vidi un browser, o che ascoltai lo stridore futuristico del modem alla faticosa ricerca di una connessione.
Ci sono tante azioni insignificanti che facciamo ogni giorno, e se io non ricordo – né probabilmente ritroverò mai nella memoria – quella mia prima esperienza online, è perché devo averla ritenuta una di quelle tante azioni insignificanti che facciamo ogni giorno. Credo che in futuro, il ricordo del “primo click” verrà sempre più considerato come un momento di svolta nella storia dell'umanità, ma per chi c'era, non sembrava proprio niente di particolare. Invece è stato qualcosa di paragonabile a quando abbiamo imparato a leggere.
Viceversa, ci sono tanti cambiamenti molto attesi, annunciati come epocali e rivoluzionari, che a distanza di anni si riveleranno insignificanti. Il MiniDisc, per esempio. Cosa pensavo che fosse questa trovata di Internet, a cosa mai sarebbe potuta servire, in confronto alla meraviglia dei MiniDisc? Quelli sì che pensavo mi avrebbero cambiato la vita. Eh.
Come anche il Commodore 128, che il papà mi aveva regalato per un qualche compleanno, forse l'ottavo, forse il nono. La prima connessione della mia vita dovette invece avvenire più o meno dieci anni più tardi, e comunque verso il 1994, quando fece l'ingresso in casa il mio primo Intel 486. Può darsi che qualcosa mi abbiano fatto vedere proprio in occasione dell'acquisto, può darsi che mi abbiano dato un indirizzo email, anzi è probabile. Il browser all'epoca si chiamava Netscape, questo me lo ricordo. Come mi ricordo che il mio primo sito web si chiamava Geocities, un'immaginaria città nella quale potevo mettere tutte le cose che pensavo, e si poteva saltare da una città all'altra.
Oggi esiste il regno della memoria di Geocities, una sorta di necropoli dell'antico world wibe web. L'ho trovato su Metafilter, un grande contenitore di interessanze che a sua volta ricorda quell'elitaria età dell'oro.
All'epoca era come fare l'autostop tra strade immaginarie, fatte non di asfalto ma di idee. La mia paginetta di Geocities deve essere nata intorno al 1995 o 1996, chissà. Ma nel fondo, il mio modo di vivere Internet non è mai davvero cambiato da allora: è quello di un vagabondo che arriva, vede, prende un pezzetto e poi riparte. Un vagabondo della conoscenza. Un autostoppista cognitivo. Che certo potrebbe volendo comprarsi una macchina, ma a costo di perdere la leggerezza.
Ogni cosa che vedo, che leggo, che ascolto, è per me come l'incontro con un guidatore che mi dà un passaggio da un punto all'altro dell'universo. A seconda di quante possibilità di nuovi spostamenti ci sono in quel punto, avrò la sensazione che quel punto in cui sono capitato sia più o meno interessante. Ed è strano per me che nella lingua italiana non esista il sostantivo “interessanza”, perché se esistesse lo userei proprio durante i miei vagabondaggi: potrei misurare ogni cosa che vedo, che leggo, che guardo in base alla sua “interessanza”, o connettibilità cognitiva, ovvero alla sua capacità di creare un certo numero di connessioni che mi portino verso altre cose, le quali a loro volta mi porteranno verso altre ancora. Per esempio se studiando un argomento scopro 10 possibili approfondimenti da fare, significa che l'interessanza di quell'argomento è 10. Se quell'argomento mi suggerisce altri 3 argomenti, la sua interessanza è 3. Ma se non mi suggerisce nulla, se è un punto morto, la sua interessanza è zero e per ripartire dovrò prima raggiungere altri argomenti, ad esso scollegati, e dotati di interessanza cioè di connettibilità.
Oggi il blog Brainpickings ha un approccio simile a questo, configurandosi come un collettore di interessanze su argomenti diversi.
Ma adesso cambiamo argomento, e parliamo di un
(continua)
1 note · View note