INPS per la famiglia
Di quando i 300 di Leonida si reincarnano, e lavorano per lo stato. A-HU!
Stamattina mi alzo, prendo la S-Bahn e mi trovo ad aprire Twitter. E cosa ci trovo? Ci trovo la saga dei 300 soldati di Sparta che si sono reincarnati e si trovano su Facebook a gestire uno stretto passaggio , una pagina istituzionale che deve fermare un’orda di persiani farlocchi desiderosi di depredare lo stato.
Quello che sta succedendo era altamente prevedibile, per la semplice ragione che e’ sempre successo. Se vi foste mai fermati un giorno ad uno sportello dell’ INPS, diciamo a mettere a posto qualche terminale TN3270 (ho la mia eta’, abbiate pazienza) , avreste visto chiaramente che cosa si presenta agli sportelli. E avreste visto questi impiegati/e, che ogni giorno devono reggere il massimo della fancazzaggine, dell’ignoranza, dell’approssimazione dialettale, dell’evasione fiscale manifesta, del lavoro nero praticamente confessato di fronte allo sportello, con la stessa eroica posa di un oplita alle Termopili. Mai fare un passo indietro.
Ma la cosa assurda sono le discussioni che poi nascono da questa cosa. Innanzitutto, c’e’ una strana concezione della sinistra come surrogato laico della Caritas. In passato e’ esistito qualcuno, cioe’ la frangia piu’ radicale della sinistra, che per trovare appoggio in un paese cattolico ha spacciato per “sinistra” qualsiasi cosa si sforzi di costruire un welfare per aiutare i poveri. Se consideriamo che il welfare moderno fu inventato da Federico di Prussia, personalmente dubito che tale definizione possa essere corretta , a meno che non si voglia inserire il Re Soldato di Potsdam tra le icone della sinistra.
In ogni caso, sembra che qualcuno abbia raccontato alle masse ignoranti piu’ cattoliche una storia, secondo la quale “la sinistra” sarebbe una versione della Caritas, cioe’ un istituto di carita’, ma molto piu’ finanziato, in quanto pesca direttamente dalle casse dello stato. Questo ha chiaramente attratto tutta una serie di persone che erano insoddisfatte del trattamento Caritas, ma ha creato un’ala della “sinistra” che era del tutto “non di sinistra”, e che oggi (fortunatamente) e’ confluita nel Movimento Cinque Stelle.
L’equivoco consiste nel fatto che la sinistra non si e’ MAI proposta di fare l’elemosina ai poveri per aiutarli: la sinistra ha sempre parlato di “emancipazione”, cioe’ di offrire ai poveri gli strumenti che servivano loro per prendere il cosiddetto “ascensore sociale”.
Nel partito di sinistra del periodo, il PCI/PDS/whatever , quindi, sono esistite DUE anime:
Quella progressista: diffusa principalmente nelle citta’ e tra gli operai che mandavano a studiare i figli a costo di schiattare di lavoro , questa sinistra spiegava chiaramente cosa si intendesse per “emancipazione”: non si trattava di dare pesce alle persone, ma di insegnare loro a pescare.
Quella populista: in provincia, per strappare le masse alla Chiesa, si era deciso di vendere l’idea di “aiutare le masse lavoratrici” come fosse un sostituto impersonale (cioe’ statale e burocratico) della Caritas. Un posto dove, anziche’ darti la mensa dei poveri, ti davano dei soldi.Insomma, non ti davano la canna da pesca: ti spiegavano che un pesce al giorno fosse un diritto acquisito.
La cosa interessante e’ che la sinistra piu’ radicale non si e’ ambientata molto nell’ala progressista, ma in quella populista. Il sinistrato radicale deve spacciare alle persone delle bufale evidenti e surreali, quindi preferisce avere a che fare con la classe di ignoranti, che credono di essere ignoranti in quanto proletari e non proletari in quanto ignoranti, una classe che si beve qualsiasi cazzata pur di ottenere soldi dallo stato. Se bisogna dire che in Russia si Sta Meglio si dice, basta che dai una pensione di invalidita’ a mia zia.
Il risultato e’ che oggi “Candy Candy Forza Napoli” viene spacciata per una proletaria oppressa dal Capitale, quando e’ una persona che:
E’ cosi’ pigra che non va a registrarsi sul sito di INPS. Ma e’ piuttosto attiva su Facebook.
Si e’ sforzata di resistere ad almeno 10 anni di istruzione gratuita ed obbligatoria, uscendone indenne.
Tuttavia, arrivera’ qualcuno che si ritiene “di sinistra” a difendere queste persone , classificandole tra i “lavoratori”. In che modo persone che NON sono lavoratori siano “lavoratori” o “la classe lavoratrice” mi e’ del tutto incomprensibile. Ma questo e’ il risultato di un equivoco populista che ha visto la sinistra estrema arruolare nella “classe lavoratrice” (e quindi meritevole di carita’-sussidio) CHIUNQUE avesse militato nella loro fazione.
Perche’ “Marta Fana” (come tanti simili a lei) considera “classe lavoratrice” una classe di persone che spesso ammettono con chiarezza di compiere evasione fiscale?
Il figlio di questa persona, tecnicamente e legalmente, non solo NON e’ un “lavoratore”, ma di fatto sta rubando soldi ai lavoratori che pagano le tasse. Eppure la sinistra radicale annovera queste persone tra la “classe lavoratrice”. La ragione e’ semplice: per molto tempo nel PCI si andava a tessere, e le tessere nelle zone piu’ devastate del paese andavano procurate ad ogni costo. Anche a costo, cioe’, di tesserare evasori fiscali, lavoratori in nero e parassiti conclamati. Oggi questa “sinistra” e’ confluita in massa in M5S perche’ M5S ha saputo fare la stessa cosa ma meglio, dal momento che la sinistra progressista continuava ad offrire emancipazione dove loro si aspettavano carita’ a fiumi, e senza dover dire grazie.
La sola differenza tra la carita’ e il welfare, per la sinistra radicale, e’ che il welfare e’ un diritto, mentre con la carita’ devi almeno dire grazie a chi te la versa.
Qui c’e’ il punto cruciale: occorre stabilire definitivamente se la “sinistra” intenda emancipare le persone o far loro la carita’ . La scelta e’ tra dare alle persone una canna da pesca o un pesce.
Ad onore del vero non possiamo nemmeno accusare i marxisti o i leninisti di questo: loro hanno sempre parlato di collettivizzare i mezzi di produzione, non la produzione. Questo significa che nell’esempio del pescatore, la proposta non e’ mai stata quella di dare a chiunque il pesce, ma quella di dare a chiunque la canna da pesca.
Nella costruzione dello stato sovietico qualcosa ando’ storto (Stalin) e quindi le cose andarono diversamente, nel senso che una volta statalizzati i mezzi di produzione allora anche il plusvalore fu statalizzato, per cui ti consentivano di usare una canna da pesca, ma poi NON ti consentivano di emanciparti perche’ ti toglievano TUTTO il pesce che pescavi, per darlo ad altri.
A questa deviazione storica si ispira la sinistra populista, che non a caso mostra sempre grandi simpatie verso Stalin. Una visione come quella cinese, ove lo stato possiede i mezzi di produzione (e’ socio al 51% di qualsiasi azienda) ma solo chi lavora molto diventa ricco , e’ ancora abbastanza estranea alle loro menti.
Ma il problema non e’ storico nel senso di “storia del comunismo”, e’ storico nel senso di “storia del PCI”. La verita’ e’ che nel dopoguerra al PCI servivano voti. Poiche’ il PCI si proponeva di arruolare “la classe lavoratrice”, chi sosteneva il PCi doveva essere in qualche modo considerato “classe lavoratrice”. Ma nel momento in cui, per fame di voti, vogliamo arruolare anche lavoratori in nero, evasori fiscali e palesi fancazzisti, occorre dar loro la patente di classe lavoratrice. Ed e’ quel che fu fatto.
Potete chiedervi che senso avesse per il PCI promettere carita’-come-diritto a gente che non la meritava, e a carico degli altri lavoratori: una volta arrivati al governo si sarebbero trovati in enormi difficolta’ nel conciliare le due cose. (cosa che sta succedendo puntualmente ad M5S, peraltro). Ma qui arriva il giochino magico: nell’Italia della guerra fredda, con le elezioni che si svolgevano avendo la sesta flotta americana al largo di Roma, non esisteva la piu’ pallida chance che il PCI andasse al potere. Al PCI serviva solo riempire le piazze, e per questo andava bene chiunque. Non avevano il problema di mantenere le promesse una volta al governo.
Questo corto circuito tra le due “sinistre”, quella progressista che voleva emancipare queste persone e quella populista (o radicale che dir si voglia) cui bastava imbarcarle e’ esploso alle scorse elezioni, ed e’ esploso in quasi tutti i paesi occidentali proprio con l’arrivo di partiti dichiaratamente populisti. Una volta caduto il taboo verso il populismo, infatti, non serve piu’ la foglia di fico della “classe lavoratrice” per pretendere un reddito di cittadinanza. Nessuno ha piu’ bisogno di scendere in piazza coi sindacati mescolandosi al lavoratori, quando puo’ semplicemente sfanculare a destra e sinistra usando Facebook.
E nessuno si vergogna piu’ di dichiarare di praticare lavoro nero: se un tempo avevano la decenza di farsi chiamare “lavoratori sfruttati in nero”, pretendendo che la condizione irregolare fosse una decisione del padrone infame che risparmiava, oggi vanno direttamente di fronte all’impiegato dell’ INPS a dichiarare che il figlio lavora in nero. Non serve piu’ la foglia di fico del “lavoratore sfruttato”: M5S, infatti, ha tutti i vantaggi della sinistra radicale, ma senza richiedere alle persone di fingersi lavoratori. Basta loro dire di essere “uno che vale uno”.
E questo ha risvolti politici enormi: il PD e’ letteralmente divorato da due anime. Una, quella progressista, tutto sommato vive con un senso di sollievo che M5S e Lega abbiano strappato loro l’ala populista. Sono di meno, dicono, ma almeno tutti hanno capito cosa sia la sinistra progressista.
L’altra ala, quella che vuole allearsi coi populisti, e’ quella che sino a qualche tempo fa aveva imbarcato i loro elettori, e che si illude di riaverli indietro. Ma perche’ una persona cui basta dire “vaffanculo” dovrebbe riprendere una tuta blu da manifestazione, fingere che gli importi della Palestina, tenere in casa “Il Maestro e Margherita” fingendo di averlo letto? A queste persone oggi basta dire vaffanculo, stare sui social e insultare chiunque: molto piu’ semplice ed economico, anche perche’ per fingere di aver letto Il Maestro e Margherita bisognava almeno parlare in italiano, (se si leggeva il libro tradotto e non l’originale) , mentre per essere seguaci di M5S un idioma pata-dialettale basta e avanza. E la Palestina poi: diciamolo chiaramente, ma a chi cazzo e’ mai fregato davvero qualcosa di quel posto? Grillo ti offre la stessa cosa, senza dover leggere romanzi russi, conoscere le vicende di popoli improbabili, fingere di lavorare.
Ovviamente, la sinistra italiana ha fatto (con Zingaretti) una scelta suicida: quella di provare a riprendersi la parte “populista” che M5S gli ha strappato. Per fare questo deve riprendere parte del dizionario del vecchio populismo di sinistra, parte del ciarpame ideologico (prevedo il ritorno degli scritti di Giulietto Chiesa) e ovviamente deve scontentare l’ala progressista che, diciamolo, di quel ciarpame umano e ideologico aveva le palle piene sin dal secolo scorso. E spiegare al grillino medio, daccapo, dove cazzo si trovi la “Palestina”.
Il merito della vicenda dell’ “INPS per le famiglie” e’ proprio quello di aver scoperchiato un calderone che altrimenti sarebbe rimasto inosservato dentro gli stanzoni maleodoranti ove si fanno le code agli sportelli INPS.
E l’unica classe lavoratrice in gioco, cioe’ la trincea di impiegati che devono trattare con rispetto chi confessa di rubare loro la pensione lavorando in nero, sarebbe rimasta sepolta in un eroismo stoico altrimenti inosservato.
Bene ha fatto INPS a rendere pubblico cio’ che accade nei suoi sportelli quotidianamente, e cio’ cui devono assistere (e , come lavoratori regolari e contribuenti, subire) i suoi impiegati.Cioe’ lavoratori.
O meglio: EROI.
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I post che non ho scritto nel 2018 non sono finiti nel dimenticatoio, come i presentimenti brutti che poi non si sono realizzati dovrebbero naturalmente fare, bensì, come un rigurgito o un’acidità di stomaco dei primi giorni dell’anno vengono riproposti qui.
Ho pensato a lungo (ah ah ah, ” a lungo”, ma non diciamo fesserie, sarebbe più corretto dire “a intermittenza”, come le lucine dell’alberello di Natale – uno dei quattro che mia madre ha addobbato quest’anno – che incuranti del sole fuori si alternano nell’accensione al piano di sotto) se fosse il caso di terminare l’anno con un post sulla bellezza e malinconia del tempo che fugge (ma in realtà non mi sono sentita malinconica a fine anno, forse, addirittura, per la prima volta in vita mia!?), o sulle conquiste e bei momenti dell’anno appena passato (ma erano troppi, non li ricordavo nitidamente, e ho iniziato almeno cinque volte per iscritto e dieci nella mia testa il post, ma ogni volta mi sembrava incompleto), o sulle grandi benedizioni ricevute quest’anno (papà che sta bene dopo uno spavento inaudito, ma è troppo personale per sbandierarlo ai quattro venti, e per quattro venti intendo che forse una mia ex compagna del liceo potrebbe ancora avere la mail associata a questo account ed essere risalita al fatto che quella che scrive qui sia proprio io); ma ho ritenuto che nessuna di queste idee fosse forte abbastanza da tenermi attaccata al computer, mentre in tavola arrivavano: baccalà alla vicentina, trota al forno, lasagne della mamma, rotolo di vitello, genovese della mammà dell’Orso, struffoli e ogni ben di Dio che in Australia posso solo provare a replicare (eccezion fatta per la genovese di mammà: non c’è gara per cui dichiaro la sconfitta prima di provarci), ma soprattutto mentre a tavola c’erano i miei adorati nipotini sotto i due anni da tenere a bada (e da educare! Qualcuno in questa famiglia dovrà pur assumersene l’onere…).
Quindi niente post con lista di cose belle del 2018 (ho visitato posti nuovi fantastici: New York, Shangai, Vanuatu, Bali, Esperance e Perth, sono riuscita ad essere in Italia – e a Londra- abbastanza per spupazzarmi i nipotini, sono riuscita a licenziarmi e a iscrivermi a un master che mi sta facendo imparare tantissime cose, oltre ad aver -ci pare, ma chissà- superato la prima vera grande crisi di coppia e l’operazione di papi, oltre ad essere sopravvissuta alla visita della combo genitori più suoceri in terra australe per un mese) né post di buoni propositi del 2019 (non ne ho, e forse pure questo è la prima volta che succede).
Ma farò cosa gradita (a me stessa soprattutto) se riuscirò a mettere un punto a vari post che avrei voluto scrivere nel 2018 e che poi non ho concluso, spesso per mancanza di tempo (non ricordo un periodo così denso di attività negli ultimi, boh, sei anni) ma anche per mancanza di coraggio, per paura di non essere capita, e di non essere abbastanza brava a spiegarmi.
I cancelli
Durante la vacanza in Argentina di quattro anni fa (ormai quasi cinque), facemmo un’escursione guidata che partiva da Salta e andava alle saline (Las Salinas Grandes), attraversando il deserto di Atacama.
Ecco le saline. Le foto, come è evidente essendo sfocate e banali: le ho fatte io.
Ecco le saline. Le foto, come è evidente essendo sfocate e banali: le ho fatte io.
Paesaggi stupendi, ma strade impervie che richiedevano un mezzo appropriato. Un signore simpaticissimo ci venne a prendere sul suo fuoristrada al mattino presto (foto irripetibili della mia faccia svegliata alle quattro di mattina, con un’improbabile maglione rosa dalla fantasia andina e un’espressione spaccacuore di chi pensa al sonno perduto come al primo amore mentre abbraccio il thermos del caffé dovrebbero corredare questo post, ma preferisco che sia l’immaginazione a lavorare, per ovvi motivi).
All’andata ero addormentata e non avevo osservato la periferia della città. Al ritorno però avevo notato qualcosa di strano. Procedendo verso Salta, le poche case iniziavano a intensificarsi e a un certo punto in cima alla collina noto qualcosa di strano.
Un cancello.
Lunghissimo, che fa il giro della collina (o perlomeno, va fino a dove si perde lo sguardo).
Chiedo di cosa si tratta, magari è un insediamento militare.
“Il quartiere dei ricchi”, mi risponde sornione la nostra guida.
Mi spiega che le famiglie più abbienti hanno iniziato a temere i furti e così si sono organizzate creando quartieri con villette completamente recintati e piantonati, in cui si entra tramite un unico accesso sorvegliato.
E così mi era venuta in mente La Moraleja, quartiere periferico di Madrid, dove parecchi anni prima ero stata invitata ad una festa privata.
Uno dei vantaggi dell’essere straniera è essere estranea al classismo e alle convenzioni sociali, per cui ignoravo l’esistenza non solo del quartiere ma pure la sua composizione. Abitando poi in campagna, ero abituata a vedere terra sempre utilizzata, o coltivata o come giardino di qualche villa.
E invece questo quartiere era molto distante dalla città (non dal centro della città, proprio distante anche dall’ultima periferia) e prima di arrivarci avevamo attraversato tantissima terra arida e incolta. Senza abitazioni, senza un minimo di irrigazione, senza niente di niente.
Nella mia testa, per abitare in un posto del genere bisognava aver fatto una scelta ascetica, di vita lontana dalla città e spirituale.
Niente di più falso, mi ritrovai davanti ad un quartiere che non era un quartiere (non c’era un bar che fosse uno, una pompa di benzina, un supermercato, non c’era niente che portasse qualcuno ad avere voglia di farsi una passeggiata, perché non c’era nessun punto di interesse dove andare) composto da ville (così mi dissero, io dalla strada non avrei potuto vederle), una dopo l’altra, circondate da cancelli altissimi ed impenetrabili.
Entrammo in una di queste fortezze e la padrona di casa venne ad accoglierci, dopo aver disattivato tutti gli allarmi, vantandosi del fatto che nella zona abitassero anche Victoria e David Beckham.
Per come ero abituata io, era un enorme controsenso.
Nella provincia in cui sono nata ci sono alcune cittadine (più che altro paesotti gonfi e tronfi) dove si vocifera che chi ha fatto fortuna non abbia sempre seguito modi del tutto legittimi, ma chi l’ha fatta non ha esitato a costruirsi o comprarsi una casa grande, opulenta, con decori, ma soprattutto con cancelli a inferriate. Per la serie: la devi vedere da fuori questa casa, devi schiattare d’invidia. (Ma sapere che è impenetrabile).
Il cancello alto, cieco, massiccio, chiuso, stile bunker, nero, senza nessun pertugio da cui spiare la villona… che cancello è? Qual è la soddisfazione di avere la casa più bella del paese, se non la può vedere nessuno?
Questo pensavo, e questo in un certo modo è quello che mi viene subito da pensare.
Oltre a sembrarmi un’idiozia, anche come ragionamento: tutti i più ricchi della città, spaventati dai possibili furti, si uniscono e se ne vanno a vivere dove? Nel centro della città? In modo da essere più vicini alle forze dell’ordine? No, isolati. Su una collina separati dal resto della vita civica.
Ha continuato a sembrarmi un’idiozia anche quando a Miami un amico che abitava lì ci ha portato a veder un’isoletta “privata” in cui abitavano solo famiglie abbienti, a cui si accedeva oltrepassando una sbarra.
Questa divisione tra ricchi e poveri mi è sempre sembrata ridicola, non perché non esista, ci mancherebbe, non sono così ingenua da pensarlo, ma perché la realtà sociale non è divisa, è fatta da continue interconnessioni e scambi tra strati diversi della società.
Mettersi tutti i ricchi da un lato, costruire un muro e dire “Voi state fuori” mi perplime. Mi sembra una scelta dettata dalla paura. Io, ricco, non voglio aiutare te povero, a crescere, a migliorare, a imparare, dandoti magari anche un lavoro, frequentandoti.
No, ti voglio togliere dalla vista.
La tua presenza è per me un pericolo.
Il povero, non potendo più aspirare alla protezione del potente, cosa fa? Lo invidia.
E quando può, farà di tutto per impossessarsi di quello che ha il ricco.
La classe sociale più elevata dovrebbe essere anche quella che pensa: che è intellettualmente più motivata a trovare soluzioni e migliorare il benessere sociale collettivo.
Chiudersi a riccio dice soltanto: “Ho paura di perdere quello che ho”.
E queste piccole cittadine chiuse da cancellate alte, nere, sorvegliate, siamo diventati tutti noi con la nostra vecchia Europa. Abbiamo alzato i ponti levatoi, ci apprestiamo a difendere con i denti i nostri averi. Perché una massa di straccioni potrebbe invaderci.
E noi non siamo più in grado di pensare ad un futuro migliore per tutti. Vogliamo solo difendere i nostri soldi.
E la stessa cosa succede nelle città, nella politica. Lo straccione non punta a istruirsi, a migliorare la sua condizione con un titolo di studio: punta ad avere soldi. I soldi si fanno con la politica? Con il malaffare? Chissenefrega, basta che arrivino. Basta passare dall’altra parte del cancello, del bunker. Basta essere ricchi.
E gli straccioni? Chi se ne frega.
Alzeremo il volume della radio, chiederemo alle guardie di non far passare nessuno.
Le guide
Mesi fa ho letto un articolo molto interessante sull’ascesa e manutenzione del successo di Gwynet Paltrow come guru del web.
Uno di quegli articoli che salvo nel Pocket, che poi leggo quando ho tempo (quindi appunto, mesi fa), che spesso non hanno niente a che vedere con il motivo per cui li ho salvati ma che alla fine suscitano interesse per vari motivi: mi fanno riflettere.
Tempo fa chiacchieravo con una mia amica su come certe persone che seguiamo su Twitter non siano un granché, una volta chiuso il loro profilo e messo insieme i pezzi della loro vita tramite quello che fanno trasparire.
Ammesso che una può raccontare quello che le pare e pure mentire, a ben guardare si tratta in generale di persone della nostra età (dai 30 ai 40, direi), donne, che non lavorano o comunque non hanno un’entrata fissa, dalle foto si evince come abitino con un compagno/marito che non c’è (cioè: lui lavora) o ancora a casa dei genitori. Dai tipi di vacanze che fanno (corte, in posti economici) si deduce che le entrate siano basse, o che viaggino solo per sponsorizzare un prodotto o un servizio.
Come mai questa gente è così seguita?
Una persona normale, con un lavoro e uno stipendio, si fa impressionare da una foto in un albergo a cinque stelle?
E mi sono spesso chiesta perché siano così seguite, quando la vita che fanno è normale.
E leggendo questo articolo ho capito perché: la gente ha bisogno di guide.
Non credendo più a niente, vivendo in un’epoca in cui tutto è vero e pure il contrario di tutto è vero, facendosi governare da un movimento politico che punta sulla costruzione del consenso molto di più che sulla costruzione di un programma politico (il nome stesso lo dice: movimento, vuol dire che ci si muove un po’ di qua, un po’ di là, a seconda di dove fa comodo e di dove tira il vento), non avendo più dei riti collettivi religiosi che facciano sentire parte di una comunità né che diano indicazioni sui progetti di vita da seguire, la gente ha bisogno di guru.
Anni fa rimasi almeno 5 minuti buoni a ridere quando lessi la notizia che Simona Ventura (che all’epoca era all’apice del successo) aveva ingaggiato per una cifra da capogiro un “opinion maker“.
Mi era sempre sembrata una persona intelligente, com’era possibile che dovesse pagare qualcuno perché le dicesse cosa pensare.
E nel futuro che stiamo vivendo, tutti stiamo pagando degli “opinion maker“: li seguiamo, li leggiamo, compriamo i prodotti che pubblicizzano, mettiamo i cuoricini sulle frasi che scrivono e condividiamo i loro tweet. Ci stanno facendo il favore di dirci come schierarci, quale opinione avere, con quale battuta rispondere.
E poi, dopo aver letto l’articolo, ho capito che la maggioranza dei seguaci (sarebbe meglio dire delle seguaci) sono piccoli.
La trentenne (di scarse o medie entrate mensili) che posta la foto dall’Hilton non si sta rivolgendo ad un’altra trentenne (probabilmente di medie o alte entrate) per invogliarla ad andare all’Hilton. La trentenne con più potere acquisitivo ci va già, anzi, c’è già andata, ed è già passata ad un’altra catena alberghiera più al passo con i tempi.
Si sta rivolgendo ad una dodicenne.
Una dodicenne che magari non è mai uscita dal paesino della provincia e l’Hilton le sembra chissà cosa.
Anni fa lessi che è proprio su questa fascia d’età che si basano tantissime campagne di vendita di abbigliamento.
Perché è la fascia più debole, che ha bisogno di costruirsi un’identità. E lo fa anche seguendo qualcuno di più grande, sperando un giorno di diventare così.
Il vittimismo
Aver subito una violenza o un abuso rende una persona una vittima.
Usare questo abuso o questa violenza per ottenere dei vantaggi personali è “vittimismo“.
Mettersi in piazza a chiedere maggiori diritti è sacrosanto, per esempio: a parità di ore di lavoro dovrebbe corrispondere parità di retribuzione.
Mettersi in piazza a piagnucolare perché Tizio (che è un potente) ti ha toccato il di dietro e per questo motivo hai diritto ad una parte nel prossimo film holliwoodiano è vittimismo.
Aver subito abusi o traumi è soprattutto una grandissima sfiga.
Ognuno la supera come può, e chi sono io, che ho una vita tutto sommato felice, in cui nessuno si è mai permesso di andare contro la mia volontà o manipolarmi in una situazione di debolezza (sul lavoro), per dire quale sia la via giusta per risolverli?
Nessuno.
Però siamo nel mio blog e qui posso dire la mia:
Si può aver subito un trauma e voler tornare ad essere una persona normale, senza che quello intralci la propria vita. E’ possibile. Prevede un lungo percorso di terapia, un valido sostegno familiare o di amici, e presentarsi alla società come una persona che quel trauma non l’ha mai subito. Non dimenticarsene, immagino sia difficile, ma provare a non menzionarlo con gli sconosciuti. Insomma: vivere, andare avanti.
Oppure si può farsi carico di quel trauma ed usarlo per ottenere qualcosa. Pietà, lavoro, attenzioni… chi più ne ha più ne metta. E’ possibile? Certo. C’è un sacco di gente che lo fa. E il classico “chiagn’ e fott'” che in Italia conosciamo bene. Ma scegliere questa via ne preclude tante altre. La prima è: guardarsi allo specchio alla mattina.
Ho finito.
Per smorzare la tensione, ecco una foto del tramonto del giorno del mio matrimonio.
Raccontarsela (un post di maggio)
In questi tempi di autoscatti (ebbene sì, esisteva una parola italiana prima che diventassimo tutti così ignoranti da usare solo quelle inglesi), passiamo il tempo a dirci quanto siamo belli e bravi. A giustificarci. Siamo tutti concentrati sul nostro ombelico, e qualsiasi commento esterno non positivo viene subito bollato come ostile: invidioso, geloso, rosicone, perfido, meschino, sputasentenze, criticone.
Passiamo la vita a raccontare le nostre vite on line, e da quando è diventato troppo difficile narrarle a parole siamo passati alle figure (una volta quelli stupidi come il fondo di un secchio li indicavamo proprio così: di un libro guarda solo le figure; ora sono chiamati “utenti”, “seguaci”, “bimbe” e via rotolando verso il basso, e siccome sono tanti li confondiamo con la massa critica) o alle foto. Sono tempi felici per gli illustratori, i fotografi e i cuochi (cioè quelli che sono passati dall’alberghiera e dall’artistico, che noi “delle scuole alte” una volta criticavamo con sdegno).
E così le vite degli altri sono diventate magnifiche, e le nostre un po’ più banali, grigie e spente.
Mamma mia Virgh, che pesantezza, fattela una risata ogni tanto, staccati dal computer e dai social! Vivi!
Ma certo, è quello che faccio, anzi, passo più tempo a parlare di social con le persone de visu che non a scriverci o a leggerli.
Ma non scrivo più sul blog come vorrei e come facevo, perché non voglio raccontarla e non voglio darla a bere a nessuno.
Gli Expat Blog sono spesso pieni di post fotografici, in cui si raccontano i viaggi e le bellezze della vita dall’altra parte del mondo.
Io non li pubblico, ma non è che non abbia fatto ultimamente dei bei viaggi o delle belle scoperte. Semplicemente non ho più voglia di condividerle e usare toni esaltanti per la mia vita all’estero, per un solo motivo: voglio tornare a casa.
Ma cosa intendi per “tornare a casa”? Mi chiedono gli amici qui e quelli in Italia. Dopo dodici anni all’estero cosa è veramente “casa” per te?
Lorenzo Jovanotti cantava “La casa dov’è? La casa è dove posso stare in pace con te” e diceva una falsa verità, perchè si infilava nella vulgata dei “due cuori e una capanna”.
Ho fatto poche promesse in questi otto anni all’Orso, (vabbè, escludendo quelle di fedeltà davanti all’altare, ma faceva parte di un pacchetto ampiamente metabolizzato) ma una delle prime è stata: “Promettimi che non mi tirerai mai fuori la storia dei due cuori e una capanna”. E l’ho sempre mantenuta. E non perché non creda che l’amore serva e ci voglia nella vita, ma perché credo che se si ha una tranquillità economica si viva meglio anche l’amore. Vivere senza l’acqua alla gola fa una bella differenza, senza voler essere ricchi sfondati e senza scadere nell’avidità che porta ad essere aridi e a non sapersi godere niente, perché ti permette di fare scelte più consapevoli e di mantenere intatta la propria dignità. Credo che l’indipendenza economica di ogni membro della coppia sia fondamentale. Se tu non mi mantieni, io scelgo di stare con te. Se tu mi mantieni, io devo stare con te.
Quando parlo con i miei amici e conoscenti in Italia la prima risposta che mi danno è: “Ma perché vuoi tornare? Qui non c’è lavoro/ qui gli stipendi non sono alti come lì”.
Voglio tornare perché sono stanca di trovare scuse. Vivere in Paesi diversi e mai per troppo tempo mi ha deresponsabilizzata.
Quello che le travel blogger non dicono è che non comprano mai un’opera d’arte da appendere al muro. Perchè non sanno dove appenderla. E anche perché spesso sono in affitto e il proprietario di casa difficilmente lascia mettere dei chiodi alle pareti.
Un’altra cosa che non dicono le expat blogger è che spesso passano il tempo da sole, perché il marito è l’unico che ha uno stipendio fisso e quindi deve lavorare molto e spesso in trasferta.
Quelle che lo dicono, lo fanno passare come un privilegio (e senza dubbio per molte è vissuto come tale) perché permette di avere tanto tempo libero da usare per le proprie passioni.
Io, che adoro avere del tempo libero, e che mi sono costruita un orario lavorativo che mi permetta di avere due giorni liberi a settimana (oltre al sabato e alla domenica, naturalmente, credo che una cosa simile sia il part-time verticale, ma io lavoro a partita iva, per cui non credo sia completamente assimilabile) e che ho sempre amato dipingere, non dipingo più.
Eppure, basterebbe andare sulla baia, o al parco, o allo zoo.
Io, che ho sempre amato circondarmi di persone diverse, parlare tante lingue, provare nuovi posti e sentire musica, non ho più voglia di uscire.
Un po’ è l’età, sicuramente a 33 anni non si ha lo stesso entusiasmo che si ha a 21, ma molto è dovuto al fatto che mi mancano le persone. Mi manca la condivisione della stessa cultura, i punti fondamentali di riferimento che mi fanno essere quella che sono.
“Ma tu sei questa: sei quella che sta in Australia, che non dipinge, che sta con l’Orso, che rimugina, che legge, che evita le occasioni sociali, che passa i giorni liberi a pensare di dipingere e non lo fa, che passa le serate a scrutare Skyscanner e non prenota, che clicca sulle opere d’arte che le piacciono e non le compra, che salva le pagine di selezione del personale e non manda il curriculum, che vive lontana dalla propria famiglia e dai propri amici, e che non vuole costruirsi nuove relazioni sociali”.
Stare all’estero non è più sinonimo di libertà per me. Non è più l’occasione per scoprire una nuova parte di me stessa e mettermi alla prova.
Ho voglia di non scappare più, e finché starò all’estero non mi sentirò mai abbastanza “stabile” per fare una vera vita da grande.
Pensavo di morire a 32 anni.
La settimana scorsa mamma mi ha detto “Mettitea via, me sa che non te capita mina setto”.
E quindi è ora che la smetta di stare in bilico, in questa precarietà giustificata dal fatto di essere all’estero. E’ ora che accetti che l’unico luogo dove fare il nido per me rimane l’Italia.
Lo so che è difficile, lo so che non è un buon periodo, ma nel mio Paese sarà pur sempre più facile che altrove, no?
Lo so che dovrei sfruttare i pixel di questo blog per mandare messaggi positivi alle nuove generazioni, o per scatenare invidia a quelli che sono rimasti.
Dovrei raccontarmela.
Cantarmela e suonarmela.
Ma io voglio tornare a casa.
E per me, casa è l’Italia.
Zan – zan. Come non cogliere l’occasione per ripubblicare una foto del 2015, una delle poche che mi sia mai venuta bene?
“The greatest hits of Pooh” (un post di agosto)
Quando frequentavo il liceo era uscito questo album, dal titolo per noi ridicolo quanto impronunciabile: The greatest hits of Pooh.
Studiavamo inglese quattro, forse cinque ore alla settimana, eppure nessuna di noi riusciva a dire “the greatest hits” senza attorcigliarsi la lingua, scoppiare a ridere o fare una pernacchia con la bocca. Tra l’altro, non eravamo neanche troppo sicure del significato. “Ma non potevano chiamarlo The best? E’ pure più facile da pronunciare!”.
Dovevo ancora diventare quella cruschista pedante e trombona che tutti conoscono fin troppo bene e non mi ero messa a rimarcare che si potesse anche chiamarlo: i migliori successi, o il meglio di.
Ma a parte questo era l’insieme ridicolo di parole inglesi incomprensibili e impronunciabili e un gruppo musicale che per noi era collocato nel passato e nel folclore popolare da balera.
Per la nostra conoscenza (e saccenza) del mondo i Pooh stavano appena un gradino più in su nella scala dell’accettabile tra Raul Casadei e i Cugini di Campagna.
Io naturalmente un po’ mi vergognavo di dover avere pubblicamente quelle opinioni, perché io ai Pooh ho sempre voluto bene, è l’unico gruppo musicale mia madre abbia mai adorato (e chi conosce mia madre sa che la sua massima espressione di entusiasmo è un sorrisetto leggermente tirato agli angoli della bocca) e rappresentano anche la prova d’amore più grande di mio padre: accompagnarla ad un loro concerto quando aveva diciott’anni.
Nonostante la mia storia personale e familiare con i Pooh, non si poteva non trovare francamente comico il risultato del nome di un gruppo italianissimo, formato da veneti e lombardi che per autocelebrarsi sceglieva un titolo inglese (scioglilingua, peraltro!).
(Se non dovesse esistere questo titolo, o questo album, per favore non fatemelo notare, i ricordi stanno bene dove sono, li spolvero ogni tanto e poi li metto via piegati per bene).
Questo ampio cappello introduttivo ha due funzioni: scacciare i malintenzionati (“vabbè capirai chemmefregaammé dei Pooh“) e presentare il tema di questo post: il meglio.
Sarà perché non sono mai uscita veramente da un edificio scolastico da quando avevo un bellissimo grembiulino nero, la coda alta di lato, i denti davanti storti ed entravo spavalda in prima elementare, ma per me settembre è sempre stato un mese di inizi.
Tantissime cose belle della mia vita sono cominciate a settembre, e la cosa è anche abbastanza ovvia, visto che spesso si è trattato di nuove avventure professionali.
Sono stata combattuta qualche giorno su cosa scrivere come post di agosto (visto che ormai mi dedico al blog mensilmente… ma và, ma non è vero, ma chi voglio ingannare! Vengo qua tutti i giorni, scrivo, cancello, riscrivo, ci ripenso, poi dico: ma a chi vuoi che interessi? E lascio fiorire la gramigna tra i post): ma ecco il meglio.
Mi sono iscritta al master che volevo fare da sei anni.
E non potrei esserne più felice. (Chiusa aggiunta naturalmente ora)
Un’altra foto a cui sono molto affezionata: la scattai il primo novembre 2015. Il giorno del mio ritorno dopo otto anni a Barcellona per studiare. Un’altra Spagna, un altro licenziamento. Sollievo e sensazione di fare la cosa giusta: gli stessi.
I miei imperdibili consigli: cosa fare se non sai cosa fare (nello studio e nel lavoro). Un post di marzo.
Ampio cappello introduttivo
Mi chiedo cosa studiate a fare, perché passate anni sui libri, a fare esami all’università se poi il vostro sogno è venire in Australia a fare caffè? O vendere magliette in un negozio?
Quando mi pongo queste domande, arriva sempre l’espertone di turno a ribattermi: “Eh, ma è perché a diciott’anni uno non sa cosa vuole, è troppo presto per decidere cosa fare della propria vita. E allora uno si iscrive ad una facoltà così, un po’ a caso”.
Ammesso e non concesso che uno veramente si iscriva ad una facoltà “un po’ così, a caso”, e concesso che l’immaturità dei 18 anni (che invece dovrebbe essere l’età sancita dall’ordinamento vigente per considerarci responsabili delle nostre azioni, ma vabbé, vedendo come votate non credo siate del tutto responsabili delle vostre azioni neanche a 67, di anni) porti a fare scelte avventate, il mio vero cruccio è:
“Perché non conoscete abbastanza voi stessi?”
Vi fate mai delle domande?
Vi chiedere mai cosa volete fare nella vita?
E con questo non parlo solo (ma anche, naturalmente) del lavoro, ma anche delle vostre qualità, dei vostri talenti, delle cose che vi vengono bene.
Vi fermate mai a chiedervi cosa potete fare? In cosa siete bravi?
Mi è capitato da quando sono qui di avere a che fare con molte persone, e siccome mi occupo di formazione, spesso si tratta di gente all’inizio della propria carriera.
O meglio, ad essere precisi, è quello che mi aspettavo quando ho iniziato ad occuparmene. Di avere a che fare con giovani ancora acerbi che non sapevano bene come sarebbe stato il mondo del lavoro, e in che modo si sarebbe differenziato da quello della scuola.
E invece mi sono trovata davanti adulti fatti e finiti, con quattro decenni di vita alle spalle che mi guardavano con gli occhi spalancati e si auto-giustificavano: “Eh, sai, quando ho scelto Biologia non sapevo ancora cosa volevo veramente…“, “Eh sai, quando mi sono iscritta a Psicologia, e mi sono abilitata, ancora non avevo capito che poi avrei avuto veramente a che fare con i malati…“, “Eh sai, quando mi sono immatricolata a Lingue non sapevo che il mondo della traduzione pagasse così poco“.
Ma porca vacca, mi sembrate tutti usciti da una sessione di fumo con dei quindicenni molto ben riforniti.
Fine ampio cappello introduttivo
Quindi vorrei farvi capire il mio pensiero, se passate di qui, avete vent’anni e vorreste sbattere la testa contro un muro, (anche se per fare questo correrò il rischio di passare per la signora Palomar della situazione) e vi darò (così, a gratis! Ricordatevi che c’è gente che paga fior di quattrini per la mia presenza per poche ore nella propria vita, e voi vi potete stampare questo post al solo costo di pochi centesimi della carta che inserirete – e del commento grato che apporrete in calce-) delle mie imperdibili perle:
– L’università non è obbligatoria
(Caso 1: Non ti piace studiare, arrancavi al liceo, ti sembra tutto una grandissima perdita di tempo. Benissimo, non immatricolarti. Cerca un lavoro, anche di basso livello, anche come aiutante in un campo che ti piace. Fatti le ossa, metti da parte dei soldi. Magari tra qualche anno avrai scoperto un’abilità e ti verrà voglia di approfondirla a livello formale con una laurea, magari invece gli anni passati a fare pratica ti avranno dato accesso a certi lavori prima di altri. L’università non è obbligatoria.
Caso 2: Ti piace studiare, ma ti piacciono troppe cose. Vorresti approfondirle tutte. Bene, non immatricolarti. Durante l’estate lavora il più possibile (in bar, in villaggio vacanze, alla raccolta frutta, ripetizioni, baby sitter, quello che c’è) e metti da parte dei soldi. Parti. Fa’ un bel viaggio, dormi in posti impensabili, parla con le persone, fatti nuovi amici. Ti aiuterà a capire in cosa sei bravo e in cosa ti piacerebbe specializzarti. E’ molto meglio di iscriversi ad una facoltà che non ti convince e passare venti ore a rileggere la stessa pagina e un pensiero fisso in testa: “E se invece avessi fatto…?”)
– Conosci te stesso.
(Possibilità 1: Tortura i tuoi insegnanti, i tuoi amici, i tuoi genitori. Chiedi a tutti cosa pensano di te, in cosa eccelli secondo loro. Non chiedere “In quale lavoro mi vedresti bene?” perché difficilmente i tuoi genitori ti diranno qualcosa di diverso da: stesso lavoro che fanno loro o professione prestigiosa nelle loro teste – medico o avvocato, in genere-. Chiedi proprio: in cosa sono bravo? Per cosa i miei amici mi chiamano? “Dai vieni tu, che sei bravo a rompere il ghiaccio” potrebbe nascondere un talento da PR, chissà.
Possibilità 2: Fermati un momento, spegni il cellulare – si, ok, volevo dire: silenzia le notifiche – e domandati “In cosa sono bravo?”.
Attenzione, la domanda è insidiosa, e bisogna distinguerla nettamente da altre due ancora più insidiose che sono “cosa mi piace?” e “che lavoro voglio fare?”. Perché si possono avere tante passioni, ma non è detto che queste possano garantire da vivere. Ad esempio a me piace molto parlare – infatti scrivere post di 457 righe non l’aveva svelato, ancora – ma non ho ancora trovato nessuno che mi paghi per farlo, e conosco uno che scrive delle bellissime poesie, ma prima di trovare un editore è campato sulle spalle di mamma e papà per circa quindici anni oltre l’età in cui era socialmente accettabile farlo. Anche “Che lavoro voglio fare?” è una domanda rischiosa, perché spesso la nostra opinione delle professioni è distorta dalla rappresentazione che ne danno i media, o che abbiamo visto nei film. Abbiamo una conoscenza solo parziale dei lavori che ci sono là fuori. Per dire, mia sorella voleva fare la psicologa perché Taylor di Beautiful era psicologa. E credo che molte delle sua generazione volessero fare le stiliste per la stessa ragione.
Insomma, confrontati con te stesso, senza filtri.)
– Basta così.
Concludiamo con il consiglio di uno dei miei guru di quest’anno: il nipotino.
Siate tutti a little wild in questo fantastico 2019!
(Anche se, quando finirete di leggere tutti i post sarà ormai il 2020…)
Auguri!
I post che non ho scritto nel 2018 I post che non ho scritto nel 2018 non sono finiti nel dimenticatoio, come i presentimenti brutti che poi non si sono realizzati dovrebbero naturalmente fare, bensì, come un rigurgito o un'acidità di stomaco dei primi giorni dell'anno vengono riproposti qui.
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