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#museo della repubblica di salò
fabriziosbardella · 1 year
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Il museo della Repubblica di Salò è in allestimento nella cittadina di Salò sul lago di Garda  e si scatenano le polemiche tra le varie fazioni. #vittoriale #FabrizioSbardella #gardoneriviera #lagodigarda #MuSa #museodellarepubblicadisalò #repubblicasocialeitaliana #salò
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pangeanews · 4 years
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“Da bambino divoravo gli atlanti”. Fosco Maraini, dalle segrete del Tibet al mignolo mozzato
Siamo un paese di avventurieri – che trovano scrittura nell’avventatezza. Mi è capitato un libro di spudorata bellezza, Afghanistan, ultimo silenzio. Lo firma Riccardo Varvelli per De Donato nel 1966: stile schietto ma con il gusto per il dettaglio, fotografie magnetiche, il viaggio come eccidio del sé, intrusione in una saggezza pietrificata. “È l’enigma dell’alpinismo. Si soffre, si rischia la vita per un risultato di cui, appena acquisito, ci si sente incapaci di gioire”; “Se sapere di vivere è più importante che vivere bisogna ogni tanto fermarsi. Stare con il cuore seduto di fronte a un paese silenzioso per misurare se stessi in rapporto a una realtà sconosciuta. Raccogliere il nan e la luce, la fatica e la neve, il deserto e la folla, ma senza mai perdere il filo. Perché esistere vuol dire tornare”. Perché non si stampano più questi libri, che consentono alla mente – quindi, al corpo – di andare in terre incognite? La letteratura italiana nasce raccontando i viaggi di questo – Marco Polo – e altri – Dante – mondi: perché ci siamo ridotti a narrare la periferia del nostro io?
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Un giorno dovrò filare la storia di Giovanni Battista Cerruti, “l’uomo che era diventato re dei terribili Sakai”, morto nel 1914 “in un piccolo ospedale di Penang, in Malesia, per una banale appendicite… il capitano che nell’illusione di compiere l’impresa risolutiva della propria esistenza aveva solcato mari, esplorato foreste, raccolto esemplari sconosciuti di fauna e flora per i musei, fondato imprese commerciali fallimentari, scoperto miniere”, questa specie di incrocio tra il Kurtz di Conrad e il Fitzcarraldo di Herzog, di cui l’editore Ecig, tre decenni fa, ripropose il leggendario romanzo-reportage, Tra i cacciatori di teste. Ecco: tre quarti di narrativa attuale andrebbe decapitata, in virtù di questi scoordinati, scriteriati, sgrammaticati, straordinari narratori di viaggio.
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Torno in me. Nella stessa collana De Donato in cui è pubblico Varvelli, “All’insegna dell’orizzonte”, ci sono i libri di Ettore Biocca – Yonoama, sugli indios dell’Amazzonia – di Gianni Roghi – I selvaggi – di Folco Quilici – I mille fuochi, Sesto continente. Li ristamperei tutti, sono più utili di un documentario – gli occhi si accontentano di guardare ciò che trasmette la superficie dello schermo, le parole portano nella quarta dimensione dell’immaginare. De Donato – già Leonardo da Vinci – pubblicava i grandi libri di Fosco Maraini. Nel libro che possiedo ne promuovono quattro: G 4. Baltoro Karaorum, Ore giapponesi, Paropàmiso, Segreto Tibet. Nel ‘Meridiano’ Mondadori, Pellegrino in Asia (2007; a cura di Franco Marcoaldi), si riproducono i libri maggiori – Segreto Tibet, Ore giapponesi – e una manciata di “Scritti scelti”; La Nave di Teseo ha ripubblicato, lo scorso anno, Case, amori, universi e Gnosi delle fànfole. Qualche anno fa l’istrione Claudio Cardelli, presidente dell’Associazione Italia-Tibet, passionaccia per i Beatles, amico di Maraini, mi ha concesso l’edizione Dren-Giong, “il primo libro di Fosco Maraini” (il primissimo è la Guida dell’Abetone per lo sciatore del 1934), nell’edizione Corbaccio del 2012, con “i ricordi dei suoi amici”.
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Fosco Maraini unisce diversi talenti: la rapacità linguistica – pari a un Gianni Brera per estro –, l’istinto narrativo, la sapienza da “etnologo poeta”. Si diceva Clituvit, “Cittadino-Luna-Visita-Istruzione-Terra”, era qualcosa tra Indiana Jones e Jack London – in realtà, deve l’amore per l’Asia a due libri particolari: Three Years in Tibet del monaco giapponese Ekai Kawagchi e With Bayonets to Lhasa dell’ufficiale inglese Sir Francis Younghusband. Era un estraneo che incontrava dei diversi, studiandoli con il rigore dello scienziato e la curiosità dello scrittore: questo lo rende, ai miei occhi, più accattivante, più spigliato di Bruce Chatwin, impegnato nella bizantina narrazione del proprio io.
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Un paio di eventi su tutti. Il viaggio come esito del fantasticare. Il viaggio, prima di tutto, lo si custodisce, lo si prepara, lo si ama nella testa, nell’ardore metafisico dell’impossibile. “Ero un adoratore, un divoratore e naturalmente un distruttore di atlanti… Isole, penisole, continenti, laghi, bracci di mare suggerivano coi loro profili personaggi, cose, favole”, ricorda Maraini. Il mondo va divorato immaginando il seguente, incendiando mappe. Il tormento enigmatico di una carta geografica è proprio quello: alla foce di un nome si elevano fiabe, sotto una macchia marrone s’ipotizzano civiltà, lotte, eresie, si vede perfino quel piccolo volto che sporge da un castello sui giunchi.
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Secondo episodio. Fosco Maraini è in Giappone. È nata da poco l’ultima figlia, Antonella. È da poco uscito il primo studio sugli Ainu. La Seconda guerra impedisce allo studioso il ritorno in Italia; dopo l’Otto settembre, l’arresto. “Rifiutandosi di aderire alla Repubblica di Salò, Fosco e Topazia, dopo un breve periodo di arresti domiciliari a Kyoto, vengono trasferiti insieme alle figlie nel campo di internamento Tempaku a Nagoya” (Marcoaldi). “Tolte alcune piccolezze, l’inizio parve buono”, attacca Fosco. Le cose procedettero in modo meno buono. Il 18 luglio del 1944, vista la scarsità di cibo, i prigionieri iniziano uno sciopero della fame. Il capo dei poliziotti accusa di tradimento i prigionieri. Fosco – così nel racconto della moglie, Topazia Alliata – “afferra l’accetta (della cucina), si taglia il dito mignolo della mano sinistra, lo raccatta e lo getta al terrorizzato Kasuja gridando… gli italiani non sono dei bugiardi. Tutti fuori di sé: terribile impressione”. Iosif Brodskij direbbe, “La più sicura difesa contro il Male è un individualismo estremo, l’originalità di pensiero, la bizzarria, perfino – se volete – l’eccentricità”. Cioè: sorprendere con una scelta superiore; capire il nemico, essere spietati con ciò che si ha – la presa psichica.
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L’effetto che ti fa leggere Maraini: partire! Segui il primo sfarfallio azzurro all’orizzonte, piglialo per l’Himalaya, parti! Ogni tigre, sembra dire l’infaticabile Fosco, in fondo, giace nella gabbia delle tue costole. Segreto Tibet è il suo libro più sgargiante, forse è uno dei romanzi più belli del Novecento italiano. Qui un cammeo che ritrae Giuseppe Tucci: “Non so perché, Tucci d’un tratto s’è immusonito. Ha l’aria di cercare qualcosa che non trova. Osserva, annota, torna sui suoi passi, ma non parla più… Ormai so che in simili frangenti occorre tacere, possibilmente cancellarsi per un poco dal paesaggio. Ho per compagno un uomo dalla mente eccelsa, ma dal carattere d’infinita complessità, tutto trabocchetti e botole nascoste. Del resto lo ripete sovente lui stesso: ‘Odio gli uomini, amo invece gli animali! Mi piacciono i puniti dal karma, non i premiati! Magari i Budda fanno eccezione… Ma noi li vediamo solo in arte’. Tucci ha in sé qualcosa di notturno, di felino, di tantrico della mano sinistra. Ed è gelosissimo della propria cittadella interiore!”.
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Uno dei libri remoti di Maraini: Gli ultimi pagani (l’ho in edizione Bur 2001). Raccoglie alcuni studi straordinari di Fosco: quello sugli Ainu, gli indigeni giapponesi, di cui racconta lo iyomande, l’uccisione rituale dell’orso; quello sui Cafiri, “gli infedeli, cioè non-cristiani e non-ebrei, in pratica i pagani, i primitivi rimasti ancora fuori dal campo dell’azione missionaria islamica”, tra i picchi di Pakistan e Afghanistan. Maraini sonda le stirpi estirpate, gli ultimi sussulti di culture travolte dal sopruso, dalle avversità della storia, dalla sfortuna; censisce le patrie perdute, gli dèi al tramonto, col cranio mozzo, l’eroismo degli inflessibili – altro che infedeli.
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A una delle sue spedizioni himalayane, sul Saraghrar, cima dell’Hindu Kush, fino ad allora inviolata, è il 1959, Maraini dedica Paropàmiso (1963). La spedizione, coordinata dalla sezione CAI di Roma, conta anche Franco Alletto e Giancarlo Castelli Gattinara. Quest’ultimo, nel 2007, con Marietti, pubblica la sua versione dell’impresa, Viaggio in Himalaya, che nel sottotitolo (“Un agnostico, un comunista, un cattolico discutono durante un’ascensione nelle montagne dell’Hindu Kush”) tradisce lo stile: è una specie di libro ‘platonico’, dove l’ascesa coincide con la disciplina del capire. Maraini, in questo concerto di voci, è l’agnostico; e dice, tra l’altro. “È l’uomo l’eterno soggetto, il centro da cui tutto parte e il nucleo in cui tutto si risolve. L’altro termine è il Mistero, la comoedia della vita e della morte. Le religioni sono la somma dei messaggi che l’uomo legge in questo Mistero… Le religioni servono all’uomo, non viceversa. Il cristianesimo ha percorso il suo arco naturale di secoli, forse è tempo di riporlo, con tutto il rispetto per le grandi cose del passato, in un museo. Quante religioni non ha creato e lasciato lungo la sua strada, l’uomo!”. In montagna per sfracellare le idee di Dio.
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Se nel 1937 Maraini ha il fegato e il sale di proporsi a Tucci, in preparazione per l’ennesimo viaggio verso il Tibet, “come fotografo”; se alla fine della sua vita – nel 2004 – confessa, “ho optato per la Rivelazione Perenne, cioè il regime religioso in cui Dio parla, per chi vuole ascoltarlo, non attraverso messaggi singolari concessi in punti particolari dello spazio e in momenti particolari del tempo (Rivelazione Puntuale), bensì sempre e ovunque, nella natura e nella vita umana intorno a noi”, sarà anche perché nella villa di famiglia a Poggio Imperiale passeggiavano Bernard Berenson e D.H. Lawrence, H.G. Wells e Aldous Huxley (quello della Filosofia Perenne), Ardengo Soffici e Norman Douglas. Certo, Fosco era piccino e scatenato, me certe cose restano, tra le ciglia e sotto le unghie. Tutto, d’altronde, è letteratura, parola che fonda sedie e tavoli. (d.b.)
*In copertina: una fotografia “giapponese” di Fosco Maraini
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paoloxl · 5 years
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Il consiglio comunale di Salò sarà chiamato nei prossimi giorni ad esprimersi sulla richiesta di un consigliere di opposizione Stefano Zane a nome della sua lista Scelgo Salò, di revocare la cittadinanza onoraria che il commissario prefettizio con un decreto conferì a Benito Mussolini.
La vicenda assume un particolare risalto simbolico-politico perchè il comune gardesano è considerato, vedremo se a torto o a ragione, la capitale della Repubblica sociale italiana, costituita dal Duce su volere di Hitler dopo l’armistizio firmato dal Regno d’ Italia con gli Alleati l’8 settembre 1943.
Ma ha  senso togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini dopo così tanti decenni e considerato che le amministrazioni dopo la Liberazione , anche guidate da ex partigiani,   non l’hanno fatto?
Questa discussione potrebbe presto interessare anche la città di Brescia, dove non è ancora chiaro se il duce abbia ancora la cittadinanza onoraria datata 1924 o se questa sia stata cancellata dal sindaco della Liberazione Ghislandi.
Abbiamo sviscerato la questione in una trasmissione, allargando la riflessione ad altri aspetti: le reazioni scatenatesi, le attività del Centro studi sulla Repubblica sociale di Salò e della sezione a questa dedicata del Museo cittadino, Musa; del rischio che Salò diventi la Predappio del Garda e dell’eredità lasciata dall’esperienza della Rsi nella zona del lago e nella provincia bresciana; ci siamo avvalsi dei contributi di Stefano Zane, consigliere comunale con tradizione famigliare partigiana e antifascista; di Antonio Bontempi presidente dell’Anpi medio Garda e di due storici, studiosi del fascismo e della Resistenza: Mimmo Franzinelli e Paolo Corsini, ex sindaco di Brescia Ascolta o scarica
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Le cicatrici dell’Appennino
Gli eccidi nazifascisti rimasti nell’oblio della Giustizia
Tutto era partito da un ordine del maresciallo Albert Kesserling, ferreo comandante a capo delle forze tedesche in Italia. Di fronte all’avanzata dell’esercito alleato i tedeschi si erano asserragliati nelle fortificazioni appenniniche della linea Gotica, ma erano funestati dai frequenti attacchi dei partigiani. Si decise, allora, di fare terra bruciata, sia davanti  all’esercito avanzante, sia attorno alle posizioni tedesche, dove si potevano annidare i combattenti della Resistenza. Ciò voleva dire che all’esercito in avanzata non si doveva far trovare nulla, dai depositi di munizioni alle singole fattorie. Nel caso più brutale, nella lotta alla guerriglia diffusa, significava anche radere al suolo interi villaggi. Le responsabilità di tali azioni sono da imputarsi ai militari tedeschi, spesso supportati dai collaborazionisti della Repubblica Sociale di Salò e solo in parte alle temute SS. È studiando questi avvenimenti che gli storici hanno coniato definizioni come “guerra ai civili” (P. Pezzino), ribadendo quell’atteggiamento di sospetto dei tedeschi verso ogni italiano, visto dopo l’8 settembre come un traditore o sostenitore di quei “briganti” che costringevano l’esercito nazista ad una guerra su due fronti. Kesserling poteva comunque contare su reparti induriti da anni di guerra, soprattutto contro i Russi sul fronte orientale, la cui esperienza risultò tristemente efficacie nel contesto italiano.
Questa brutale opera di rastrellamento ebbe inizio il 13 Aprile 1944. Partina, Moscaio, Badia Prataglia e Vallucciole furono date alle fiamme e distrutte, seguite da Forno (13 Giugno), dove si erano asserragliati i partigiani della brigata "Aldo Mulargia" e Miniera di Niccioleta, fino a Castelnuovo Val di Cecina (14 Giugno). Il 17 giugno 1944 Kesselring inasprì ancora di più la lotta alle bande, assolvendo di fatto da ogni responsabilità ogni ufficiale tedesco che, nella lotta contro i partigiani, avesse assunto metodi anche non conformi all’onore militare. Ne seguì un’escalation che devastò la Toscana Orientale e Nord Occidentale: Bucine, Guardistallo e Civitella della Chiana (29 Giugno), Castelnuovo dei Sabbioni, Massa dei Sabbioni, Meleto e Castelnuovo Berardenga (4 Luglio). In queste azioni furono attivi i tedeschi della Divisione Goering, ma anche reparti italiani della Guardia nazionale repubblicana e della X Mas.
Alle centinaia di morti precedenti se ne aggiunsero molte altre durante l’estate: ad Empoli il 24 Luglio e a Pisa il 1 Agosto furono attuate delle rappresaglie contro altri civili e contro la rimanente comunità ebraica, ma il fatto più sanguinoso doveva avvenire a S. Anna di Stazzema il 12 Agosto 1944. Il piano iniziale era forse quello di far sgomberare i civili presenti in zona, ma qualche reazione degli abitanti avrebbe fatto scattare la feroce rappresaglia. Altri storici propendono per un’azione terroristica premeditata da tempo. In ogni caso, il villaggio fu raso al suolo e gli abitanti sterminati con l’uso di lanciafiamme, mitra e bombe a mano. Il Comune di Stazzema ha ricevuto la Medaglia d’Oro al Valor Militare con questa motivazione:
"Vittima degli orrori dell’occupazione nazista, insigne, per tributo di sofferenze, fra i Comuni della Regione, riassume, nella strage di 560 fra i suoi cittadini e rifugiati di Sant’Anna, il partigiano valor militare e il sacrificio di sangue della gente di Versilia che, in 20 mesi di asperrima resistenza all’oppressore, trasse alla guerra di Liberazione il fiore dei suoi figli, donando alle patrie libertà la generosa dedizione di 2.500 partigiani e patrioti, il sacrificio di 200 feriti ed invalidi, la vita di 118 caduti in armi, l’olocausto di 850 trucidati. Tanta virtù di popolo assurge a luminosa dignità di simbolo, nobile sintesi di valore e di martirio di tutta la Versilia, a perenne ricordo e monito. Versilia, settembre 1943 -–aprile 1945"
Oggi, a Sant’Anna, le vittime del massacro sono ricordate dal Mausoleo- Ossario e da un museo.
Al 28 Settembre si era arrivati al conto di 3622 persone uccise, cifra ovviamente approssimativa e frutto di laboriose ricerche di parenti, storici e studiosi nell’arco degli anni a venire, ma dall’altra parte dell���arco alpino vi era un ufficiale che rivaleggiava con i suoi colleghi del versante toscano. Walter Reder, maggiore delle SS soprannominato “il monco” perché aveva perso l'avambraccio sinistro a Karkov, sul fronte orientale. Considerato da Kesserling uno “specialista” in materia, al comando del 16° Panzergrenadier «Reichsfuhrer», rastrellò e distrusse dal  12 agosto numerosi villaggi tra la Versilia, la Lunigiana e il Bolognese, lasciando dietro di sé più di tremila morti (Gragnola, Monzone, Santa Lucia, Vinca) . In Lunigiana si erano uniti elementi delle Brigate nere di Carrara, fondamentali per la loro opera di guida e coordinazione delle colonne tedesche. Nella zona non c'erano partigiani: lo dirà anche la sentenza di condanna di Reder: «Non c'erano combattenti. Nei dirupi intorno al paese c'era soltanto povera gente terrorizzata...». 
Queste sono le parole di Arrigo Petacco: “A fine settembre il «monco» si spinse in Emilia ai piedi del monte Sole dove si trovava la brigata partigiana «Stella Rossa». Per tre giorni, a Marzabotto, Grizzana e Vado di Monzuno, Reder compì la più tremenda delle sue rappresaglie. In località Caviglia i nazisti irruppero nella chiesa dove don Ubaldo Marchioni aveva radunato i fedeli per recitare il rosario. Furono tutti sterminati a colpi di mitraglia e bombe a mano. Nella frazione di Castellano fu uccisa una donna coi suoi sette figli, a Tagliadazza furono fucilati undici donne e otto bambini, a Caprara vennero rastrellati e uccisi 108 abitanti compresa l'intera famiglia di Antonio Tonelli (15 componenti di cui 10 bambini). A Marzabotto furono anche distrutti 800 appartamenti, una cartiera, un risificio, quindici strade, sette ponti, cinque scuole, undici cimiteri, nove chiese e cinque oratori. Infine, la morte nascosta: prima di andarsene Reder fece disseminare il territorio di mine che continuarono a uccidere fino al 1966 altre 55 persone. Complessivamente, le vittime di Marzabotto, Grizzano e Vado di Monzuno furono 1.830. Fra i caduti, 95 avevano meno di sedici anni, 110 ne avevano meno di dieci, 22 meno di due anni, 8 di un anno e quindici meno di un anno. Il più giovane si chiamava Walter Cardi: era nato da due settimane. Dopo la liberazione Reder, che era riuscito a raggiungere la Baviera, fu catturato dagli americani. Estradato in Italia fu processato dal Tribunale militare di Bologna nel 1951 e condannato all'ergastolo. Dopo molti anni trascorsi nel penitenziario di Gaeta fu graziato per intercessione del governo austriaco. Morì pochi anni dopo in Austria senza mai essere sfiorato dall'ombra del rimorso.(in il Resto del Carlino, 12 aprile 2002)”.
Non serve ricordare che solo in pochi casi (come per Reder e Kesserling, il quale fu condannato al carcere a vita) si riuscì effettivamente a processare e condannare gli autori delle stragi, sia tedeschi, sia collaborazionisti, sia per le oggettive difficoltà nel perseguire la giustizia in tempo di guerra, sia per volontà di alcuni di dimenticare e insabbiare. Vi era un  tacito accordo tra gli ex paesi belligeranti, soprattutto con la Germania (non mancano, comunque, atti terribili anche da parte alleata), per non processare i rispettivi criminali di guerra. I documenti dei processi e i fascicoli raccolti dagli alleati e dagli addetti ai lavori sulle stragi nazifasciste furono chiusi in un armadio, un armadio “fantasma”. Le ante girate verso il muro, in una stanza del Palazzo Cesi Gaddi, a Roma, sede della Procura Generale Militare. Venne scoperto e aperto solo nel 1994 per mano di Antonino Intelisano, magistrato militare che stava indagando sull’autore dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, Erich Priebke . Il giornalista dell’Espresso, Franco Giusolisi, lo ribattezzerà l’“armadio della vergogna”, termine che utilizzerà per il suo omonimo libro. In esso vengono ritrovati 695 fascicoli, 2274 voci di reato e fatti che coinvolgono oltre 15 mila vittime rimaste senza giustizia. Giusolisi sarà il primo, assieme a Alessandro De Feo, a parlarne in un articolo sull’Espresso nel 1996. al suo interno vi erano cinquanta condannati all’ergastolo, tra cui i responsabili delle stragi di Cefalonia, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Fivizzano, Civitella in val di Chiana.
È necessario, oggi più che mai, preservare la memoria sia degli eventi tragici, sia dei nomi delle persone che sono ad essi indissolubilmente legati, perché non si dimentichi né il volto dei carnefici, né la sorte delle loro vittime. Che siano, quindi, le parole del presidente tedesco Rau a Marzabotto nel 2002 a concludere questo saggio:
“La colpa personale ricade solamente su chi ha commesso quei crimini. Le conseguenze di una tale colpa, invece, devono affrontarle anche le generazioni successive”.
Vittorio Trenti
Questo articolo è stato pubblicato sul Cimone, il notiziario del CAI di Modena. Per scaricarlo Cliccate Qui
Bibliografia E. Droandi, Le stragi del 1944 nella Toscana orientale, Edizioni Calosci, 2006 http://www.storiaxxisecolo.it/index.htm P. Pezzino, Guerra ai civili. Le stragi tra storia e memoria, in Passato e Presente 58 (2003) http://espresso.repubblica.it/attualita/2015/08/04/news/stragi-nazifasciste-quei-fascicoli-archiviati-dell-armadio-della-vergogna-1.223928 http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/02/15/news/stragi-nazifasciste-l-armadio-della-vergogna-adesso-consultabile-online-1.250535
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" Matite colorate": un omaggio agli internati italiani
Si intitola Matite sbriciolate il libro di Antonella Bartolo Colaleo che sarà presentato questa sera mercoledì 28 gennaio presso il Museo Etnografico della Gambarina di Alessandria, Piazza della Gambarina, 1 alle ore 21.00 E’ la storia di un internato militare barese, il capitano Antonio Colaleo, il quale dopo l’8 settembre ’43 venne deportato nei lager nazisti: a Biala Podlaska, in Polonia, e Sandbostel e Wietzendorf, in Germania. Condivise la prigionia con lo scrittore Giovanni Guareschi e l’attore Gianrico Tedeschi e lì, dopo aver nascosto alcune matite colorate sbriciolandole nelle tasche affinché sfuggissero ai controlli, documentò i lager con 34 disegni: immagini delicate e di grande bellezza. La nuora Antonella Bartolo è partita dai quei disegni per ricostruire la storia della prigionia di Antonio Colaleo ripercorrendo il suo viaggio di deportazione, incontrando gli ultimi testimoni, confrontando memorie scritte e fotografiche, ordinando le ricerche degli storici, visitando i luoghi della prigiona dopo settanta anni. Nel libro, che è un racconto ma anche un’ accurata indagine storiografica, si intrecciano passato e presente, fatti e testimonianze. I ricordi del protagonista, riportati dall’Autrice, vengono annodati alle storie dei militari prigionieri e se ne ottiene una nuova trama di grande coinvolgimento emotivo. Furono 650 mila i militari italiani che dissero No alla repubblica di Salò per restare fedeli alla loro Patria: per questo furono internati nei lager del terzo Reich e furono da molti dimenticati. Vissero circa due anni di fame e di freddo; morirono di stenti, malattie e violenze. Quasi 50 mila non fecero più ritorno a casa. Nell’estate del ’45 il rimpatrio; ma dopo l’euforia la delusione. Molti si sentirono abbandonati, accolti dall’indifferenza e dal sospetto di tradimento. Per questa ragione i militari deportati non raccontarono le loro storie, si rinchiusero in un silenzio dignitoso cercando solo di dimenticare. Antonio Colaleo tornò nella sua Bari ma la città era molto cambiata. Riprese la sua vita di militare dell’Esercito italiano e i suoi disegni restarono chiusi in un cassetto. La pubblicazione dei 34 disegni è oggi un contributo importante per la conservazione dei documenti e per tenere viva la Memoria dell’internamento militare italiano. Antonella Bartolo, nata a Bari, vive dal 1975 a Chieri, Torino. Laureata in Scienze Politiche all’Università di Torino ha lavorato come free lance in alcune testate giornalistiche piemontesi ed è stata responsabile della comunicazione di un’azienda leader nel settore dell’energia. Per informazioni: www.matitesbriciolate.com 0 http://dlvr.it/QJ7tCG
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paoloxl · 6 years
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Venerdì 12 dicembre 1969 alle 16.37 scoppiò una bomba all’interno della Banca Nazionale dell’ Agricoltura in piazza Fontana a Milano. Rimasero brutalmente uccise sul colpo 14 persone, altre due morirono poco dopo e la diciassettesima vittima morì anni dopo in seguito alle lesioni riportate, i feriti furono 87. Quello stesso giorno furono piazzate altre quattro bombe, tre scoppiarono a Roma (alla BNL, all’Altare della Patria e al Museo del Risorgimento), mentre la quarta, depositata nella Banca Commerciale Italiana in piazza della Scala a Milano, non esplose. La bomba inesplosa venne subito fatta brillare, nonostante fosse considerata ormai innocua anche dagli artificieri, perdendo così preziosissime informazioni per le indagini. LE INDAGINI NELL’AMBITO DELLA SINISTRA La questura subito diresse le sue indagini verso la “pista rossa”. La sera stessa della strage il commissario Luigi Calabresi, conversando con il giornalista Giampaolo Pansa, si disse convinto che la responsabilità degli attentati era da attribuire ai gruppi dell’estrema sinistra. Il questore Marcello Guida subito asserì che la strage era da ricollegare a degli attentati compiuti il 25 aprile per i quali erano stati tratti in arresto alcuni anarchici. Il prefetto  Mazza telegrafò al presidente del consiglio Mariano Rumor dicendo che l’ipotesi più attendibile da formularsi era quella anarcoide. Nei giorni successivi ci furono 244 fermi, 367 perquisizioni domiciliari e 81 irruzioni nelle sedi di gruppi e organizzazioni politiche. Il presidente della repubblica Saragat convocò le più alte cariche dell’ordine pubblico per valutare l’opportunità di proclamare lo “stato di pericolo pubblico”. Grazie al quale i prefetti  avrebbero potuto ordinare l’arresto di qualsiasi persona e il Ministro dell’Interno avrebbe potuto revocare leggi vigenti. Nelle ore immediatamente successive all’attentato fu arrestato Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, animatore del circolo culturale “Ponte della Ghisolfa”. Trattenuto illegalmente oltre le ore consentite dal fermo di polizia, interrogato senza sosta precipitò dal quarto piano dei locali della questura. La sentenza su come e perché Pinelli volò fuori dalla finestra del quarto piano è una delle pagine più nere della storia della “giustizia” italiana. Ci furono molti punti oscuri nella conduzione delle indagini, incongruenze con le perizie dei medici legali, discordanze tra le versioni dei fatti fornite dagli agenti che parteciparono all’interrogatorio. Il 15 dicembre Pietro Valpreda, convocato al tribunale di Milano come testimone di un procedimento per offese al pontefice, venne arrestato e accusato della strage di piazza Fontana. Le accuse si basavano sulle rivelazioni di un finto anarchico, Mario Merlino (in realtà militante di Avanguardia Nazionale, infiltratosi nei movimenti di sinistra in seguito ad un istruttivo viaggio nella Grecia dei colonnelli con Pino Rauti e Stefano Delle Chiaie) e di un tassista: Cornelio Rolandi. Rolandi, cambiando un paio di volte versione, raccontò la strana storia di un suo passeggero alto circa 1,73 con capelli non appariscenti e senza  particolari inflessioni nel  parlare, che da Piazza Beccaria (distante circa 135 metri dalla Banca dell’Agricoltura) prese il suo taxi fino in via Santa Tecla allontanandosi dalla banca, un atteggiamento davvero strano per uno che vorrebbe passare inosservato. Inoltre Valpreda non corrispondeva alla vaga descrizione del tassista, infatti era un capellone alto 1,66 e con una forte difetto di pronuncia, una erre “arrotata”. Rolandi in seguito a dei riconoscimenti poco ortodossi realizzati nella questura di Milano intascò i 50 milioni della taglia. LE RADICI DELLA STRAGE Il 7 dicembre 1969 (cinque giorni prima della strage) i settimanali inglesi The Guardian e The Observer pubblicarono un dossier partito dal Ministero degli Esteri ad Atene e diretto all’ambasciatore greco a Roma. Nel dossier datato 15 maggio si parlava approfonditamente di un agente dei colonnelli, il “Signor P” (Pino Rauti, capo di Ordine Nuovo e futuro parlamentare del MSI) e dei suoi preparativi per organizzare in Italia un colpo di stato sul modello greco. In effetti, i mesi precedenti a quel drammatico dicembre del 1969 erano stati costellati di attività terroristiche messe in atto da elementi delle destre radicali e per la precisione da Ordine Nuovo. 15 aprile, Padova: bomba al rettorato dell’università; 25 aprile: stand della FIAT alla fiera a Milano; 12 maggio: tre bombe inesplose, due a Roma (Uffici della procura e Corte di Cassazione) e una al Palazzo di Giustizia di Torino;  24 luglio Milano: ordigno scoperto e disinnescato al Palazzo di Giustizia; Tra l’8 e il 9 di agosto otto bombe esplosero su vari convogli ferroviari, altre due furono ritrovate su treni in Stazione Centrale a Milano e alla stazione di Venezia Santa Lucia; per finire il fallito attentato alla scuola slovena di Trieste (tenuto nascosto dalle autorità fino al gennaio del 1971), di cui sappiamo tutto grazie alle rivelazioni, fatte nel 1996, dell’ex di Ordine Nuovo Martino Siciliano. Il commando era composto da lui, Zorzi, la fidanzata di Zorzi e un altro camerata, la macchina era stata messa a disposizione da Carlo Maria Maggi (reggente di Ordine Nuovo per il Triveneto), l’esplosivo era stato recuperato da Zorzi e l’innesco fatto da Carlo Digilio. In questi attentati pur cercando e rischiando spesso la strage si sono ottenuti “solo” molti feriti. I tipi di esplosivi, i detonatori, i contenitori e le modalità di preparazione e realizzazione non lasciano molti dubbi sul fatto che a fare e collocare quelle bombe fossero sempre state le stesse mani. Il Sid, in una nota del 13 dicembre redatta sulla base di informazioni raccolte dal maresciallo Gaetano Tanzilli, indicava Stefano Delle Chiaie (leader di Avanguardia Nazionale) e Mario Merlino (il falso anarchico) quali responsabili degli attentati di Roma. L’ordine gli sarebbe arrivato da Guerin Serac e Robert Leroy (due ex Waffen-SS) attraverso “l’Aginter Press”. Un’agenzia di stampa con sede a Lisbona che fungeva da copertura per il reclutamento, da parte dei servizi segreti portoghesi e statunitensi, di elementi delle destre radicali per “operazioni coperte” nell’ambito della guerra fredda. Il rapporto del Sid passò per diverse mani subendo numerose modifiche, fino alla stesura definitiva del 17 dicembre, da dove scompariva il perché dell’infiltrazione di Mario Merlino tra i gruppi anarchici, ma sopratutto dove Leroy e Serac venivano presentati come pericolosi anarchici! Le precise volontà di depistaggio da parte degli apparati statali saranno testimoniate da un altro documento riservato del Sid datato 11 aprile 1970, dove si scriveva che Serac e Leroy non erano anarchici, ma appartenevano ad una organizzazione anticomunista, però si suggeriva di tacere questa informazione alla pubblica sicurezza. Un’ennesima prova delle “coperture” di cui i neofascisti disponevano è stata la vicenda del commissario Pasquale Juliano della squadra mobile di Padova. Incaricato dal questore di indagare sulla bomba al Rettorato dell’università  del 15 aprile 1969, arrivò in breve tempo a raccogliere informazioni sulla cellula di Ordine Nuovo di Padova. In particolare indagò sull’avvocato padovano Franco Freda e sul Trevigiano Giovanni Ventura. Arrivò ad arrestare un estremista di destra, tal Riccardo Patrese, mentre usciva dalla casa di Massimiliano Fachini (uno stretto collaboratore di Freda) con una pistola e una bomba. Juliano fu subito allontanato dalla questura con l’accusa di aver precostituito le prove, solo nel 1979 gli verrà riconosciuta dai giudici l’infondatezza di tali accuse. LA SVOLTA DELLE INDAGINI: L’APERTURA DELLA “PISTA NERA” Il 15 dicembre 1969, Guido Lorenzon, un insegnante di francese vicino alla DC e amico di Giovanni Ventura, disse al suo avvocato di essere stato informato, da parte di Ventura, dell’esistenza di un’organizzazione eversiva impegnata nell’instaurazione di un regime sul modello della Repubblica Sociale Italiana di Salò. Disse in oltre che Ventura affermò “di saperla lunga sulle bombe di dicembre a Milano”, e “di aver finanziato gli attentati sui treni avvenuti in agosto”. Dalle sue rivelazioni partirono delle indagini da parte del giudice istruttore di Treviso, ne fu informato anche il giudice istruttore di Roma (a cui era stata assegnata la competenza per le bombe di dicembre). Si ebbe una svolta nell’inchiesta con il ritrovamento di due depositi di armi ed esplosivi appartenenti ad organizzazione eversiva che faceva capo a Freda e Ventura. Purtroppo ancora una volta i 35 candelotti esplosivi rinvenuti vennero fatti immediatamente brillare senza fare prima analisi per stabilire se fossero stati utilizzati anche per le stragi. Sui due vennero effettuati controlli e indagini e si scoprì, attraverso intercettazioni telefoniche, che Freda aveva acquistato 50 timer marca “Diehl” con temporizzatore a 60 minuti, dotati di un particolare dischetto segnatempo prodotto in esclusiva da Targhindustria, e che questi erano identici ai timer usati nelle stragi. Se questo non bastasse, il giornale “L’Espresso” segnalò che in una valigeria di Padova erano in vendita borse dello stesso modello e colore delle borse usate per piazzare le bombe. In seguito a questa segnalazione del settimanale, si scoprì l’esistenza di un appunto “dimenticato” della questura di Padova datato 16 dicembre 1969, in cui il commerciante di borse “Al Duomo” dichiarava di aver venduto 4 borse (modello 2131, prodotte in germania dalla ditta Mosbach e Gruber) uguali a quella rinvenuta a Milano contenente l’ordigno inesploso della Banca Commerciale Italiana. Per concludere il quadro probatorio con cui si aprirà il primo processo sulla strage di piazza Fontana restano da ricordare due elementi: il primo fu una riunione avvenuta a Padova in data 18 aprile 1969 con un esponente di spicco dell’eversione nera romana, all’inizio si pensò essere Pino Rauti di Ordine Nuovo, salvo poi appurare che era Stefano Delle Chiaie di Avanguardia Nazionale. Il secondo fu il ritrovamento, in una cassetta di sicurezza di proprietà della madre di Giovanni Ventura, di alcuni documenti riguardanti la politica interna e internazionale provenienti dai servizi segreti. Si scoprirà in seguito (grazie a dei difetti grafici nella scrittura) che quei documenti furono scritti con la macchina da scrivere di Guido Giannettini. Giannettini, noto come “l’agente Z”, era un’agente segreto del Sid. Per sua stessa ammissione svolse un ruolo di contatto con i neofascisti per conto del generale Maletti. LO SVILUPPO DELLE VICENDE GIUDIZIARIE La prima inchiesta partita a Milano fu spostata per un cavillo a Roma già verso la fine di dicembre, nel 1971 questa era già conclusa sul versante della pista rossa e rimandava a giudizio per strage gli appartenenti al gruppo anarchico “22 marzo”. Dopo poche udienze il procedimento venne rispedito a Milano per incompetenza territoriale, da qui fu mandato a Catanzaro adducendo le motivazioni di “pericolo per l’ordine pubblico e legittima suspicione”. Nel passaggio milanese si aggiunsero tra gli imputati alcuni dei neofascisti. Poi anche alcuni esponenti dei servizi. All’inizio del processo il 23 febbraio 1979 si ritrovarono alla sbarra gli anarchici Pietro Valpreda, Emilio Borghese, Roberto Gargamelli, Olivio de Salvia, Enrico di Olimpia Torri e l’infiltrato fascista Mario Merlino (rimasto fregato nel suo stesso doppio gioco), i neofascisti Franco Freda, Giovanni Ventura, Stefano Delle Chiaie, Marco Pozzan, Piero Loredan di Volpato del Montello e Stefano Serpieri e gli ufficiali dei servizi Guido Giannettini, Giandalio Maletti, Antonio Labruna e Gaetano Tanzilli. La corte condannò in primo grado Freda, Ventura e Giannettini all’ergastolo per strage, mentre Maletti, Labrune e Tanzilli vennero condannati per favoreggiamento. Gli anarchici, tutti assolti per la strage, furono condannati per associazione a delinquere. Nel 1981 la Corte di appello di Catanzaro assolse tutti, condannando solo Freda e Ventura per associazione sovversiva in riferimento agli attentati dell’aprile e dell’agosto 1969, ma non per piazza Fontana. La Cassazione annullò la sentenza, assolvendo definitivamente il solo Giannettini e rinviando tutto a al tribunale di Bari. Nel 1985 il tribunale di Bari confermò la sentenza di secondo grado di Catanzaro. Nel 1987 la cassazione confermò la sentenza di Bari Per la strage di piazza Fontana non c’erano colpevoli! Un nuovo processo si intentò per Stefano delle Chiaie e Massimo Fachini, ma furono entrambi assolti. L’ultima inchiesta prende il via nei primi anni ’90 dall’unione di più filoni investigativi riguardanti le attività di Ordine Nuovo, una partita di 36 bombe a mano un tempo appartenute al gruppo milanese dell’organizzazione neofascista (noto come “la Fenice”) usate durante un corteo del MSI a Milano nel 1973, ed un documento, attribuibile a Nico Azzi, in cui si parla della disponibilità rimasta di timer dopo gli attentati del 12 dicembre 1969. Due collaboratori permisero lo sviluppo delle indagini, Martino Siciliano, ex di Ordine Nuovo nel Triveneto, e Carlo Digilio, noto come “zio otto”, infiltrato dalla CIA nell’organizzazione. Nome in codice “Erodoto”. Siciliano, coinvolto con Delfo Zorzi nell’attentato alla scuola slovena di Trieste e nel confezionamento della bomba che nel 1971 esplose all’Università Cattolica di Milano, ricostruì al giudice Salvini l’organigramma di Ordine Nuovo. Descrisse gli incontri del 1966 tenutisi a Mestre per rilanciare Ordine Nuovo nel Triveneto, dove si definì la situazione italiana prerivoluzionaria e di conseguenza la necessità di attrezzarsi affinchè il PCI non prendesse il potere. Nella struttura, Delfo Zorzi come capocellula di Mestre, riferiva direttamente a Carlo Maria Maggi, il quale a sua volta riferiva a Roma a Paolo Signorelli che era in contatto con Rauti che dirigeva la struttura. In questo periodo Ordine Nuovo accumulò armi ed esplosivi anche nella sede di Mestre, che Zorzi utilizzava come seconda casa. Siciliano, nella primavera del 1969, partecipò anche ad una riunione avvenuta nella libreria Ezzelino di Padova (proprietà di Freda) dove si definì la strategia stragista: infatti grazie al suo contatto con Rognoni, Zorzi poté organizzare il gruppo di Ordine Nuovo “la Fenice” di Milano. Infine Siciliano raccontò della cena di capodanno del 1969 a casa di Giancarlo Vianello a Mestre, dove Zorzi parlando di piazza Fontana disse: “SIAMO STATI NOI A FARE QUELLA ROBA, NOI COME ORGANIZZAZIONE”. Carlo Digilio era  l’armiere del gruppo,  lo “zio otto” fu infiltrato per permettere il salto di qualità al gruppo, in particolare nel campo degli esplosivi, in modo da farli operare attivamente nel quadro della strategia della tensione. Digilio dichiarò di essere stato “infiltrato” nel gruppo tramite Lino Franco, un ex repubblichino animatore del gruppo Sigfrid (un’articolazione dei nuclei di difesa dello stato, un’organizzazione parastatale anticomunista). Franco lo fece incontrare con Ventura che lo portò subito nel deposito di armi ed esplosivi del gruppo in un casolare nel comune di Paese. Digilio raccontò le fasi precedenti alla strage. Carlo Maria Maggi lo avvisò che vi sarebbero stati gravi attentati e che lo avrebbero presto contattato. Zorzi gli diede appuntamento l’8 dicembre e gli fece vedere nel cofano della 1100 di Maggi tre casse militari con dell’esplosivo dicendogli che i timer li aveva innescati un elettricista. Gli disse che doveva andare con quelle casse fino a Milano, e si fece rassicurare sulla possibilità di non saltare in aria lungo il tragitto. L’elettricista che preparò i congegni era Tullio Fabris, che nel 1994 decise di parlare (sostenne di non averlo fatto prima per le minacce ricevute da Fachini e Rauti), raccontando sia delle prove fatte con gli inneschi nello studio legale di Freda, sia delle  proposte di collaborazione con Ordine Nuovo, sia delle protezioni che gli sarebbero state garantite da “alte sfere”. Digilio riferì infine alcuni discorsi di Maggi in cui disse che “per gli attentati del 12 dicembre erano partiti alla volta di Milano Delfo Zorzi e i mestrini di sua fiducia viaggiando con la Fiat 1100”, che Giovanni Ventura aveva coordinato l’intera operazione, che “i fatti del 12 dicembre erano solo la conclusione di quella che era stata la nostra strategia”, che “c’era una mente organizzativa al di sopra della nostra, che aveva voluto questa strategia”e infine che “l’incriminazione degli anarchici era una mossa strategica studiata dai servizi segreti”. Alle dichiarazioni di Maggi aggiunse quella di Zorzi in cui diceva che nonostante tutti quei morti “era stata importante perché aveva dato forza alle destre e colpito la sinistra del paese”. L’8 giugno 1999 iniziò il processo per strage contro Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni che in primo grado furono condannati all’ergastolo. Il 12 marzo 2004 la Corte di Appello assolse tutti, motivando che, pur ritenendo attendibili Siciliano e Digilio, non aveva abbastanza elementi contro Zorzi e gli altri. Il 3 maggio 2005 la Corte di Cassazione confermò tutto. Nelle motivazioni della sentenza vengono riconosciute due cose: la colpevolezze di Freda e Ventura (purtroppo senza effetti perché già processati e assolti per la strage) e l’implicazione del gruppo Ordine Nuovo nella pianificazione e attuazione degli attentati. Anche stavolta nessuno ha pagato per la strage! LA VERITA’ SULLA STRAGE La guerra fredda ha avuto un’influenza diretta nella storia Italiana. Era impensabile dagli accordi di Yalta in poi che l’Italia potesse diventare socialista, cosi all’indomani della seconda guerra mondiale una serie di operazioni furono avviate nel paese per impedire questa ipotesi, dal finanziamento alla DC, alla rottura dell’unità sindacale fino alla costituzione di reti parallele di “autodifesa” in caso di un tentativo insurrezionale comunista. Così nacquero i Nuclei di Difesa dello stato, Gladio e la strategia della tensione. La strategia della tensione fu il tentativo di generare panico nel paese, possibilmente attribuendo le colpe alle sinistre, in modo da permettere svolte autoritarie o addirittura golpiste. Il sistema “democratico” Italiano a tratti non sembrava offrire la garanzia di mantenersi allineato al blocco occidentale, così si sono strutturate campagne per “raddrizzare” in senso autoritario la stato. La prova degli intrecci messi in piedi dai servizi segreti Italiani e statunitensi sta nella vicenda di piazza Fontana. Ventura e Freda erano legati attraverso Giannettini al Sid, Digilio per sua stessa ammissione era l’agente “Erodoto” della CIA, Delfo Zorzi tramite Elvio Catenacci, questore di Venezia, era vicino all’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, Maggi era vicino ad A.Magi braschi un ex-Sifar esperto di guerra non ortodossa, Fachini era legato al capitano Labruna del Sid e Pino Rauti è stato vicino al Sifar e al Sid come collaboratore dell’ammiraglio Henke: una strage attribuita alla sinistra, orchestrata da apparati dello Stato e eseguita da neofascisti reclutati  dai servizi segreti italiani e stranieri. (da Antifa Milano )
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