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#file: spietata
diinferi · 9 months
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LOCATION 
[NEW YORK CITY, NEW YORK]
BACKGROUND
[EXPERIMENT] Either you willingly joined or were forced into it, you've undergone experimentation to enhance your mutant abilities and intensive training to hone them. Their goal was to turn you into a living weapon, and boy did they succeed. You're free now, but horrible memories will likely haunt you for the rest of your life.
PERKS
[EVERY TIME] Your pain tolerance is at the peak of what a human can achieve. Extreme amounts of pain can be overcome, allowing you to continue doing what needs to be done. Just be careful you don't accidentally ignore a mortal wound.
[WE'LL SHOW YOU OURS] You're naturally skilled at using any powers you have into melee combat, to the point where you can seamlessly integrate them into martial arts, or create a new martial art altogether that's based on powers.
[THE BEST I AM AT WHAT I DO] You know the most efficient way to kill things. You could kill a man with your little finger - even if it isn't super strong or razor sharp. This doesn't mean you'll automatically know how to kill something you've never seen before, but if you fight it for a few minutes, you're sure to find a dozen chinks it its armor.
[WOLVERINE MODE] You can grow a beard and grow it good. You can have a glorious full beard in a fraction of the time in would take a normal man. If you're a woman - or a man who doesn't understand the glories of facial hair -, you can grow knee-length hair easily, and it won't hinder you nearly as much as it rightfully should. Either way, both your hair and facial hair can easily be styled in nearly any way you want and will remain that way with very little effort on your part. As well, once your beard and or hair reaches its ideal length, its growth will slow to a crawl.
[STEALTHY] In your line of work, it pays to be sneaky, and you've never had any trouble earning pay.
POWERS
[ELEMENTAL POWER - ELECTRICITY] Choose Fire, Ice, or Electricity. You can now generate and manipulate the one you chose. You'll start out being able to throw around house-sized fireballs, freeze a small pond, or generate bolts of lightning powerful enough to instantly char a man to ash, and you'll only improve from there. Eventually you'll be able to transform into your element, becoming a mobile ice sculpture, a human torch knockoff, or a living lightning bolt.
[HEALING FACTOR] You heal real fast. In addition to normal healing being sped up, this also means you'll be in the prime of your life for centuries and you'll never need to worry about mundane diseases or - to a lesser extent - poisons. Pretty much the only way to completely kill you is to destroy nearly all of your body, destroy your whole brain, or decapitate you and move your head away from your body.
ITEMS
[COMBAT SUIT] A light-weight, highly durable, full-body suit capable of keeping your warm in cold weather and stopping low, caliber gunfire. In addition, it also adapts to work with your powers; shapeshifting with you, not melting when you burst into flame, etc. Can either be brightly-colored spandex or black leather.
[ADAMANTIUM] You have a store of liquid adamantium, the hardest substance in the world. Once solidified, it can't be melted again and is virtually impossible to damage. You have a little more than enough to recreate Wolverine's surgery and will receive more, equal to the original amount, each year.
[MOTORCYCLE] A nice bike. Not extraordinary or anything, but it's made really well, and will hardly ever break down without extraneous use. Easily modifiable and gets excelling mileage.
DRAWBACKS
[DUDEPEEL NO MORE] Originally, Wade Wilson was a mutant merc in the same group as Wolverine and was experimented on to become something only vaguely resembling the real Deadpool. Now, you'll instead be getting the one from the modern times that's a much more loyal and much less edgy portrayal. Hope you didn't need the fourth wall.
[MAKING WAVES] It seems your existence has not gone unnoticed. At least one powerful group has found you on their radar and is very interested in capturing you. Destroy them or evade them for long enough, and others are likely to take notice as well.
FUTURE
[MOVE ON]
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enkeynetwork · 1 year
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corallorosso · 4 years
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Da quando è entrato in vigore, poco più di un anno fa, il Decreto Sicurezza Salvini ha prodotto in Italia 30mila nuovi clandestini (è più corretto chiamarli irregolari, ma per farci capire usiamo il ”loro” linguaggio), che prima non c’erano. Nel senso che li ha proprio prodotti il Decreto Sicurezza, li ha proprio creati. Si tratta di 30mila stranieri (erano 27mila a ottobre scorso) che si trovavano regolarmente in Italia, con un proprio permesso di soggiorno, che quindi potevano lavorare, erano riconoscibili, inclusi in un sistema integrazione, e che il Decreto Sicurezza, privandoli di tutto questo con un tratto di penna, ha trasformato in clandestini. Cioè in persone che non hanno più titolo per restare in Italia, ma che, non potendo/volendo tornare nei paesi di origine e non essendo rimpatriati dallo Stato, si sono riversate in strada gonfiando le file del lavoro nero o quelle della criminalità, anziché quelle dell’economia legale. In poco più di un anno, quindi, Matteo Salvini ha creato in Italia più clandestini (30mila) di quanti ne abbiano portati scafisti e trafficanti di esseri umani (circa 10mila). Facendo cioè loro una concorrenza spietata. Ciò che l’elettore leghista pensa che accada è che, una volta privato del permesso di soggiorno, lo straniero all’improvviso si smaterializzi o torni nel suo Paese. E se non ci torna ce lo portiamo noi. Ma Matteo Salvini, nel corso del suo governo, non ha rimpatriato 100 clandestini al giorno così come aveva promesso, ma 19 al giorno: meno di qualunque altro governo di centrosinistra. E perfino meno di Mario Monti che ne rimpatriava 20,1 al giorno. Riassumendo, con i Decreti Sicurezza, mentre con una mano Salvini rispediva a casa 19 clandestini al giorno, con l’altra ne creava 60 al giorno. Più le altre migliaia che sono tranquillamente arrivati ogni giorno con i barconi fantasma (o le altre migliaia a piedi dal confine a nord est di cui non parla mai nessuno). Può sembrare una follia, ma è un calcolo ovviamente lucido: creare clandestini e insicurezza per poter cavalcare la paura da lui stesso creata. Tanto il suo elettorato, lui sa, o non ci arriva, o se ci arriva preferisce negare a sé stesso di essere stato così tradito dal suo Capitano. Ora tutto questo, se il governo attuale si dà finalmente una mossa, potrebbe finire. I decreti sicurezza sono un abominio che va smantellato da cima a fondo. E non devono esserci timidezze di sorta. Emilio Mola
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paoloxl · 4 years
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(via proletari comunisti: pc 14 aprile - "Detenuti picchiati in carcere da 300 agenti a volto coperto". Rompere il silenzio sui massacri al carcere di Santa Maria Capua Vetere, arrestare e processare i responsabili! A cura del SRP)
Alla Procura di Santa Maria Capua Vetere è arrivata ben più di una segnalazione. Oltre alla relazione del garante regionale per i detenuti Samuele Ciambriello (che chiede verifiche sui racconti dei pestaggi) e la segnalazione di Antigone, ci sono le denunce di sorelle, madri, mogli dei prigionieri che sono riuscite a mettersi in contatto con i propri familiari, facendo emergere dal silenzio quella che è stata, e per alcuni sembra che continui, una vera e propria mattanza in risposta ad una protesta pacifica - la battitura - e pienamente legittima, date anche le condizioni igieniche e sanitarie di quel carcere, con un sovraffollamento del 18%, senza acqua potabile e senza dotazioni di sicurezza anti contagio (ad oggi sono 4 i positivi, 2 ricoverati al Cotugno e 2 in isolamento). Che la protesta dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere fosse pacifica lo conferma lo stesso sindacato di polizia penitenziaria. Ciò che nega, e che la direttrice del carcere ha dovuto ammettere di fronte alle proteste delle familiari dei reclusi, è la risposta delle guardie, feroce e spietata. “Ci picchiano a turno: una volta a uno, una volta un altro … Vengono e dicono che tanto dobbiamo morire tutti prima o poi…” è la drammatica testimonianza di chi sta dentro. Quasi 300 agenti coinvolti, 150 del reparto G.O.M. in supporto agli agenti di servizio nella struttura. Barbe e capelli tagliati, denti che saltano, contusi e feriti, video-chiamate e colloqui con i parenti sospesi per nascondere e tacere i pestaggi. Di seguito stralci dell'articolo su Il Dubbio: La prima denuncia presentata alla stazione dei carabinieri è stata fatta proprio dalla donna che non ha potuto più sentire telefonicamente suo marito. Alla querela ha allegato tre file audio WhatsApp dove diversi familiari denunciano le violenze subite dai detenuti ad opera del personale penitenziario del carcere. Quasi trecento poliziotti a volto coperto e in tenuta antisommossa avrebbero fatto irruzione nel padiglione Nilo, sarebbero entrati nelle celle e avrebbero cominciato i pestaggi. Avrebbero picchiato chiunque, anche chi non ha preso parte alle agitazioni del fine settimana. Tra di loro anche un detenuto che dopo pochi giorni ha finito di scontare la pena. A raccogliere subito la sua testimonianza è Pietro Ioia, il garante delle persone private della libertà del comune di Napoli. Per corroborare la sua testimonianza ha reso pubbliche le sue foto che mostrano ecchimosi su tutto il corpo, addirittura alla sua schiena sembra che ci sia il segno di uno scarpone. L’uomo ha prima fatto denuncia alla stazione dei carabinieri, ma tramite l’avvocato oggi presenterà un esposto direttamente in Procura. L’ex detenuto che è uscito dal carcere venerdì scorso, raggiunto da Il Dubbio, ammette che hanno inscenato delle proteste per i contagi da coronavirus, ma poi sembrava che tutto fosse stato chiarito. Infatti dopo le proteste è giunto il magistrato di sorveglianza che ha parlato con tutti loro. Hanno potuto raccontare i fatti, smentendo le ricostruzioni trapelate da alcuni sindacati di polizia che parlavano di una violenta rivolta. Ma sarebbe stata la quiete dopo la tempesta. «Nel pomeriggio circa 300 agenti in tenuta antisommossa hanno fatto irruzione nelle celle – racconta a Il Dubbio l’ex detenuto -, costringendoci ad uscire, dopo di che ci hanno denudati e colpiti a calci e manganellate». Ma non solo. «Per dimostrare la loro superiorità e durezza – racconta sempre l’ex detenuto – dopo le mazzate hanno preso i nostri rasoi dagli armadietti e ci hanno rasato la barba». L’uomo ha anche confermato che dopo i presunti pestaggi, erano state proibite di fare le videochiamate. Come se non bastasse – prosegue sempre l’ex detenuto – «gli agenti facevano la conta obbligandoci tutti a stare in piedi davanti alle brande e con le mani all’indietro, come se fossimo in una caserma».
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pangeanews · 5 years
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Michel Houellebecq: genio assoluto o petulante bluff che fa le coccole a Winnie the Pooh? Matteo Fais e Davide Brullo litigano in attesa di “Serotonina”
È così difficile trovare un autore che ci rappresenti! In fondo, la solitudine ontologica dell’uomo si ripropone ogni volta anche tra gli scaffali delle librerie. Cerchiamo di completarci con cose e persone, fallendo nella maggior parte dei casi. Eppure, viviamo con questo intimo e inestinguibile bisogno di vederci riconosciuti. Se qualcuno ha pensato ed espresso quello che tra compiacimento e tortura non ci ha mai dato pace, un poco ci sentiamo sollevati – inutile negarlo. È un senso di vicinanza che scioglie il freddo in cuore, nel segno del mal comune mezzo gaudio.
Credo che il motivo per cui leggo e rileggo Houellebecq – e aspetto il suo romanzo in trepidante attesa – stia nel fatto che, dall’autore francese, io mi sento rappresentato. Non è mai stato così con nessun altro. Ho amato molti libri, passando e ripassando con bramosia inquieta tra le loro righe. Eppure, qualcosa mi è sempre mancato. Nessuno ha mai detto fino in fondo la verità di ciò che sento. Sartre mi è piaciuto. Il Camus di Lo Straniero mi ha fatto quasi paura perché vi ho scorto molto di me. Persino Giuseppe Culicchia, almeno in Tutti giù per terra, ha anticipato in buona misura molte delle tragedie che avrebbero segnato il mio ingresso nella traumatica età della ragione. Ma avvertivo un residuo di inespresso, qualcosa che era ancora lì e andava messo nero su bianco. Tant’è che allora decisi di dirlo io, senza attendere ulteriormente che fosse qualcun’altro a farlo in mia vece. Poi, a un certo punto, per puro caso un amico, durante una serata in comitiva, in cui eravamo i soli a pensarla in un certo modo, mi fece il nome del francese: “C’è uno scrittore che sostiene esattamente quello che stiamo dicendo noi”. Non potei resistere alla tentazione.
Seppi fin da subito che Houellebecq era quello giusto, come i pochi fortunati a cui capita di incontrare la donna della loro vita. Mi immersi in Le particelle elementari rimanendo folgorato. C’era tutto quello che avevo sempre pensato, solo espresso più chiaramente e sistematizzato. Mi colpì in particolare quella strana forma ibrida, e così ben equilibrata, tra il saggio e la narrazione. Non sono mai stato del resto un amante dei romanzi basati sull’intreccio, tra inutili complicazioni della trama e psicologismi talmente spinti da lasciarmi del tutto indifferente. “Il mio scopo non è di incantarvi con sottili notazioni psicologiche. Non ho l’ambizione di strapparvi applausi per la mia finezza e il mio spirito. Questo genere di cose lo lascio agli scrittori che usano il proprio talento per descrivere i differenti stati d’animo, i tratti del carattere, ecc. […] Tutta questa mole di dettagli realistici, questo dar vita a personaggi plausibilmente differenziati, m’è sempre sembrato, scusate l’ardire, una grande stronzata”, così sta scritto in Estensione del dominio della lotta. Sinceramente, non potrei essere più d’accordo. Odio i romanzi dove ci si perde nelle idiosincrasie dei personaggi, o nelle descrizioni iperrealistiche come avviene nei russi dell’Ottocento. Mi piace una narrativa di contenuti, come la si suol chiamare. Dei gusti personali dei singoli protagonisti me ne sbatto, mentre amo quando a essere descritto è un certo periodo storico di cui ogni figura letteraria è una rappresentazione plastica – del resto, ha ragione Houellebecq quando dice che oramai siamo tutti molto simili, in questo tempo omologante, e ci differenziamo solo per stupidaggini, come il fatto che io non sopporto gli slip e tu invece hai un serio problema con i boxer.
Daniel Pennac, in una recente intervista, ha sentenziato che “i lettori di Houellebecq sono consumatori che odiano consumare”. Non è del tutto falso. Per una volta, ho sfiorato la straniante sensazione di trovarmi in accordo con lui. In effetti mi sento consumato, acquistato e non acquistante. Mi capita addirittura di contemplare uno scaffale del supermercato, come al protagonista di Estensione, solo per scoprire dopo qualche minuto che non mi serve realmente niente degli articoli esposti alla “cupidigia del pubblico”. Ma non è tutto così semplice…
Potrei amare anche Bukowski, per la smodata presenza della sessualità nei suoi libri, proprio come in quelli dell’autore di Piattaforma. Però, no, qualcosa di Bukowski mi lascia insoddisfatto. Adoro la sua prosa, così secca e fluida da scorrere veloce come la birra di mezza mattina. Trovo però che l’americano sia oltremodo naïf. Sono interessanti le sue folli esperienze, da cui lui trae non poche intuizioni pungenti. Ma in Bukowski manca del tutto la sovrastruttura culturale. La sua è una saggezza da barfly (“mosca da bar”), quando la sbronza è tale che o cadi in coma etilico o sei improvvisamente vittima di una qualche illuminazione sulla vita. Houellebecq è più simile a me: un osservatore distaccato e analizzante, affetto da una punta costante di amarezza, capace di farti ridere proprio nel momento in cui più ti fa male. È uomo di cultura, ma che giustamente non si prende troppo sul serio. Per lui il sesso non è colore e contorno della narrazione, ma chiave interpretativa, nella sua declinazione, di un’epoca – proprio come l’economia.
Ammiro inoltre la sua capacità nel mantenere uno stile sempre valido alternando nella sua produzione romanzi postmoderni, come Estensione e Le particelle elementari, fino ad arrivare a quello che potremmo definire il neonaturalismo di Sottomissione.
Dite quello che vi pare, ma lui ha in ogni momento il polso della situazione, di quello che gli sta accadendo intorno. Da quando, disoccupato, scrisse in preda alla disperazione il suo primo romanzo, fino a diventare un miliardario chiuso in un grattacielo del quartiere cinese di Parigi, nulla è cambiato: Houellebecq vede sempre il mondo con spietata ed empatica lucidità.
Ho sentito che il suo nuovo libro, terminato mesi addietro, preconizza la rivolta dei gilet gialli. Ciò non mi sorprende, casomai rinnova la mia convinzione. Ho letto l’incipit: “Odiavo Parigi, quella città ammorbata da borghesi ecoresponsabili mi ripugnava, può darsi che fossi un borghese anch’io ma non ero ecoresponsabile, andavo in giro con un 4×4 diesel – forse non avevo combinato granché di buono nella vita ma almeno avrei contribuito a distruggere il pianeta – e sabotavo sistematicamente il programma di raccolta differenziata varato dall’amministratore del palazzo buttando l’umido nel recipiente per il vetro e le bottiglie vuote nel cassonetto riservato alla carta e agli imballaggi”. Inutile precisare che sono già “in solluchero”, come quel sentimentale del giovane Holden travolto sulla strada da un male di vivere inimmaginabile prima dell’affermazione letteraria di Houellebecq.
Matteo Fais
***
Non basta, non basta, non mi basta nulla. Non mi basta neanche il nulla, figuriamoci l’uomo, l’umano, il suo disagio, la sua disfatta, l’ansia cristica della dissipazione, il lasciarsi andare, il lasciarsi morire, la lascivia nichilista, la foga dell’annientamento. Questo è l’uomo da quando è uomo, nell’incarnazione di Abramo – disposto a sacrificare ciò che ha di reale, il figlio, per un filo di voce illusionista che ritiene Dio – nella follia di Edipo – che vince il mostro scoprendosi mostruoso – nella malia di Amleto – che sa che essere è non essere – e giù, deragliando e derapando nel dirupo umano, tra i russi che hanno a cuore non certo i dettagli narrativi – quelli piacciono sotto il cupolone di Albione – ma il deperimento dell’anima e il suo sfasciato ululato, e le ignominie di Beckett e le sconcezze di Genet e i bramiti di Camus… poi arriva lui, Michel Houellebecq, che con un talento miseramente ‘giornalistico’ ripete peggio degli altri le stesse cose, cambia la ‘quinta’, orienta la scrittura per i sottodotati attuali, per i dormienti, e giù applausi. Sinceramente, con tutta la mia pulviscolare ironia, Serotonina lo stronco prima ancora di leggerlo, MH scrive da vent’anni sempre le stesse cose.
La posa. Leggete la posa, please, prima ancora dei libri. Houellebecq sta in posa – fotografica – fotogenica. Fa la faccia del vituperio, un abietto virile, con la sigaretta digerita in bocca, fa il lurido, fa schifo, anche se è pieno di soldi e di applausi. Si mette in posa. Fa la parte. Lo scrittore, però, rifiuta i ruoli, vive per evadere le forme, per verificarne l’idiozia. Gli scrittori violenti hanno un viso limpido, che lampeggia crudeltà. Nelle raffigurazioni secentesca, il re Davide è un bambino, è l’icona dell’innocenza, ma brandisce la spada, è lordo di sangue, rotea il cranio di Golia.
Il petulante. Il talento di Houellebecq – se tale è – è ‘giornalistico’, dicevo. Intuisce un problema ‘sociale’, edifica una palafitta narrativa, ci s’infossa, il trucco riesce sempre. Houellebecq ha bisogno della polemica e della politica, non può fare a meno del fango, del pubblico, non si disincastra dal giudizio. Per questo le sue opere più che degradanti e degradate sono degradabili, svaniscono una volta lette, come un buon reportage giornalistico. Insomma, Houellebecq non è diverso da Trump, di cui apprezza il biondochiomato carisma.
L’egida dell’ovvio. Houellebecq funziona perché scrive ciò che vogliamo leggere, si finge antipatico – ma io lo immagino mentre fa le fusa abbracciato a Winnie the Pooh – ha il vezzo dello str**zo, annaspa nell’ovvio – che, ovviamente, vende – come il suo amico Emmanuel Carrère, due facce della stessa medaglia cariata. Poi, certo, in Italia ci vorrebbe un Houellebecq, ma l’Italia, letterariamente, è terra di tanti mozzi, di una manciata di corsari, mentre qualche squalo scodinzola in mare aperto.
Umano troppo umano. Houellebecq sosta nel sottobosco dell’umano, nel retroterra, con il retrogusto del già letto e già digerito: è un clamoroso bluff. La letteratura, piuttosto, si muove verso l’al di là, oltre l’uomo, in direzione del disumano – per questo, su questo, Massimiliano Parente vince Houellebecq, non c’è partita, lo scontro è impari – oppure nell’alveo dell’oltreumano. Il caro vecchio Cormac McCarthy riduce Houellebecq a un barboncino dei buoni sentimenti, Witold Gombrowicz ne dissezionerebbe la barbarie formale, perfino Rudolph Wurlitzer, con il visionario, lisergico, sonnambulo Zebulon ha scritto un libro che vale Le particelle elementari ed Estensione del dominio della lotta – i ‘best’ di MH – messi insieme.
Lo stile. E poi, basta, basta questo. MH scrive male – è sufficiente a evitarlo. Uno scrittore che non dona decenza formale alla propria creazione è un petulante provocatore. Meglio Moravia, allora. Meglio Pavese. Meglio Tempo di uccidere di Flaiano. Meglio i racconti di Verga. Lo ripeto per l’ennesima: prima di MH, lo scrittore facile per un tempo fatalmente semplice, il romanziere per i trinariciuti dell’abisso nella tazzina di caffè, leggete Montherlant, leggete Jouhandeau. Già. Troppo. Ma io voglio il troppo, anelo all’irredento, mi fa voglia lo scandalo del linguaggio non chi pensa di fare oscenità perché piscia, in faccia a tutti, la propria incurante incuria.
Davide Brullo
L'articolo Michel Houellebecq: genio assoluto o petulante bluff che fa le coccole a Winnie the Pooh? Matteo Fais e Davide Brullo litigano in attesa di “Serotonina” proviene da Pangea.
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Cantiere aperto
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04 Cantiere aperto
Tornando a parlare di me potrei iniziare a dirti che sono stato concepito la sera del secondo anno di compleanno di mia sorella, dopo la festa del pomeriggio con parenti e amici la lasciano su dai nonni e i due sposi decidono di andare al cinema a festeggiare guardando il Dottor Zivago, e poi al ritorno a casa, visto la meraviglia di figlia che avevano fatto dovevano eseguire la perfezione assoluta sulla terra, così mettendoci tutto il loro impegno hanno concepito me, non per vantarmi, ma patatine e patatini quella sera ero in piena forma, pronto a bruciare in velocità la spietata e affollata concorrenza, partivo svantaggiato perché non ero nelle prime file, ma nella velocità avevo puntato tutto e mi ero preparato, così dopo svariati minuti di attesa con false partenze ripetute è arrivato il momento di scattare come non ci fosse un domani, ho utilizzato tutti gli stratagemmi possibili, avevo parecchi miei avversari davanti ma alcuni dopo pochi istanti erano già stanchi ed è stato facile superarli, altri li ho superati perché mi sono attaccato alle loro codine ed hanno sbandato, altri invece si sono girati di colpo quando ho gridato “Chi ha perso centomila lire?”, il più ostile da superare era uno sordo, e due che erano i più golosi di tutti, così ho gridato “Chi vuole una bella fetta di torta meringata?”, così siamo rimasti in due, mi ricordo ancora lo splendore che aveva quell'ovaia, piena di luce e limpida che rifletteva come uno specchio, e proprio grazie a questo ho vinto, perché il mio avversario è rimasto abbagliato quando ha visto riflettersi la mia bellissimità nella luce, così con non poca fatica mi sono riuscito ad introdurre per primo, potete immaginare la mia gioia in quel momento, ero sfinito ma ne era valsa la pena, la fatica e l’astuzia pagano sempre, ma se non era per la mia bellissimità non so se ora sarei qua a scrivere o se avessi avuto un gemello audioleso. 
Comunque sono stati mesi felici, i migliori della mia vita, ero molto rilassato, stavo lì senza fare nulla quasi tutto il giorno, nei primi mesi mi si è formata la testa, le braccia e le gambe, sinceramente non sapevo che farci, ma in poco tempo ho capito le loro prime utilità, si perché quando avevo sete con la mano sinistra pigiavo una parte del corpo di mia mamma e gli veniva sete, così bevendo mi dava da bere pure a me, mentre facendo la stessa cosa con l’altra mano gli veniva fame, così mangiando mi dava da mangiare pure a me, la cosa buffa che mi piaceva così tanto che lo facevo a tutte le ore. 
Gambe e piedi le ho capite poco più tardi, e non immaginate quanto era bello tirare i calci, si perché poco dopo arrivavano dall'esterno carezze e baci, era buffo ma è stato veramente divertente.
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bluebigcat · 5 years
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Chi sono e cosa fanno le persone che vi estorcono danaro tenendo in ostaggio i vostri dati?
Traduzione di Googke Translate:
[L'articolo in basso inizia il tuo sguardo all'interno del lato umano di una moderna cella di ransomware, i loro consigli su come impedire loro di crittografare i tuoi endpoint e una possibile e parziale soluzione a lungo termine agli hacker di stato non nazionali in regioni politicamente difficili . I nomi e alcuni dettagli all'interno di questo articolo sono intenzionalmente oscurati per proteggere l'identità della fonte.]
Vorrei presentarvi "Twig", lo sviluppatore principale dietro HILDACRYPT, una piccola cellula russa di aggressori. È un giovane uomo e più giovane di quanto ti aspetti. Quando avevi la sua età, potresti aver sognato un futuro che prevedeva storie d'amore e momenti divertenti per guadagnare la tua laurea. Mentre affinavi il tuo videogioco o le tue abilità di ballo, si stava allenando per mettere in imbarazzo le tue future competenze IT. Sostiene di avere due amori nella vita, il ransomware e Hilda, una ragazza impavida e spietata in un mondo moderno pieno di creature magiche che fa amicizia e aiuta nelle sue avventure. Per capire meglio Twig potresti voler guardare la prima stagione di Hilda, ma dovresti davvero capire un millennio di politica e discriminazione europea.
Twig è il figlio di un agricoltore diventato market manager che è orgoglioso di distruggere il lavoro degli sviluppatori web e degli amministratori IT americani e tedeschi. Cresciuto in Russia, parte della sua educazione si è concentrato sulle azioni e sui mali perpetuati dalle popolazioni occidentali, in particolare americani e tedeschi. Come la maggior parte degli europei, l'antica spaccatura tra l'Europa orientale e occidentale causata dallo scisma tra la Chiesa cattolica romana e le chiese ortodosse nel 1054 d.C. ha lasciato innumerevoli generazioni pensando che l'altra parte del continente fosse condannata al sesto anello dell'Inferno di Dante. Un piano spirituale in cui gli eretici sono imprigionati in tombe fiammeggianti.
Velocemente attraverso mille anni di malignità di case reali, rivoluzioni, due grandi guerre e una guerra fredda dilagante che persiste oggi. I media occidentali interpretano ancora i russi come malvagi, malvagi arretrati inclini alla distruzione golosa e i media orientali ritraggono gli europei occidentali e i nordamericani (sì, anche tu il Canada) come stupidi avidi, snob, economici.
Ora puoi capire perché le celle ransomware russe non hanno scrupoli ad attaccare i tuoi server e tenere in ostaggio i file. A loro avviso, stanno solo prendendo ciò che dovrebbe appartenere a loro in un mondo più giusto. Dall'altro lato, abbiamo le vittime che rafforzano ulteriormente il loro punto di vista che l'ex Unione Sovietica è una terra malvagia di depravazione. Sentendosi indifesi contro l'attaccante, spesso dicono all'aggressore di "andare all'inferno". La stessa maledizione una volta pronunciata dal papa romano Leone IX al patriarca di Costantinopoli, Michele Cerularius oltre 30 generazioni fa.
Chi è e non è un bersaglio?
Il suo odio instillato per gli americani e altri europei occidentali e la sua brama di attaccarli sono in parte affari e in parte dovere patriottico. Questo è un sentimento comune tra gli hacker russi, il ransomware è visto come una piccola punizione per la perdita di milioni di compatrioti nella Seconda Guerra Mondiale seguita da anni di duro trattamento economico. Detto questo, hackerare obiettivi russi è severamente vietato per HILDACRYPT, poiché non si dovrebbe mai "ferire un fratello o una sorella".
Oltre a non attaccare obiettivi domestici, anche la "media" e gli ospedali sono vietati. Per quanto Twig odia coloro che hanno beneficiato della vita in una società occidentale benestante, "negare la vita alle persone è troppo". Gli aggressori dietro WannaCry (pensato per essere i nordcoreani) hanno attraversato questa linea quando hanno bloccato 16 siti NHS nel Il Regno Unito, che potrebbe aver causato morti e sicuramente mettere a rischio molte vite poiché molti interventi chirurgici sono stati rimandati per tutta la durata dell'attacco. Inoltre, al di fuori degli ospedali, gli endpoint dei bambini in età scolare sono vietati, ma principalmente a causa del fatto che non pagheranno per recuperare i dati da tali sistemi. Inoltre, anche se i distretti della scuola primaria dispongono di risorse IT che sarebbero obiettivi meritevoli, generalmente non li inseguono perché sono in gran parte dispositivi Linux o basati su Apple che introducono una barriera che non vale l'investimento.
Generalmente, le persone credono che la dimensione della loro organizzazione sia ciò che conta per un aggressore come Twig, ma in realtà è una vulnerabilità che lo attira ed è il loro assetto che lo farà andare via o restare.
Come lo fanno?
In termini di numero di organizzazioni prese di mira ogni settimana, verticali specifici e le richieste che pongono sul dispositivo sono tutte private. È aperto a dire che il loro stile di attacco è generalmente attraverso la pesca subacquea e la scansione delle porte alla ricerca di vulnerabilità comuni. Le porte preferite di Twig sono "5900 e 5901 che sono aperte e senza password", combinate insieme si classificano come la 19a porta più scansionata. Queste porte sono utilizzate da Virtual Network Computing (VNC) per la condivisione desktop e l'applicazione di controllo remoto per macchine Linux e Windows. Nel corso degli anni, diverse vulnerabilità legate a queste porte hanno permesso agli aggressori di bypassare l'autenticazione e ottenere l'accesso al sistema. Se Twig può entrare, la tua partecipazione non è richiesta per attivare lo script ransomware (ad esempio abilitare le macro su un documento Word ricevuto via e-mail).
Mentre i suoi script eseguono il ping di una serie di indirizzi IP per le vulnerabilità, esegue uno script PHP insieme a servizi senza nome che lo spam mira a ottenere l'accesso remoto ai loro sistemi. HILDACRYPT utilizza estensioni di file che normalmente non vengono sottoposte a scansione come .vbox per eludere l'ispezione e il rilevamento da parte di firewall o servizi di sicurezza della posta elettronica. Una volta concesso l'accesso, accederà dopo l'orario di lavoro ed eseguirà un file batch attraverso PsExec su tutta la rete per farlo "diventare boom". O in parole meno drammatiche, "per far funzionare Hilda su tutta la rete"; stesso mal di testa causato da artisti del calibro di WannaCry, NotPetya e SamSam ransomware, un'ondata di attacchi che non si è verificata 3 anni fa. Dato che gli amministratori tendono ad avere accesso a più unità ea volte capacità di lettura / scrittura sugli endpoint tramite ruoli del gestore degli accessi, sfruttarli è fondamentale alla missione.
Una volta che i sistemi sono compromessi, non esfiltrano i file e vendono i dati come fanno alcuni, semplicemente impostano la domanda e attendono. Inizialmente, ti è stato chiesto di guardare la serie Hilda su Netflix, unirti al loro server discord per il supporto, quindi pagare un importo di dollari in bitcoin (un modo popolare per soddisfare la domanda).
Come evitano di essere scoperti?
Nascondersi in bella vista è il modus operandi per gli hacker di tutto il mondo. Twig e il resto della cella usano la crittografia attraverso una rete privata virtuale (VPN) per evitare l'ispezione e il rilevamento da parte delle agenzie russe. Da lì HILDACRYPT si collega a un server proxy "antiproiettile" in Svezia per stabilire una connessione al tuo ufficio. Ciò maschererà la loro posizione reale e supererà i filtri IP geografici impostati per bloccare le connessioni russe o cinesi. Se per qualsiasi motivo le autorità locali venissero a conoscenza delle sue attività e venissero a metterlo in discussione, una bustarella di meno di 1000 rubli dovrebbe garantire che non tornino per una visita di controllo. In molte parti dell'Europa orientale (in particolare la Romania), può essere noto chi è un hacker e la polizia in quelle città fa parte delle infrastrutture per proteggere questo settore locale da cui la comunità beneficia.
Qual è l'intento?
La cosa unica di questo gruppo è che i soldi guadagnati dalle loro avventure non vengono spesi in viaggi fantasiosi o auto sportive. Viene salvato per eventualmente acquistare altro codice sorgente ransomware. Per quanto temiamo che HILDACRYPT abbia l'ambizione di diventare un potente ransomware, l'ambizione di Twig è quella di acquistare il codice sorgente come un oggetto da collezionare, proprio come uno collezionerebbe carte da baseball o libri rari. Nel loro caso, si tratta di una partenza da altre "bande" di ransomware che cercano di costruire un business sostenibile (Cerber con Ransomware-as-a-Service) o di costruire ricchezza e andare in pensione (GrandCrab).
In un altro atto interessante accostato alla tradizionale immagine da criminale incappucciato di un hacker, il team di HILDACRYPT ha recentemente rinunciato ai codici di decrittazione a tutte le versioni di HILDACRYPT e NotSTOP (una variante ransomware costruita dallo stesso Twig). Perché? In un ritorno all'hacking degli anni '90, è stato ottenere notorietà tra coloro che lo conoscono, come quando le persone erano solite abbattere il sito web dell'FBI. Ha detto che l'ultima mossa è stata quella di "inventare" alcune persone che conosceva. Come un gioco di gatto e topo con artisti di graffiti che producono tag migliori di quello accanto a loro, questi artisti digitali si stanno usando a vicenda per la motivazione e i Bitcoin (che in seguito sono stati riciclati in Dash) che raccolgono e l'attenzione che ottengono è il loro stick di misurazione .
Quindi, con le chiavi di tutte le versioni precedenti rilasciate, non aspettatevi che vengano completate. Il team sta attualmente lavorando su un bootlocker per alimentare il loro ransomware come si vede nella famigerata varietà di ransomware Petya, una versione che Twig può facilmente hackerare. Ciò crittografa i file di sistema e il Master Boot Record (MBR) di Windows, rendendo quasi impossibile l'avvio del sistema operativo.
Quindi cosa dice che possiamo fare per fermare gli aggressori come lui?
Prima di tutto, dice di "usare password adeguate". Ha detto che molte password sono scritte da pazzi o pigri. Molti di loro sono troppo semplici e sono spesso indovinati dai suoi script. La sua storia preferita è stata quando ha trovato una password tra due virgolette. Immagino che l'amministratore abbia pensato che fosse troppo semplice da indovinare. Bene, ha sbagliato e ha dovuto pagare per questo.
In secondo luogo, ha detto, "scrivi i tuoi programmi in un vero linguaggio di programmazione". Ha detto che i veri programmatori scrivono in C o C ++ e Java o PHP è per i più pigri e stupidi. Quando vede programmi scritti in Java, sente di avere a che fare con un individuo non qualificato e quindi un bersaglio facile.
In terzo luogo, getta ombra sugli americani e sui lavoratori tecnologici di età superiore ai 35 anni o a causa della sua convinzione nella loro mancanza di competenze moderne o energia per il lavoro in modo corretto. Dice di assumere personale qualificato in grado di programmare e comprendere anche la sicurezza. Se fosse incaricato di assumere presso la tua azienda e non discriminasse per età o nazionalità, assumerebbe persone che possiedono qualifiche in C o C ++ e hanno l'energia per seguire le migliori pratiche di sicurezza.
In quarto luogo, sottolinea che i firewall non configurati correttamente sono il suo migliore amico. Nelle sue parole "Symantec è uno scherzo" perché "non dovremmo essere in grado di disinstallarlo dal computer". Nel caso dei firewall di rete, la configurazione errata può essere eseguita facilmente e può essere la caduta di uno. Succede più di quanto pensi. In secondo luogo, nel caso di firewall endpoint come Symantec, gli utenti finali dovrebbero essere soggetti al principio del privilegio minimo (POLP), il che significa che avranno i diritti sufficienti per svolgere il proprio lavoro e senza la possibilità di modificare i propri endpoint. Nel 2016, Microsoft ha riferito che il 94% delle vulnerabilità critiche può essere mitigato rimuovendo i diritti amministrativi dagli utenti.
Guarigione della spaccatura
Quindi quali sono gli obiettivi della vita di Twig? Per quanto tu lo noti per la sua ricerca di sviluppare ransomware migliori e più forti e di raccogliere varie famiglie di codici sorgente, la sua ambizione è di lavorare per una società di sicurezza come ingegnere inverso. Ciò potrebbe allarmare alcuni di voi, ma molti ingegneri che lavorano nell'ambito dei tester di sicurezza e penetrazione (cappelli bianchi AKA) sono ex "cappelli neri". È molto comune per loro affinare le loro abilità creando il caos solo per usarle per il bene più grande. Dal momento che sanno come hackerare, sanno difendere. Nel football americano, alcuni dei migliori cornerback una volta erano ampi ricevitori. Sapere come funziona l'attaccante è essenziale per proteggere le organizzazioni. Questo è il motivo per cui molte aziende tecnologiche e persone in cerca di lavoro hanno adottato una politica di non chiedere in merito.
Inoltre, dopo aver chiacchierato con Twig nel corso di più di una settimana, è molto chiaro che la visione del mondo sulla Russia influisce su come si sentono e fa male. Ricorda che le persone ferite vogliono ferire le persone. Una ricerca su YouTube su come i russi provano per gli americani e l'Occidente ti mostrerà questo dolore.
Le persone che hanno menti affamate e spiriti attivi vogliono mettere alla prova i confini delle regole dell'universo. Quando esistono blocchi legali, culturali o politici, è la loro natura trovare un modo per aggirarli. L'hacking è l'essenza stessa di fare proprio questo. Nel caso della popolazione dell'ex Unione Sovietica (non solo la Russia) sono altamente qualificati in matematica e hanno una storia culturale nelle ultime 4 generazioni di ingegneria inversa di tutto ciò che viene in loro mano. Dopo anni di sanzioni economiche, hanno imparato a trascendere gli oggetti nelle loro mani per trovare altri scopi per loro. Alcuni chiamano questa disobbedienza tecnologica (ben documentata a Cuba negli ultimi tempi) ma questo è l'hacking al suo interno, una disciplina preziosa.
Il termine "hacker" è oggi un termine peggiorativo, ma originariamente era usato per le persone che hanno iniziato il Tech Model Railroad Club iniziato nel 1946 con lo scopo di capire come funzionavano i segnali e i circuiti ferroviari. Steve Jobs è adorato nella Silicon Valley ma conoscevi lui e il suo co-fondatore della Apple Steve Wozniak (espulso da U of Colorado Boulder nel 1969 per l'hacking) per la prima volta ha costruito "blue box" nel 1972 per generare toni da hackerare in modalità operatore per ottenere telefonate interurbane gratuite.
In alcuni casi, gli "hacker" contro cui stiamo combattendo sono molto malvagi. Sono disposti a rischiare la vita di un paziente per il ransomware di un dispositivo medico o di un database di record. In alcuni casi non lo faranno, alcuni vogliono mettere alla prova i confini, altri vogliono misurarsi con i loro coetanei, alcuni vogliono il rispetto del mondo e molti di loro vogliono anche un modo legittimo per guadagnarsi da vivere.
Sfortunatamente per coloro che vogliono guadagnarsi da vivere legittimamente (tenere presente che gli autori di malware fanno parte della minoranza dei programmatori), ci sono due sfide. Innanzitutto, aprire una filiale in alcuni luoghi come Mosca o San Pietroburgo è una sfida politica. Se non hai accesso diretto a talenti di alto livello, potrebbe essere difficile indurli a lavorare per te. In secondo luogo, la fiducia è dovuta a un pregiudizio culturale. Quora è piena di domande che si chiedono se le persone possano fidarsi dei programmatori dell'Europa orientale.
Potresti non voler aprire un ufficio in Moldavia o in Bulgaria, ma puoi assumere persone dalle ex terre sovietiche attraverso diverse piattaforme. Secondo quelli che sanno, ci sono grandi programmatori dalla Bielorussia all'Ucraina e in genere un membro dello staff a tempo pieno potrebbe costare all'organizzazione circa $ 2-3K al mese per un programmatore C ++ qualificato e $ 1,2-2,2K per uno sviluppatore web. Naturalmente, la fiducia è un problema per chiunque lavori in remoto che non conosci completamente. Una fonte ha espresso quattro buoni consigli quando si tratta di costruire la fiducia con uno sviluppatore del contratto.
Non condividere mai la base di codice completa, ospitarla su GitHub o Bitbucket e dare accesso limitato allo sviluppatore.
Su AWS, utilizzare Team Foundation Server (TFS) per fornire report sulla gestione del codice sorgente e project management, che può anche essere migliore per i manager con un background tecnico inferiore.
Utilizzare sempre il software di gestione del progetto (PM).
Richiedi sempre il codice non elaborato alla fine di un progetto insieme a tutti i file .dll.
Per coloro che stanno assumendo, la Russia (e altre regioni politicamente impegnative) ha prodotto una nazione di persone mentalmente affamate e di talento che vogliono lavorare e risolvere problemi difficili. Questo è il luogo che ha messo il primo essere umano nello spazio, ha inventato il raffreddamento degli elettroni e una serie di innovazioni militari che rappresentano anni di genio umano che potrebbero essere stati spesi meglio in ricerche pacifiche. In una nazione in cui i medici guadagnano meno di $ 100.000 all'anno, impiegare persone con il know-how e l'energia per fare il giusto tipo di lavoro può avere senso anche se politicamente è una sfida. Se papa Francesco potesse abbracciare Bartolomeo, il patriarca di Costantinopoli nel cuore di Roma, avremmo la capacità di "hackerare" la nostra idea preconcetta delle persone che ci circondano, la qualità del nostro lavoro e il modo in cui proteggiamo le nostre organizzazioni. Se forniamo alle persone l'opportunità di trovare il successo attraverso l'onestà, lo prenderanno. Quando sono presenti blocchi culturali o politici, le persone ricorrono alla pirateria e ai guadagni illeciti.
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dorianpavlov-blog · 7 years
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                      ┊𝖨’𝗆 𝖧𝖾𝗋𝖾;                          ➘                    — 𝒮𝑒𝑜𝓊𝓁, 𝒮𝑜𝓊𝓉𝒽 𝒦𝑜𝓇𝑒𝒶                   ( 𝟣𝟪.𝟢𝟩.𝟤𝟢𝟣𝟩 — 𝑜𝓇𝑒 : 𝟢𝟣:𝟥𝟩 )                                   Aleksandr gli aveva posto dinnanzi un grattacapo che, sin da subito, si presentò essere totalmente privo di senso. Seppur, poi, un senso lo avesse eccome. Semplicemente, era stato così meticoloso da non lasciare alcuna traccia se non quelle desiderate. Strade sorvegliate alternate poi da altre totalmente prive di telecamere, fu l'enigma che Dorian dovette risolvere. Quel bastardo era stato così geniale da imboccare ogni possibile percorso secondario, affinché i filmati manipolati si potessero contare sulle dita d'un paio di mani — eppure, si trattava di un piano così ben escogitato che Dorian non poté fare a meno di esserne affascinato. Fu come rimettere insieme piccoli tasselli di quello che si rivelò essere un puzzle vasto quanto la città di Seoul. Ricorrere a tutta la logica di cui era munito, con una buona dose di perseveranza, fu quel che gli permise di venire a capo dell'intera vicenda.
   Gli pneumatici della Maserati divorarono a gran velocità l'asfalto di quelle strade che, già in precedenza, la mente di Dorian aveva dovuto ripercorrere con il solo ausilio di quei filmati ceduti, inconsapevolmente, della sicurezza di cui era dotata Seoul. Distretto dopo distretto, ChangHyun era stato in grado di hackerare il sistema di ogni stazione di polizia, affinché ogni singola telecamera fosse a loro servizio. Fu un impresa ardua e Dorian, comprese ben presto, che fu esattamente ciò che Aleksandr aveva architettato nei lunghi giorni di totale silenzio. Decisamente all'opposto dei giorni in cui il russo era stato costretto ad evitare qualsiasi bisogno primario, affinché un solo secondo non venisse sprecato; veloci pasti e minuti rubati dal corpo affinché potesse recuperare un po' di quelle energie esaurite, fu tutto ciò che si concesse.
   Jonah aveva ceduto il posto d'autista ad un ChangHyun smanioso di entrare in azione; le sue condizioni erano ben diverse da quelle di Dorian che, invece, se ne stava seduto sui sedili posteriori con lo sguardo rivolto verso l'area circostante. Con la mente invasa da pensieri che la rabbia si dilettava a tramutare in immaginarie opere d'arte in cui il rosso cremisi primeggiava, osservava gli edifici urbani venir sostituiti da file confuse di imponenti alberi a costeggiare quelle strade appena fuori Seoul. L'oscurità della notte a rendere quell'ambiente quasi tetro, gli trasmetteva un senso di morte che non faceva altro se non accrescere il già di per sé notevole desiderio di vendetta. Ma avrebbe salvato YoungHae e, soltanto dopo essersi accertato che lui stesse bene, si sarebbe premurato di creare l'inferno personale di Aleksandr.
   Quel pensiero divenne molto più vivido, nell'esatto momento in cui la corsa della Maserati si arrestò dinnanzi ad una fabbrica abbandonata. Dorian osservò il perimetro da dietro il vetro scuro del finestrino, prima che i primi passi venissero mossi sul terriccio affatto curato a circondare quell'inquietante e decadente struttura. ChangHyun gli era alle spalle, a qualche metro di distanza. Era stato chiaro, Dorian, che aveva permesso al coreano soltanto di accompagnarlo. Quella storia era iniziata a causa sua e sarebbe stato solo e soltanto lui a porne fine.
   La rabbia cieca a montargli nel petto gli rese possibile assassinare i due uomini a far da guardia all'entrata con una freddezza tale da far raggelare il sangue nelle vene a chiunque. Dalla volata della sua GSh18 rigorosamente russa vennero fuori circa una decina di proiettili, quasi non bastasse soltanto strappar la vita, quasi volesse portar via qualcosa di molto più importante a quei bastardi che, a loro volta, gli avevano strappato l'unico barlume di luce presente nella sua vita. Avevano macchiato con del sangue la purezza di YoungHae e ne avrebbero pagate le conseguenze, uno dopo l'altro. Varcò la soglia di quella fabbrica il cui unico arredamento non erano altro se non inquietanti bambole di porcellana mai portate a termine e dei grandi tavoli accantonati contro le pareti. Sembravano osservarlo con quegli occhi vuoti, privi di vita, ma Dorian era troppo occupato a dar voce all'arma che reggeva, per potersene interessare. Un corpo dopo l'altro, ogni singolo russo a presiedere nelle stanze principali dell'edificio cadeva quasi non fossero altro che carte di domino il cui unico intento era di indicargli la strada giusta da imboccare. I passi erano precisi, lo sguardo simile a quello di una bestia preda di una logorante furia omicida; nemmeno si degnò di scrutare le chiazze di sangue che ormai costellavano la camicia bianca, un tempo, immacolata. Il perfetto accostamento alla sua anima che, soltanto qualche anno prima, non avrebbe mai creduto si potesse macchiare con del denso rosso cremisi.
   Non appena fece capolino in un lungo corridoio del secondo piano, Dorian, comprese che fosse vicino. Fu una sensazione a livello viscerale quella che lo colse quando si palesò dinnanzi a lui un ennesimo uomo dai lineamenti palesemente occidentali. Le labbra di Dorian si piegarono in un sorriso quasi maniacale, diabolico, nell'esatto momento in cui puntò la GSh18 direttamente al petto altrui. Un altro proiettile partì senza il minimo indugio, ponendo fine all'ennesima vita. Spalancò le porte a cui egli faceva da custode con l'ausilio del piede destro, senza mai riporre l'arma ancora ben alta e retta con ambe le mani. Era pronto a qualunque cosa, Dorian, ma non di certo a quello che i suoi occhi catturarono in quella stanza buia le cui pareti erano impregnate dal dolore.
   Le ferite da taglio non erano troppe, Alek era stato tanto crudele da riaprire sempre le stesse non appena davano anche solo l'idea di essere troppo asciutte dal sangue vivo, per assicurarsi che, oltre che nella mente, i ricordi potessero restare su quel corpo come promemoria di quanto era accaduto, non certo per il coreano quanto per Dorian, se mai fosse riuscito a sopravvivere ancora una volta. Topo di fogna, scarafaggio immortale, l'odio nei suoi confronti era stato riversato su YoungHae nella forma più cruda e spietata che il coreano avesse mai avuto modo di conoscere. Forse fu a causa dell'eco di quelle pareti che giocavano ad ingigantire i suoni per renderli piacevoli alle orecchie del suo aguzzino, che un suono molto simile ad un boato squarciò il silenzio del riposo a cui il coreano, piano, stava per lasciarsi andare. Per lo spavento, il petto cominciò a tremare come non aveva ancora fatto neanche per l'umidità infiltratasi nelle ossa dolenti; la figura di Alek si spostò con noncuranza per lasciargli la visuale sfocata ed indefinita delle porte che si aprivano per permettere a Dorian di entrare, ed andò a posizionarsi proprio dietro di lui.
‹‹ Credevo arrivassi un po' più in fretta, ma devo ammettere che ammazzare il tempo è stato più divertente del previsto, Dorian. ››
   Sulla pronuncia di quel nome, la mano di Alek si attorcigliò fra i capelli del coreano sostituendo il sospiro di sollievo che gl'era sfuggito con l'ennesimo gemito di dolore. Egli si ergeva alle spalle della sua maestosa quanto diabolica opera d'arte e istigava senz'altro Dorian a dare il peggio di sé, in quella stanza la cui unica luce proveniva da una finestra situata sul soffitto. L'assenza di sonno lo portava ad essere privo di alcuna lucidità, l'attesa lo aveva reso impaziente e scorgere la figura di Hae in quelle condizioni accresceva la rabbia già di per sé notevole.
‹‹ Ti conviene allontanarti rapidamente da lui, se non vuoi perdere l'uso delle mani. ››
   Le parole colarono via dalle labbra del russo affilate quanto una lama, velenose quanto il peggiore dei veleni. I denti vennero digrignate ed esse, non poterono fare altro se non venir fuori con tono rauco, del tutto rabbioso. Non smise mai di puntare la pistola su quella figura che aveva portato YoungHae ad abbandonarsi totalmente sulla sedia. Avanzò cauto, lasciando che la suola delle scarpe finisse, inevitabilmente, per sporcarsi del sangue di YoungHae riversato sul pavimento in quantità drastiche. Tentava di non soffermarsi su quella figura sofferente, Dorian. Tentava di rimanere concentrato su Aleksandr per non dover fare i conti con l'emicrania che premeva pur di venir considerata, segno che dei ricordi stessero grattando la superficie; volevano essere ascoltati, volevano rivelare a Dorian qualche altra amara verità sul suo passato. Ma in quel momento, se soltanto si fosse lasciato andare ad essi, tutto sarebbe andato perduto, YoungHae incluso. Non poteva permettere che accadesse, non poteva permettere che il suo aguzzino la passasse liscia.
‹‹ Come ti senti? A sapere che questo ragazzo farà la stessa fine del nostro caro Edvard. E tutto per colpa tua. L'ho ridotto così male che sarà maledettamente felice di morire— non è forse così, sladkiy? ››
   Dorian non sapeva, o meglio, non ricordava. Non ricordava il motivo per cui Aleksandr provasse tanto astio nei suoi confronti. Non comprendeva l'odio malcelato in quegli occhi profondi quanto un burrone. Non comprendeva perché quelle mani si divertissero a torturare un ragazzo innocente come YoungHae. Non comprendeva perché provasse piacere nel fargli assistere a quella morte. Desiderava così tanto venire a capo di quella storia, Dorian e sapeva che la soluzione si trovava nell'oceano di ricordi perduti.
‹‹ Credi che Edvard sia morto per caso, Dorian? Credi che quel sicario fosse lì per ammazzarti? La verità è che sapevo perfettamente sarebbe venuto da te. Gli ho semplicemente messo la pulce nell'orecchio; sapere che qualcuno volesse ucciderti lo ha reso irrequieto e, senza il minimo sforzo, è caduto nella mia trappola. Due piccioni con una fava: eliminare un traditore della nostra famiglia e recarti sofferenza. Avrei voluto assistere soltanto per vedere la tua espressione, in quel momento. ››
   Un sorriso beffardo quanto compiaciuto apparve sulle labbra di Aleksandr che senza alcuna pietà, continuava a tormentare l'animo di Dorian che intanto avanzava rapidamente verso di loro, verso YoungHae. Non distoglieva mai lo sguardo da quell'aguzzino, quasi temesse potesse ribellarsi da un momento all'altro.
‹‹ Ho sempre pensato che in fin di morte, le persone tentassero disperatamente di espiare i loro peccati. E' ciò che stai tentando di fare anche tu, Aleksandr? Perché se è così, non mi interessa. Finirai all'inferno, mi assicurerò personalmente che ciò accada. ››
   Ne approfittò nel momento stesso in cui Aleksandr fece per allontanare i capelli di YoungHae dalla sua ferrea morsa. Un solo passo verso destra dell'uomo e l'ennesimo proiettile abbandonò la volata dell'arma nelle mani di Dorian. Aveva fatto male i conti, Aleksandr, s'era convinto che il suo nemico non avesse desiderio di farlo morire istantaneamente. Fu così meticoloso nel piantargli un colpo nella coscia destra che egli, inevitabilmente, si accasciò sul pavimento l'istante successivo. Segno che fosse abituato, esattamente come Dorian, al dolore, non fuoiuriscì un solo suono da quelle labbra che bramavano, tremolanti, di riversare sul connazionale ogni tipo di veleno e insulto. Peccato che egli stesso avesse con sé una pistola e Dorian scansò quel proiettile davvero per un soffio; non appena si rese conto delle intenzioni altrui, rotolò sul pavimento, facendosi scudo di quelle maledette bambole a costeggiare il perimetro delle pareti.
   Con una velocità disarmante, e ponendo la minima attenzione a non ferire ulteriormente YoungHae, tra quelle pareti avvenne uno scontro d'armi da fuoco in cui soltanto uno, ne sarebbe uscito vincitore. Aleksandr nonostante fosse chiaramente ferito, continuava a dar voce alla sua pistola, almeno, fino a quando alle spalle di Dorian le porte non si spalancarono una seconda volta. Fu inevitabile per quest'ultimo volgere lo sguardo in quella direzione. Per un momento temette che potesse trattarsi di qualche russo scampato alla sua GSh18, eppure, si rese conto ben presto che non fosse altro se non un ChangHyun preoccupato per quell'attesa — al suo seguito almeno cinque uomini pronti a sparare. Stavolta furono le labbra di Dorian a curvarsi in un sorriso totalmente compiaciuto.
‹‹ Mi avevi detto di restare in auto.. ma ci stavi impiegando troppo, Dorian. Mi dispiace, ma non ho potuto resistere. ››
   Tornò in piedi, Dorian; si premurò persino di sistemare la camicia ormai sgualcita, oltre al recuperare stille di sangue sulla spalla destra con l'ausilio del pollice destro — evidentemente uno dei tanti proiettili a danzare in quella stanza, lo aveva mancato davvero per poco. Poi, con una calma impeccabile, puntò lo sguardo su un Aleksandr in evidente difficoltà. L'espressione altrui denotava quanto fosse spaventato dai suoi unici calcoli inesatti e dall'errata supposizione che Dorian si sarebbe recato in quella fabbrica totalmente solo. In preda al panico, tentò disperatamente di terminare il lavoro iniziato; eppure non appena l'arma di Alek venne puntata al capo del coreano ch'era stato privato delle sue forze e non solo, Dorian agì d'impulso. L'ennesimo colpo, un ultimo proiettile a sferzare l'aria, e la mano altrui venne colpita sul dorso affinché la vita di YoungHae fosse salva. Ringhiò, Alek, vide sul suo volto una rabbia simile a quella che covava lui stesso. Come ogni topo che si rispetti, egli non vi impiegò poi molto per abbandonare la stanza mediante una porta adiacente a quella da cui era entrata Dorian. Bastò un solo cenno del capo prima che ChangHyun e i suoi uomini lo seguissero.
   A quel punto, finalmente soli, Dorian si poté occupare di YoungHae. Gli si avvicinò in gran fretta, lasciando che l'arma, colpevole di aver strappato fin troppe vite in un giorno solo, con un tonfo, cadesse sul pavimento. Oltre ogni previsione, il giovane era ancora cosciente, tanto che un sospiro gli sfuggì dalle labbra martorizzate. Per chissà quale astruso motivo, Hae si sentì in dovere di tranquillizzare l'altro e con un piccolo sforzo costrinse la sua bocca in quello che desiderava fosse un sorrisetto compiaciuto, ma che si rivelò essere più simile ad una smorfia. Il respiro difficile e pesante ed il sapore del sangue sulla lingua erano davvero insopportabili, al punto che il più grande avrebbe realmente fatto di tutto per cancellare entrambe le cose, ma un po' di forza di volontà gli permise di mandare giù un doloroso groppo di saliva, prima di masticare parole.
‹‹ Te lo avevo detto, mh? Io...ero già dentro. ››
   Ben consapevole che quelle parole non erano state pronunciate con astio, con odio, quanto in realtà con un tono che voleva sembrare totalmente soddisfatto, Dorian non poté fare a meno di piegare le labbra in sorriso che sapeva d'amarezza. Tutto ciò che aveva desiderato non potesse mai accadere, aveva preso forma, s'era plasmato ed adesso era proprio dinnanzi ai suoi occhi. Libero il ragazzo dalle corde che lo tenevano bloccato su quella sedia; lo fece con una delicatezza tale da non recargli ulteriore dolore, seppur sapesse quanto difficile fosse.
‹‹ Eri già dentro, ma sono stato soltanto troppo ottuso per ammetterlo. ››
   YoungHae era ormai privo di sensi, Ciò nonostante percepì l'impellente desiderio di proferire tali parole. Probabilmente fu un vano tentativo di placare i sensi di colpa che gli attanagliavano le viscere. O, semplicemente, un ‘mi dispiace’ mancato. Uno di quelli che mai avrebbe proferito, nemmeno in quel caso, ma le cui parole venivano plasmate affinché assumessero lo stesso significato agli occhi degli altri.    
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boostics · 4 years
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AOC detiene ora il primato mondiale per monitor dedicati al gaming
AOC detiene ora il primato mondiale per monitor dedicati al gaming
Nonostante una concorrenza spietata e un mercato per nulla facile, AOC è riuscita a diventare, nel 2019, la prima compagnia al mondo nel settore dei monitor dedicati al gaming.Da una statistica IDC emerge che i monitor dell’azienda, prodotti da TPV e poi distribuiti sotto il marchio AOC appartenente alla stessa TPV Technology Limited, detengono il primato per quote di mercato globali e la…
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quellodiarte · 4 years
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I disastri della ragione
La critica di #Goya all'illuminismo francese è spietata e lo si vede nella fucilazione. Per lui i francesi di #Napoleone sono invasori tuttavia il male portato dal sonno della ragione è un malattia che affligge ogni essere umano. #romanticismo
La critica di Goya all’illuminismo francese è spietata e lo si vede nella fucilazione. Per lui i francesi di Napoleone sono invasori tuttavia il male portato dal sonno della ragione è un malattia che affligge ogni essere umano.
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IL PASSO INDIETRO DI STALIN
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IL PASSO INDIETRO DI STALIN
All’alba del 22 giugno 1941, oltre tre milioni di soldati tedeschi, organizzati in 148 divisioni, schierate su di un fronte di quasi tremila chilometri dal Mar Baltico al Mar Nero, erano in attesa dell’ordine di attacco. La forza d’urto era garantita da 7184 pezzi d’artiglieria, 3580 mezzi corazzati e circa 2700 aerei, la mobilità da 600.000 autocarri e da 650.000 cavalli. Dall’altra parte del confine, in territorio sovietico regnava la calma. Quella notte l’espresso Mosca-Berlino ed un treno merci che trasportava grano diretto ai magazzini tedeschi erano partiti in perfetto orario. A Mosca così come nelle città di confine i concerti e le rappresentazioni teatrali in programma per quella calda serata d’estate si erano svolti regolarmente.
Tra le 4 e le 4,30 del mattino, ora di Mosca, le artiglierie tedesche aprirono il fuoco lungo tutto il fronte, la Luftwaffe si avventò sui campi d’aviazione sovietici, distruggendo un gran numero di velivoli ancora ricoverati negli hangar oppure schierati in formazione da parata ai margini delle piste; le città di Kovno, Minsk, Rovno, Odessa, Sebastopoli, così come la base navale di Libava sul Baltico, furono sottoposte a pesanti bombardamenti. Lo stesso giorno, 129 anni prima, Napoleone aveva attraversato la frontiera russa dirigendo le sue armate verso Mosca.
Al centro Stalin tra il commissario agli Esteri Molotov ed il maresciallo Vorošilov
Le 170 divisioni dell’Armata Rossa schierate lungo i confini, forti di oltre due milioni e mezzo di uomini, si mostrarono incapaci di reagire, paralizzate dalla sorpresa e dalla mancanza di ordini.
Mentre tuonavano i cannoni e sibilavano le bombe, Stalin dormiva profondamente nella sua dacia di Kuntzevo alle porte di Mosca. Si era trattenuto fino a tardi al Cremlino cercando di interpretare i segnali inquietanti che negli ultimi giorni erano giunti dalle regioni di frontiera e persino dal cuore stesso della capitale. Le donne ed i bambini presenti nell’ambasciata tedesca erano stati frettolosamente rimpatriati. I documenti riservati dell’ambasciata erano stati bruciati generando una densa colonna di fumo biancastro che era stata notata dai vigili del fuoco moscoviti. Il 20 giugno numerose navi mercantili tedesche erano salpate dal porto di Riga, molte di esse senza aver neppure scaricato le loro merci sulle banchine. I voli di ricognizione della Luftwaffe in territorio sovietico, già frequenti, si erano moltiplicati esasperando il maresciallo Timošenko, commissario del popolo alla Difesa, che da settimane, se non da mesi, tentava, senza successo, di convincere Stalin dell’imminenza dell’attacco tedesco. Sfidare apertamente le convinzioni del tiranno era un esercizio estremamente pericoloso che poteva costare la vita anche ad un maresciallo o ad un commissario del popolo. I precedenti per indurre anche i più temerari alla cautela non mancavano. I vertici militari avevano già versato un pesante tributo di sangue alla diffidenza paranoica di Stalin.
Nel maggio del 1937 uno dei più brillanti e dinamici ufficiali dell’Armata Rossa, il maresciallo Tuchačevski, che si era impegnato nella creazione di forze meccanizzate, attirandosi le critiche velenose dei conservatori, era stato arrestato con il pretesto che il suo nome era stato citato nella confessione di alcuni “traditori” incarcerati nei mesi precedenti. I sospetti che Stalin nutriva fin dai tempi della guerra civile verso un ufficiale intraprendente, ambizioso e carismatico come Tuchačevski si erano rafforzati in seguito all’accusa, sussurrata dai marescialli Vorošilov e Budënnyj, intimi amici del tiranno, secondo cui dietro l’ammirazione per la meccanizzazione dell’esercito tedesco poteva celarsi il tradimento. A soffiare sul fuoco dei sospetti avevano contribuito anche i servizi segreti nazisti, determinati a sfruttare ogni occasione propizia per disarticolare i vertici dell’Armata Rossa. Attraverso l’ambasciata sovietica a Praga, Heydrich, capo del servizio informazioni delle SS, aveva fatto pervenire a Stalin false prove contro Tuchačevski. Tali prove contraffatte tuttavia non erano state utilizzate, in quanto la diffidenza del tiranno contro il maresciallo ed i vertici militari era già ben radicata e non necessitava di riscontri documentali. Le periodiche purghe del regime nascevano prima di tutto nella mente patologicamente sospettosa di Stalin e poi si ingigantivano grazie alle confessioni degli imputati sino ad assumere dimensioni così vaste da essere svincolate da qualsiasi legame con la realtà.
Per misurare la distanza tra l’ammirazione ed in tradimento, Stalin aveva ordinato alla polizia politica prima di compromettere il maresciallo con la testimonianza di alcuni controrivoluzionari già rinchiusi alla Lubjanka e poi di torturarlo. A dispetto di ogni verosimiglianza, Tuchačevski aveva confessato di essere un agente al soldo della Germania, in combutta con Bucharin per la conquista del potere. Il suo reclutamento era stato fatto risalire al 1928 ad opera di Enukidze, un vecchio bolscevico come Bucharin, ormai smascherato come nemico del popolo.
La verosimiglianza non era in cima alle preoccupazioni di Stalin. Al contrario, per placare, almeno temporaneamente, le sue ossessioni sanguinarie gli occorreva che i più disparati nemici dell’Unione Sovietica, cioè del suo personale potere, risultassero uniti da un solo tentacolare disegno eversivo. La logica e l’evidenza dovevano essere sacrificate senza esitazioni per costruire una realtà fantasiosa in cui tutti i traditori erano coalizzati contro il “paradiso” socialista edificato e protetto dal compagno Stalin.
Sulle pagine della deposizione di Tuchačevski, conservata negli archivi, compaiono alcune macchie marroni: gli esami condotti hanno rivelato che si tratta di sangue schizzato in seguito a colpi inferti con un oggetto contundente. Metodi investigativi così brutali consentivano di estendere oltre ogni limite la schiera dei traditori. Ad ogni confessione estorta a colpi di manganello corrispondeva un elenco di complici insospettabili che a loro volta svelavano altre trame e fornivano nuove vittime ai torturatori ed ai carnefici. Nessuno, eccetto Stalin, poteva bloccare un meccanismo così inesorabile che si autoalimentava divorando il popolo sovietico a cominciare dalla sua classe dirigente e facendo il vuoto attorno al tiranno, un vuoto da riempire con uomini disposti alla più cieca obbedienza ed allo scrupoloso rispetto della regola: ugadat, ugodit, utselet; intuire, accontentare, sopravvivere.
  Il maresciallo Budënnyj
Il 1° giugno 1937 Stalin aveva convocato al Cremlino un centinaio di comandanti militari per comunicare loro la sconvolgente notizia che l’alto comando era in gran parte costituito da agenti al servizio di Hitler. A dimostrazione della vastità della cospirazione politico-militare di matrice fascista alcuni alti ufficiali erano stati arrestati al termine di quella stessa riunione. Il 12 giugno Tuchačevski era stato fucilato protestando in extremis la propria innocenza e la propria fedeltà a Stalin. Nei mesi seguenti la stessa sorte era toccata a molti altri ufficiali superiori: 13 generali d’armata su 15; 8 ammiragli su 9; 50 generali di corpo d’armata su 57; 154 generali di divisione su 186; 16 commissari d’armata su 16; 25 commissari di corpo d’amata su 28. Tra la primavera del 1937 e l’autunno del 1938 almeno 30.000 ufficiali su di un totale di 178.000 erano stati arrestati, molti di essi, il cui numero esatto è ancora oggi sconosciuto, erano stati giustiziati. Dei cinque marescialli dell’Armata Rossa all’epoca in servizio erano sopravvissuti alla purga soltanto due: Vorošilov e Budënnyj, entrambi strenui difensori delle cariche di cavalleria ed estimatori dei treni blindati contro l’idiozia delle divisioni corazzate invocate da Tuchačevski.
I due marescialli superstiti non brillavano per la loro competenza professionale, in compenso non avevano rivali nel dimostrare a Stalin una fedeltà canina. Provenivano dalle file del proletariato, Vorošilov era entrato in fabbrica a quindici anni, Budënnyj aveva dissodato i campi ed in seguito era stato arruolato nella cavalleria zarista. Durante la guerra civile avevano dato prova di spirito di iniziativa nell’organizzare le forze bolsceviche, nonché di coraggio sui campi di battaglia. Nel 1918 a Tzaritzyn, la futura Stalingrado, avevano conosciuto Stalin, appena nominato da Lenin commissario con ampi poteri per strappare la regione del Basso Volga ai controrivoluzionari. Il georgiano aveva inaugurato il suo incarico ordinando la fucilazione di tutti i sospetti traditori nelle file bolsceviche. Vorošilov e Budënnyj avevano appoggiato con entusiasmo la sua spietata determinazione e da allora non avevano più smesso di assecondarlo prontamente in ogni sua decisione, traendone crescenti benefici in termini di carriera. Aver condiviso con Stalin gli anni eroici della guerra civile conferiva ai due alti ufficiali una posizione del tutto particolare all’interno dell’Armata Rossa. I loro invidiati privilegi consistevano nella familiarità con il tiranno, a cui si rivolgevano chiamandolo per nome e patronimico, Iosif Vissarionovic, ed in una certa libertà di parola. Almeno in un’occasione Vorošilov aveva abusato del privilegio alla franchezza concesso ai vecchi compagni, spingendosi temerariamente sino ai limiti dell’insubordinazione. Durante la campagna contro la Finlandia aveva respinto i rabbiosi rimproveri di Stalin per gli umilianti insuccessi riportati dall’Armato Rossa urlandogli in faccia: “Devi prendertela con te stesso per quanto è accaduto. Sei stato tu a distruggere la vecchia guardia del nostro esercito, a far uccidere i nostri migliori generali!”. Poi aveva sfogato la rabbia a lungo repressa afferrando un piatto di portata con un maialino arrosto e lo aveva scaraventato sulla tavola mandandolo in frantumi. Un altro cortigiano avrebbe pagato con la vita un simile affronto, Vorošilov invece era stato perdonato e si era quindi sentito in dovere di ricambiare la clemenza di Stalin con rinnovato zelo servile. Rispetto alla minaccia di invasione da parte della Germania, Vorošilov e Budënnyj si erano mostrati scrupolosi e solleciti nel fare propria la visione staliniana.
Posti difronte all’evidenza dei fatti il commissario del popolo Timošenko, che aveva da poco ottenuto le spalline da maresciallo grazie alla protezione di Kruscëv, ed il capo di stato maggiore Žukov, che era scampato all’epurazione dell’alto comando per i buoni uffici di Budënnyj, avevano invece esitato ad inchinarsi alle convinzioni di Stalin. Appena pochi giorni prima dell’inizio dell’invasione nazista avevano implorato per l’ultima volta il tiranno ad ordinare lo stato di massima allerta alle truppe schierate lungo le frontiere, ottenendo non solo un rifiuto, ma anche un minaccioso avvertimento a desistere da ogni iniziativa provocatoria contro la Germania. I trasgressori della sua volontà si sarebbero macchiati di tradimento e sarebbero stati giustiziati.
Da sinistra a destra Tuchacevski, Budennyj (in piedi), Vorosilov, Bljucher (in piedi), Egorov
Stalin si era lasciato ingannare dalla presunta infallibilità del suo fiuto politico, convincendosi che Hitler non avrebbe avuto alcun interesse ad infrangere il patto Ribbentrop-Molotov prima del 1942, cioè prima di aver trionfato definitivamente sulla Gran Bretagna. Riteneva che con la spartizione della Polonia la Germania si fosse garantita la sicurezza ad est, perciò escludeva che potesse ripetere l’errore di impegnarsi in una guerra su due fronti. Soltanto un imprevedibile incidente di frontiera oppure una aperta provocazione avrebbero potuto costringere Hitler a cedere all’impazienza dei suoi generali per aprire il fronte orientale. Il tiranno georgiano aveva troppa stima del genio strategico di Hitler e soprattutto delle proprie capacità divinatorie per lasciarsi impressionare sia dai vistosi movimenti di truppe tedesche alle frontiere sovietiche, segnalati ogni giorno con maggiore apprensione da Timošenko e da Žukov, sia dai molteplici rapporti dei servizi segreti. Forse più di un centinaio di informative, talvolta molto dettagliate, sul piano di invasione tedesco avevano raggiunto il Cremlino, ma Stalin non ne aveva ritenuta attendibile neppure una, liquidandole come parte di una vasta operazione di provocazione e disinformazione volta a trascinare l’Unione Sovietica nel conflitto. Nella sua mente ossessionata dall’ombra del complotto, il regista di tale macchinazione non poteva essere che un nemico giurato del socialismo come Winston Churchill, determinato a ricorrere a qualsiasi espediente pur di alleggerire la pressione sull’impero britannico.
Già nell’estate del 1940, basandosi unicamente sulle sue valutazioni strategiche, il premier britannico aveva tramesso a Stalin la sua previsione di un imminente espansione ad est della Germania nazista. Quel primo vago avviso anziché favorire l’adozione di opportune contromisure militari, aveva generato la teoria del complotto britannico per minare l’amicizia tra Mosca e Berlino. Per allontanare da sé ogni possibile sospetto di collusione con i nemici della Germania, Stalin non aveva esitato a trasmettere all’ambasciata tedesca le provocatorie previsioni di Churchill. Nei mesi successivi, man mano che si moltiplicavano gli avvertimenti britannici ed anche americani sulle segrete intenzioni di Hitler, aveva perseverato nella sua politica di trasparenza nelle relazioni con la Germania, accrescendo al tempo stesso la sua diffidenza verso le potenze occidentali. I successi ottenuti dai servizi di informazione britannici nella decrittazione delle comunicazioni della Wehrmacht avevano reso i moniti inviati a Mosca via via più circostanziati e perciò ancora più inattendibili e provocatori agli occhi di Stalin. Una decina di giorni prima dell’avvio dell’operazione Barbarossa, Churchill aveva inoltrato al Cremlino un dettagliato rapporto sull’esatta disposizione di un numero considerevole di unità tedesche ammassate lungo i confini sovietici. Anche quel rapporto era stato ignorato come gli altri.
Neppure le informazioni raccolte dall’intelligence sovietica a conferma di quelle britanniche avevano scalfito le granitiche convinzioni del compagno Stalin. Gli uomini ai vertici dei servizi segreti erano sopravvissuti alle purghe degli ultimi anni grazie alla loro maestria nell’arte di assecondare il tiranno. Pertanto, Berija, che guidava la potentissima NKVD incaricata di garantire la sicurezza del regime, il suo protetto Merkulov, appena nominato capo del controspionaggio, ed il generale Kolikov, comandante dei servizi segreti dell’Armata Rossa, avevano compiuto ogni sforzo per presentare i rapporti dei loro agenti sul campo come una conferma della vastità della manovra provocatoria ideata dai britannici e sfruttata abilmente, all’insaputa di Hitler, da un ristretto gruppo di generali guerrafondai. Il loro servilismo, acuito dall’istinto di conservazione, aveva del tutto vanificato il lavoro di numerosi agenti che erano riusciti per tempo a raccogliere una massa imponente di informazioni preziosissime.
Stalin raffigurato dalla propaganda come timoniere
Le grida di allarme più rilevanti sull’attacco tedesco erano state lanciate da Richard Sorge, un giornalista tedesco di madre russa inviato a Tokyo, e dalle reti di spie in Germania, ben infiltrate soprattutto all’interno della Luftwaffe. Sorge, che godeva di una consolidata reputazione di fervente nazista, aveva in realtà abbracciato con entusiasmo la causa del comunismo fin dagli anni ’20. Dopo essersi laureato a Berlino, nel 1924 si era trasferito a Mosca e l’anno seguente era stato arruolato dall’intelligence sovietica. Aveva dato prova della sua fedeltà e della sua efficienza creando una rete spionistica a Shanghai all’inizio degli anni ’30, poi era stato destinato a Tokyo, dove non aveva tardato ad ingraziarsi i funzionari dell’ambasciata tedesca, entrando così in possesso di documenti riservati. Nel maggio del 1941 aveva preannunciato che nove armate comprendenti 150 divisioni erano in procinto di muovere contro l’Unione Sovietica. Stalin ancora una volta aveva inveito contro la campagna di provocazioni orchestrata ai suoi danni, gettando Sorge nel più profondo sconforto.
  A metà giugno, le reti di agenti create a Berlino da Arvid Harnack, un funzionario del ministero degli Esteri, e da Harro Schulze-Boysen, un ufficiale del servizio informazioni del ministero dell’Aeronautica, avevano riferito che i preparativi per l’invasione erano ormai terminati e l’attacco avrebbe potuto essere sferrato in qualsiasi momento. Stalin aveva scarabocchiato sul rapporto questa risposta: “Compagno Merkulov, puoi mandare la tua “fonte” nell’aviazione tedesca da quella … di sua madre. Costui non è una fonte, bensì un disinformatore.”.
Ad offuscare le capacità di giudizio di Stalin avevano contribuito, oltre alla sua presunzione ed alla sua patologica diffidenza verso generali e spie, le manovre tedesche di disinformazione. Benché Hitler fosse convinto che l’Unione Sovietica sarebbe crollata in poche settimane – ai suoi generali disse: “Basterà dare un calcio alla porta e l’intera, marcia struttura cadrà in pezzi” – l’imponenza della forza dell’Armata Rossa lo impensieriva. Per quante divisioni riuscisse a destinare all’operazione Barbarossa, l’inferiorità numerica della Wehrmacht restava incolmabile. Considerava il sodato tedesco meglio addestrato, equipaggiato e comandato, oltre che razzialmente superiore, tuttavia non poteva fingere di ignorare la realtà dei numeri a favore dei sovietici. Una realtà che avrebbe potuto essere ribaltata soltanto sfruttando al meglio il fattore sorpresa. Pertanto si era preoccupato di affiancare alla preparazione dell’invasione una vasta azione diversiva fin dal luglio del 1940, quando l’avvio della concentrazione delle truppe tedesche ad est era stato presentato agli “amici” sovietici come il tentativo di creare campi di addestramento per le operazioni contro il Nord Africa e l’Inghilterra, al riparo dagli attacchi aerei britannici.
Stalin era caduto nell’inganno, in quanto esso coincideva perfettamente con la sua analisi che non contemplava un impegno della Germania su due fronti contemporaneamente.
Durante la primavera del 1941, la Wehrmacht aveva inscenato vistose esercitazioni per l’invasione della Scozia muovendo dalla Norvegia e dell’Inghilterra sud orientale, muovendo dalle coste tra Rotterdam e Cherbourg. Erano stati stampati manuali sullo stile di vita britannico da distribuire alle truppe di invasione, avendo cura che qualche copia riuscisse ad arrivare sino a Mosca. A questa vasta operazione di disinformazione aveva partecipato con entusiasmo ed ingegno il ministro della Propaganda Goebbels. Dalla sua penna tagliente era uscito, una settimana prima dell’avvio dell’operazione Barbarossa, un articolo celebrativo della recente invasione di Creta con truppe aviotrasportate che conteneva un minaccioso avvertimento per la Gran Bretagna: “Se oggi gli inglesi discutono accalorati il caso di Creta basta che sostituiate l’Inghilterra a Creta e capirete perché sono tanto sconvolti. Se in Inghilterra la cricca di Churchill non discute pubblicamente l’argomento dell’invasione non è perché non la tema, ma proprio perché ne ha paura… Il Führer ha coniato l’espressione non esistono più isole.”. Per rendere più credibile il tranello le autorità naziste avevano proceduto al sequestro dell’articolo di Goebbels, non prima però di aver accertato che alcune copie avessero raggiunto i corrispondenti stranieri e le ambasciate di Berlino. Nei giorni seguenti il ministro della Propaganda aveva recitato alla perfezione la parte del gerarca in disgrazia per aver diffuso informazione riservate sulle prossime mosse strategiche della Wehrmacht.
Oltre al diversivo inglese, Hitler aveva escogitato un’altra spiegazione plausibile per il concentramento delle proprie truppe ad est: la minaccia sovietica. Nonostante il patto Ribbentrop-Molotov, la Germania non poteva rischiare di essere pugnalata alle spalle da un improvviso mutamento dell’atteggiamento sovietico, quindi doveva predisporre delle misure precauzionali al confine. Per ingannare Stalin gli era stato sufficiente ammassare le truppe pronte per l’invasione dietro robuste opere difensive, edificate nelle zone in cui ragionevolmente l’Armata Rossa avrebbe concentrato i suoi sforzi se avesse ricevuto l’ordine di invadere la Germania. I vistosi movimenti di truppe dietro le opere difensive tedesche avevano poi finito per convincere Stalin che la Germania volesse mostrare i muscoli non solo per scoraggiare un eventuale attacco sovietico, ma anche per spuntare nelle forniture di derrate condizioni più vantaggiose rispetto a quelle già definite dal patto Ribbentrop-Molotv.
All’inizio di giugno, era la fantasiosa minaccia di un ultimatum tedesco, anziché il rischio reale di una aggressione a travagliare sempre di più Stalin.
Il 20 giugno l’ambasciatore a Berlino Dekanozov aveva fornito ulteriori rivelazioni sull’imminenza dell’attacco tedesco, Berija lo aveva redarguito per la sua ingenuità ed aveva poi inoltrato il suo rapporto a Stalin, corredandolo da una nota servile: “La mia gente e io, Iosif Vissarionovic, ricordiamo chiaramente la tua saggia predizione: Hitler non attaccherà nel 1941”. Il giorno seguente Stalin era stato assalito dai primi dubbi sulla propria infallibilità. Nel tardo pomeriggio aveva ordinato al commissario agli Esteri Molotov di convocare al Cremlino l’ambasciatore tedesco Schulenburg per protestare contro l’intensificarsi dei voli di ricognizione della Luftwaffe in territorio sovietico. Il colloquio era stato del tutto infruttuoso, Molotov aveva dovuto rassegnarsi alle risposte evasive di Schulenburg.
Stalin ed il maresciallo Vorošilov
Nel frattempo Timošenko, insieme a Žukov, Budënnyj e Vorošilov, aveva raggiunto il Cremlino per informare Stalin che un paio di disertori tedeschi avevano appena riferito che l’inizio dell’invasione era fissato per l’alba. Al cospetto del tiranno, nel suo studio denominato il “Piccolo Angolo”, erano già accorsi gli uomini più importanti della nomenclatura, Berija, Malenkov ed il vicepremier Voznesenskij, che in un imbarazzato silenzio attendevano disposizioni. Poiché i fatti sembravano non confermare le predizioni di Stalin nessuno osava prendere la parola. Dopo qualche esitazione, il maresciallo Timošenko aveva trovato il coraggio di tornare a proporre di mettere le truppe di frontiera in stato di massima allerta. Stalin si era mostrato scettico: considerava i disertori dei possibili provocatori e l’ordine di massima allerta un passo irreversibile verso la guerra. Nonostante tali obiezioni, il suggerimento di Timošenko aveva tuttavia trovato il timido ed insperato appoggio dei massimi dirigenti politici, inducendo Stalin a fare qualche concessione. Aveva accettato di diramare l’ordine di massima allerta, ma in una formulazione piuttosto ambigua che imponeva ai comandanti ad astenersi da ogni azione provocatoria, lasciando di fatto aperto l’interrogativo sul comportamento da adottare nel caso in cui i tedeschi avessero varcato i confini.
Dopo aver raggiunto una soluzione di compromesso, che sul campo avrebbe avuto effetti disastrosi, Stalin aveva invitato a cena nel suo appartamento privato del Cremlino i massimi dirigenti del regime. I marescialli ed i generali erano invece corsi al commissariato alla Difesa per mettersi in contatto con i distretti militari. Intorno alla mezzanotte di sabato 21 giugno la trasmissione dell’ordine di massima allerta era stata completata. Poco più tardi il ricevimento nell’appartamento privato del tiranno era stato interrotto da una telefonata di Žukov: un terzo disertore, il sergente maggiore Alfred Liskov, un operaio comunista berlinese, aveva attraversato a nuoto il fiume Prut per riferire che la sua unità aveva appena ricevuto l’ordine di invasione. Stalin infastidito aveva ordinato che il disertore venisse fucilato per aver fornito false informazioni, poi aveva invitato i suoi ospiti a seguirlo nella dacia di Kuntzevo per bere un ultimo bicchiere e rilassarsi guardando un film.
Alle 4,15 del mattino iniziarono a giungere al commissariato alla Difesa le prime segnalazioni dell’attività tedesca dal Baltico al Mar Nero. Ai comandanti che dal fronte chiedevano il permesso di aprire il fuoco sugli invasori il maresciallo Timošenko rispose di non cedere alle provocazioni e di far tacere l’artiglieria e la contraerea. Il generale Boldin, vicecomandante del distretto militare speciale occidentale, reagì all’insensatezza di quell’ordine suicida urlando nel ricevitore: “Ma non è possibile! Le nostre truppe sono costrette a ripiegare. Le città sono in fiamme, la gente muore!”. Timošenko fu irremovibile, non osò assumere nessuna iniziativa
Quando fu svegliato dalla telefonata di Žukov, Stalin probabilmente dormiva da un paio d’ore. Ascoltò in silenzio il concitato rapporto del capo di stato maggiore, poi ordinò di convocare d’urgenza al Cremlino i membri del Politburo, lasciando volutamente senza risposta la richiesta del permesso di contrattaccare.
Poco prima delle 6 del mattino i vertici politici e militari dell’Unione Sovietica raggiunsero il Piccolo Angolo . Stalin li accolse ostentando calma e freddezza, ma il suo pallore lo tradiva. Parlò lentamente, scegliendo con cura le parole per ribadire che l’attacco in corso poteva essere una provocazione orchestrata da alcuni generali tedeschi all’insaputa dello stesso Hitler. Prima di ordinare il contrattacco occorreva una conferma ufficiale da Berlino sulle reali intenzioni tedesche. Nessuno fece obiezioni, Molotov si incaricò quindi di convocare l’ambasciatore Schulenburg.
Intanto nelle trincee e nei posti di comando dell’Armata Rossa lungo i confini regnavano lo sconcerto, il caos e l’impotenza. L’unico a potersi rallegrare della tempestività dell’attacco tedesco fu il disertore Liskov, la cui condanna a morte, difronte all’evidente veridicità delle sue affermazioni, non fu eseguita.
Al cospetto di Molotov l’ambasciatore tedesco lesse un telegramma ricevuto qualche ora prima da Berlino, in cui si affermava che la Germania si era vista costretta ad adottare contromisure militari alla concentrazione di forze sovietiche lungo i confini. “Di certo non ce lo siamo meritato”, commentò sconsolato il ministro degli Esteri sovietico, poi corse ad informare Stalin della formale dichiarazione di guerra.
Il maresciallo Tuchacevski
Quasi contemporaneamente a Berlino il ministro degli Esteri Ribbentrop convocava l’ambasciatore sovietico Dekanozov per leggergli la stessa nota prolissa che fu accolta con la stessa sbigottita costernazione.
La conferma di aver commesso un colossale errore di valutazione colpì Stalin con la violenza di un pugno. I suoi più stretti collaboratori per la prima volta lo videro stravolto, avvilito ed incerto sul da farsi. Dovette trascorrere qualche minuto prima che potesse riprendere la padronanza di sé ed indossare nuovamente la maschera dell’infallibile compagno Stalin. Un ottimismo sconsiderato prese allora il posto dello sconcerto, si dichiarò certo di poter sconfiggere il nemico su tutta la linea e finalmente autorizzò Timošenko ad ordinare all’Armata Rossa di passare all’offensiva. Si affrettò però a specificare che in nessun caso le truppe avrebbero dovuto dilagare oltre i confini sovietici. Tale raccomandazione, assurda dal momento che la prima linea sovietica era ormai in rotta, rifletteva l’ingenua speranza di poter ancora risolvere la situazione per via diplomatica. Non riusciva a liberarsi del timore che umiliare l’invasore, minacciandolo sul suo territorio, avrebbe reso la guerra irreversibile. Nel corso della mattinata la chimera di una mediazione diplomatica giapponese per porre termine alla “crisi” svanì, Stalin incominciò a prendere contatto con la realtà misurando le dimensioni dello sfacelo dell’Armata Rossa.
Entro mezzogiorno 1200 apparecchi, pari a più di un quarto dell’intera forza aerea sovietica, furono distrutti, almeno 800 di essi prima ancora che potessero alzarsi in volo. Il numero dei prigionieri caduti nelle mani della Wehrmacht aumentava di ora in ora. Interi reparti, in attesa di ordini, venivano sopraffatti senza combattere. Ponti, nodi ferroviari e postazioni fortificate venivano occupati uno dopo l’altro, ponendo le premesse per una inarrestabile avanzata in profondità nel territorio sovietico.
Posto di fronte a questo quadro disastroso, Stalin decise che l’esistenza di una guerra in corso non poteva più essere nascosta al suo popolo. I magnati del regime consideravano ovvio che fosse lo stesso Stalin a rivolgersi alla nazione in un momento così drammatico, ma il tiranno li sorprese, affidando al fedele Molotov, il firmatario del patto di amicizia con la Germania, il difficile compito di spiegare il repentino sconvolgimento della politica estera sovietica. Stalin non voleva compromettersi parlando per primo, oppure era ancora troppo sconvolto per farlo, ma non rinunciò comunque a dettare il testo del comunicato che a mezzogiorno fu letto alla radio da Molotov, con una voce così piatta e tremolante da rendere le affermazioni sulla certezza della vittoria tutt’altro che trascinanti.
Eppure in quelle ore i soldati sovietici avevano un disperato bisogno di incoraggiamento e soprattutto di ordini. Il comando supremo, frettolosamente istituito quando l’attacco tedesco infuriava da almeno cinque ore, ed affidato al maresciallo Timošenko, poiché Stalin si ostinava a voler tenere un basso profilo, era incapace di trasmettere ordini. Alcuni generali sul campo, tra cui Pavlov, comandante del fronte occidentale che comprendeva Minsk e la strada per Mosca, avevano perso il contatto con le loro truppe.
Il caos dilagava nelle linee sovietiche e Stalin era impotente, intanto le divisioni corazzate tedesche, superate senza difficoltà, le opere difensive approntate, avanzavano incontrastate sul terreno aperto. Nel primo giorno dell’invasione alcune unità percorsero più di ottanta chilometri.
Alla sera del 22 giugno un furore cieco si impossessò di Stalin che non tardò ad individuare nel tradimento dei generali sul campo la spiegazione della dissoluzione delle sue divisioni. Allo scopo di ristabilire i contatti con i comandi e soprattutto di infliggere una punizione esemplare ai responsabili del disastro, Stalin dispose che i suoi collaboratori più fidati e senza scrupoli si recassero immediatamente al fronte. Un vecchio bolscevico come il maresciallo Budënnyj ed un astro nascente del partito come Malenkov, che già aveva dato prova della propria sanguinaria determinazione conquistandosi, nonostante la sua origine aristocratica, la benevolenza del tiranno e la carica di segretario del comitato centrale, si precipitarono a seminare il terrore a Brjansk, al confine tra Russia, Ucraina e Bielorussia. Il capo di stato maggiore Žukov fu inviato nell’area sud-occidentale del fronte dove riuscì a sferrare un contrattacco, non prima però di aver ordinato la fucilazione di numerosi ufficiali macchiatisi dell’onta della ritirata.
Direttrici dell’operazione Barbarossa
Il maresciallo Kulik, il maldestro vicecommissario alla Difesa che aveva guidato l’incruenta invasione della Polonia e la disastrosa campagna contro la Finlandia, raggiunse invece il fronte occidentale nel vano tentativo di riorganizzarlo. Stalin si fidava di lui nonostante la sua smodata passione per la vodka e la sua leggerezza nell’aver sposato una donna sospetta di simpatie controrivoluzionarie. Sulla prima debolezza il tiranno era disposto ad essere indulgente, per la seconda, imperdonabile, aveva invece adottato una soluzione radicale: nel maggio del 1940, aveva ordinato a Berija di rapire in gran segreto, torturare ed uccidere la moglie di Kulik, Kira. La sua unica colpa era aver rivolto a Stalin la supplica di liberare il proprio fratello, un ex ufficiale zarista internato nei campi di lavoro. Dopo aver ordinato il rapimento di Kira, il tiranno aveva recitato con l’abilità di un attore consumato la parte dell’amico sollecito e partecipe, impaziente di usare tutto il suo immenso potere per dare impulso alle indagini sulla misteriosa scomparsa, poi, non senza un certo sadico divertimento, aveva promosso Kulik al grado di maresciallo, quasi per consolarlo del suo dolore.
Il 23 giugno 1941, Kulik, già sergente d’artiglieria dello zar, le cui nozioni sull’arte militare erano ferme al 1918, si presentò sul fronte occidentale determinato e pieno di impeto bolscevico, ma della decima armata che stava cercando non trovò altro che dei reparti in fuga, a cui non esitò ad unirsi per evitare la cattura. Il suo comportamento difronte al nemico fu tutt’altro che intrepido, tanto che un commissario politico al seguito delle truppe si sentì in dovere di denunciarlo. All’approssimarsi delle colonne corazzate tedesche, Kulik ordinò agli ufficiali di sbarazzarsi di gradi, medaglie, documenti ed armi per indossare abiti civili e darsi alla fuga. Il maresciallo diede l’esempio bruciando la sua uniforme ed impadronendosi di un calesse con cui riuscì a dileguarsi.
Mentre Kulik travestito da contadino si metteva in salvo, un altro maresciallo, Šapošnikov, che aveva dimostrato il suo zelo stalinista facendo parte del tribunale militare incaricato di condannare Tuchačevski, perdeva ogni contatto con il quartier generale. Fin dall’inizio dell’offensiva nazista Šapošnikov si trovava sul fronte occidentale, ma aveva potuto fare ben poco per guidare la resistenza sovietica, alla notizia della rotta delle sue truppe aveva avuto un collasso nervoso ed era rimasto tagliato fuori dalle linee.
La notizia che due marescialli erano stati risucchiati dal vortice dell’avanzata tedesca senza lasciare tracce esasperò Stalin, convincendolo a ricorrere ad un altro fedelissimo per stabilizzare il fronte occidentale: il maresciallo Vorošilov, che il 26 giugno giunse nella città bielorussa di Mogilev con un treno speciale, senza tuttavia riuscire a rintracciare né ciò che restava dell’Armata Rossa, né i marescialli scomparsi. Più tardi perlustrando i dintorni della città si imbatté in quello che sembrava un accampamento di zingari, sebbene fosse il quartier generale del fronte occidentale. Šapošnikov era steso a terra coperto da un cappotto, all’apparenza più morto che vivo, poco lontano da lui, accasciato sotto un albero incurante della pioggia torrenziale, si trovava il generale Pavlov stordito e disperato. Vorošilov si mostrò cortese e premuroso verso il suo pari grado, che sentendosi rassicurato sul proprio destino diede immediati segnali di ripresa. Dopo qualche istante riuscì ad alzarsi e perfino a radersi per tentare di assumere nuovamente l’aspetto di un maresciallo. Stalin aveva già deciso che il primo capro espiatorio eccellente della disfatta sarebbe stato Pavlov, perciò Vorošilov poté ignorare con disprezzo la sua piagnucolosa richiesta di perdono, assaporando il piacere di vendicarsi di un ufficiale che in passato si era permesso di muovergli delle critiche. Qualche giorno più tardi Pavlov sarebbe stato arrestato e condannato a morte per tradimento.
Kulik rimase introvabile ancora per qualche giorno, finché non riuscì faticosamente a riguadagnare le linee sovietiche ed a farsi riconoscere come maresciallo. Stalin lo accolse benevolmente, dimenticando i rapporti che descrivevano la sua codardia.
Né il ritorno a Mosca dei marescialli dispersi, né la fucilazione dei presunti traditori modificò la disastrosa situazione dei fronti. Il 28 giugno i tedeschi erano penetrati ormai per quasi cinquecento chilometri in territorio sovietico e si apprestavano a stringere in trappola 400.000 soldati dell’Armata Rossa posti a difesa di Minsk, capitale della Bielorussia, prima grande città sulla strada verso Mosca. Anche Leningrado era in pericolo, le truppe tedesche, rafforzate da quelle finlandesi, avevano appena sferrato una violenta offensiva in Carelia. Per risollevare il morale della popolazione furono affissi sui muri di Leningrado dei manifesti che mostravano una fotografia del disertore Alfred Liskov, con la didascalia: “I soldati tedeschi sono demoralizzati!”. Tale manovra propagandistica perse ogni effetto, rivelandosi una patetica menzogna, non appena le autorità di Leningrado iniziarono l’evacuazione dalla città di 200.000 bambini.
Il maresciallo Kulik
Il comando supremo di Timošenko continuava a non riuscire né a mantenere i contatti con i fronti, né ad assumere l’iniziativa, si limitava ad incitare la popolazione civile e gli sbandati alla lotta partigiana dietro le linee tedesche e ad invocare la strategia della “terra bruciata”: le truppe in ritirata non dovevano lasciare dietro di sé né una sola locomotiva, né una autocarro, né una pagnotta, né un litro di carburante.
Nella notte del 28 giugno Stalin lasciò il Cremlino sconvolto ed in preda alla più nera disperazione, entrando nella limousine che doveva condurlo alla sua dacia di Kuntzevo si abbandonò, ad uno sfogo amaro, di una sincerità inconsueta per un uomo diffidente ed impenetrabile come lui: “Tutto è perduto. Mi ritiro. Lenin ha fondato il nostro stato e noi ce lo siamo fottuto.” Durante il tragitto verso Kuntzevo continuò ad imprecare ed a ripetere: “Lenin ci ha lasciato una grande eredità e noi, i suoi eredi, l’abbiamo mandata in malora…”
Testimoni di tali parole furono Molotov, Mikojan, un “vecchio” bolscevico armeno membro del Politburo e signore incontrastato del commercio e degli approvvigionamenti, e Berija. I primi due le riportarono nelle loro memorie, il terzo le riferì Kruscëv che a sua volta le inserì nella sua autobiografia.
L’illusione di essere un leader scaltro, se non addirittura un superuomo destinato a plasmare il corso della storia secondo la sua volontà, crollò sotto il peso della sconfitta, costringendo Stalin a mostrarsi a sé stesso ed ai suoi cortigiani come in realtà era: un politico goffo e maldestro nelle relazioni internazionali, digiuno di ogni rudimento di strategia militare, incapace di governare senza ricorrere al terrore. L’umiliazione del tiranno fu così grande alla vista della sua immagine reale da spingerlo a contemplare seriamente la possibilità di disfarsi del suo potere assoluto per lasciare ad altri il peso dell’eredità di Lenin.
Molotov, Mikojan e Berija accolsero lo sfogo di Stalin con un misto di incredulità e di sgomento, poi si sforzarono per trovare argomenti per rincuorare l’uomo che ammiravano e temevano più di ogni altro. Dopo averlo lasciato solo nella sua dacia si convinsero di aver assistito soltanto ad un cedimento momentaneo in cui il loro idolo, sopraffatto dalla stanchezza, aveva pronunciato la parola dimissioni per dare maggiore enfasi al suo tormento interiore. A mezzogiorno del 29 giugno, quando Stalin non si presentò come al solito al Cremlino, tale certezza cominciò a vacillare per poi svanire del tutto nelle ore successive. Nel pomeriggio lo smarrimento si impossessò dei magnati del regime che tempestarono di domande il torvo e meticoloso Poskrebyšev, capo della segreteria personale di Stalin, ottenendo sempre la stessa risposta: “Il compagno Stalin non c’è e non so quando tornerà”. Tentarono allora di mettersi in contatto telefonico con Kuntzevo, ma la linea non era attiva.
Intanto la guerra infuriava sul suolo sovietico, Leopoli, nella Galizia occidentale, cadeva nelle mani della Wehrmacht, e Stalin amareggiato, frastornato ed insonne ciondolava nel giardino della sua dacia, in un volontario isolamento dal resto del mondo.
Anche la giornata del 30 giugno trascorse senza che Stalin avvertisse la necessità di dare notizie di sé. Il vuoto di potere al vertice del regime si fece di ora in ora più grande, poiché nessuno dei magnati osava assumersi la responsabilità di prendere decisioni senza l’approvazione di Stalin. Anni di terrore avevano insegnato a tutti i dirigenti che l’iniziativa personale poteva essere confusa facilmente con il tradimento.
Il prolungarsi della completa paralisi dell’apparato dello stato finì comunque per vincere ogni timorosa prudenza, costringendo i vertici della nomenclatura sovietica ad accettare il rischio di incorrere nell’ira del tiranno. La strategia per superare il crollo nervoso di Stalin fu elaborata da Berija che in serata si riunì con Malenkov e Vorošilov nell’ufficio di Molotov. L’astuto e sanguinario capo della macchina repressiva del regime propose la costituzione di un nuovo gabinetto di guerra, un Politburo speciale composto da un numero ristretto di membri e dotato di ampi poteri, la cui presidenza doveva essere offerta a Stalin. L’idea di Berija era brillante, non escludeva Stalin, allontanando così una possibile accusa di cospirazione, ed al tempo stesso poneva le premesse per una gestione collegiale del potere nel caso in cui il suo ritiro si fosse rivelato irrevocabile.
Il capo di Stato Maggiore generale Zukov
Molotov e gli altri dirigenti si dichiararono d’accordo e non fecero obiezioni all’autopromozione di Berija, tra gli ultimi arrivati nell’olimpo del potere sovietico, al rango di membro del Politburo. Era un alleato troppo prezioso per umiliarlo frustrandone le ambizioni. Unanime fu anche la scelta di Molotov, che conosceva Stalin fin da prima della rivoluzione, come portavoce del gruppo dei congiurati, a cui si aggiunsero Voznesenskij, il giovane esperto di economia da poco nominato vicepresidente dell’esecutivo, il consiglio dei commissari del popolo, e Mikojan.
Dopo aver messo frettolosamente da parte antipatie, diffidenze e rivalità, i più smaliziati cortigiani del regime e gli astri nascenti del partito si recarono, con Molotov in testa, a Kuntzevo ad affrontare Stalin. Lo trovarono stanco, cupo e smagrito, quasi rassegnato a subire il castigo per i propri errori, finché la proposta di Molotov di assumere la guida del gabinetto di guerra non gli aprì uno spiraglio inatteso. La tensione scomparve improvvisamente dal volto del tiranno che manifestò la ritrovata lucidità assegnando a ciascuno dei dirigenti precisi compiti nel neonato comitato di Difesa, così come nel governo.
La ripresa di Stalin fu altrettanto repentina del suo crollo, giustificando il sospetto che i due giorni di isolamento trascorsi a Kuntzevo non fossero altro che uno stratagemma per verificare la lealtà e la fiducia dei suoi uomini, un passo indietro per cancellare i grossolani errori commessi nella valutazione delle intenzioni di Hitler e riaffermare la propria insostituibilità. E’ difficile credere che Stalin abbia potuto simulare il suo stato di prostrazione psicofisica, riuscì comunque a sfruttarlo abilmente per ritornare al potere più forte ed incontrastato di prima.
Il 1° luglio la stampa di regime diede grande enfasi alla costituzione del comitato statale di Difesa (GKO). Due giorni più tardi, Stalin parlò per radio al suo popolo, sforzandosi di toccare le corde del patriottismo. Si rivolse a milioni di ascoltatori chiamandoli non solo “compagni” e “cittadini” come di consueto, ma anche “fratelli e sorelle”, “miei amici”, attribuì i successi ottenuti dalla Wehrmacht nelle ultime settimane alla perfidia della Germania nazista, colpevole agli occhi del mondo intero di un attacco a sorpresa contro un paese pacifico con cui aveva stipulato un patto di non aggressione. Mescolando nobili ragioni ideali e realismo politico, assolse sbrigativamente sé stesso ed il suo governo dall’accusa di aver commesso un errore dando fiducia alla Germania. Da un lato l’aspirazione alla pace, dall’altro la necessità di guadagnare tempo per organizzarsi militarmente avevano convinto l’Unione Sovietica a firmare il patto di non aggressione con la Germania, pur sapendo che Hitler e Ribbentrop erano dei “mostri” e dei “cannibali”. Implicitamente Stalin non si spinse oltre l’ammissione di aver calcolato male i tempi con cui la Germania avrebbe mostrato il suo vero volto di potenza fascista ed imperialista. Dedicò la parte più trascinante del suo discorso all’invocazione della riscossa contro l’invasore “feroce ed implacabile”, il cui obiettivo era ridurre in schiavitù il popolo sovietico. Esortò quindi ogni cittadino ad impegnarsi nella guerriglia, a braccare ed annientare il nemico che stava profanando il sacro suolo della patria, dando prova di quelle qualità che Lenin considerava distintive degli uomini sovietici: “il coraggio, l’ardimento, l’intrepidezza nella lotta”. Non rinunciò infine ad evocare il suo strumento prediletto di governo, il terrore: “Dobbiamo organizzare una lotta implacabile contro ogni specie di disorganizzatori delle retrovie, disertori, allarmisti, propalatori di voci… Bisogna immediatamente deferire al Tribunale militare senza riguardo per nessuno, tutti quelli che, diffondendo il panico e dando prova di codardia, ostacolano la difesa.”. E non fu una vana minaccia.
Bibliografia
SIMON SEBAG MONTEFIORE, Gli uomini di Stalin. Un tiranno, i suoi complici e le sue vittime, Milano, Rizzoli, 2005.
ANTHONY READ, Alla corte del Führer. Göring, Goebbels e Himmler: intrighi e lotte per il potere nel Terzo Reich, Milano, Mondadori, 2006.
CHRISTOPHER ANDREW, OLEG GORDIEVSKIJ, La storia segreta del KGB, Milano, Rizzoli, 2005.
MARTIN GILBERT, La grande storia della seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 2003.
AMY KNIGHT, Beria. Ascesa e caduta del capo della polizia di Stalin, Milano, Mondadori, 1999.
BASIL H. LIDDELL HART, Storia di una sconfitta. La seconda guerra mondiale attraverso le testimonianze dei generali tedeschi, Milano, Rizzoli, 1998.
NICOLAS WERTH, Uno stato contro il suo popolo, in, S. COURTOIS, N. WERTH, J. PANNÉ, A. PACZKOWSKI, K. BARTOSEK, J. MARGOLIN, Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, Milano, Mondadori, 2000.
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retegenova · 5 years
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A Villa Imperiale
lunedì 22 luglio ore 21,30 Mia Nkem Favour CONCERTO BLUES
martedì 23 luglio ore 21,30 MANIMAN TEATRO “Miximprò: comici e improvvisatori”
mercoledì 24 luglio ore 21,30
CARLO DENEI e STEFANO LASAGNA “Di cabaret si muore”
Prossimi spettacoli in scena a Villa Imperiale nell’ambito della rassegna Ridere d’agosto
Lunedì 22 luglio ore 21,30 CONCERTO BLUES con Mia Nkem Favour accompagnata dalla band composta da Davide Serini: chitarra; Danilo Parodi: basso; Alessandro Muda: Hammond organ & piano, Mauro Mura: batteria.
Mia Nkem Favour Nwabisi è una consolidata realtà nella scena Blues europea. Straordinaria interprete della tradizione afroamericana, si distingue per uno strepitoso impasto vocale unito ad una conoscenza approfondita dei dettami stilistici del genere. La scuola gospel di New Orleans ha trovato in lei un valido elemento che la contraddistingue.
È dotata di un vero e proprio “cuore blues” che la porta ad esprimere al meglio i sentimenti dell’anima. La band che la accompagna è costituita da alcuni tra i migliori musicisti Blues in Italia, già esponenti dei genovesi Big Fat Mama e Mama’s Pit, gruppi storici del Blues italiano. Lo spettacolo si dipana tra classici del genere e brani originali, offrendo un impatto solido e articolato, con un sound potente e raffinato al tempo stesso.
Martedì 23 luglio ore 21,30 torna MANIMAN TEATRO il gruppo di improvvisatori che sfida in questo appuntamento un gruppo di cabarettisti in una grande serata senza copione all’insegna del divertimento, dove, dai suggerimenti del pubblico, nasceranno all’istante storie irripetibili intervallate da monologhi comici tra i più esilaranti. Presentato da Andy Ferrari, parteciperanno gli improvvisatori del Maniman: Francesco Ferrara, Grazia Longobardi, Matteo Caremoli e i cabarettisti Federica Sassaroli (Copernico), Andrea Carlini (Zelig e Colorado), Alessandro Bianchi (ex Cavalli Marci)
Mercoledì 24 luglio ore 21,30 è di scena il cabaret di CARLO DENEI e STEFANO LASAGNA “Di cabaret si muore”. È la storia di due squattrinati comici che, separati dalle mogli, vivono nello stesso angusto appartamento per contenere le spese. Purtroppo per loro la concorrenza è sempre più spietata: i colleghi comici sono tanti e le serate, sempre meno.
Poi d’improvviso incominciano ad accadere fatti inquietanti ma che potrebbero aumentare le loro chances.
I due protagonisti, prigionieri di una malata rivalità casalinga ed artistica, si lanciano frecciatine, si fanno sgarbi e ripicche dando vita a momenti esilaranti scanditi da dialoghi, monologhi e improbabili canzoni. Il finale ha dell’incredibile!
Ingresso intero € 14,00 ridotto € 11,00
Biglietteria a Villa Imperiale dalle 19,30
Info 377.0897309 010.511447 www.teatrogarage.it [email protected]
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Prossimi spettacoli a VILLA IMPERIALE 22, 23 e 24 luglio A Villa Imperiale lunedì 22 luglio ore 21,30 Mia Nkem Favour CONCERTO BLUES martedì 23 luglio ore 21,30…
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paoloxl · 7 years
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Il 5 luglio 1962 il Governo provvisorio algerino decretò la giornata "festa nazionale dell'indipendenza" dopo che il 1° luglio la quasi t L'occupazione francese dell'Algeria era fortemente appoggiata dai cosiddetti pieds-noirs, i coloni francesi stanziatisi nel paese fino dai tempi di Napoleone III che avevano evidenti interessi di carattere economico 5 luglio 1962: l'indipendenza dell'Algeria e finanziario nel territorio di quella che chiamavano la "Francia d'oltremare". Questa vasta porzione di abitanti (un milione di francesi a fronte di sette milioni di algerini), praticava un'effettiva politica di segregazione nei confronti della massa di popolazione araba, costretta a vivere in condizioni di permanente inferiorità politica e sociale, oltreché giuridica. La prima azione di guerra messa in atto dagli indipendentisti algerini avvenne nelle prime ore della mattina del 1° novembre 1954, quando militanti del FLN eseguirono molteplici attacchi organizzati in varie parti dell'Algeria contro installazioni militari, posti di polizia, magazzini e mezzi di comunicazione, scatenando la dura reazione del ministro degli interni francese, François Mitterrand, che affermò: " la ribellione algerina può trovare un'unica forma terminale: la guerra". In realtà, i primi anni della Guerra d'indipendenza videro una forte contrapposizione tra le diverse anime dell'opposizione algerina, che si logorarono con una lunga serie di attentati e omicidi politici che portarono al bilancio definitivo di 12mila aggressioni, 9mila feriti e 4mila morti. La contrapposizione più aspra fu sicuramente quella tra il FLN, che propugnava la restaurazione dello stato algerino "all'interno dei principi dell'Islam", e il MNA (Mouvement National Algérien), che invece era di ispirazione socialista. Quest'ultimo, forte di una radicata presenza nelle fabbriche e nei sindacati della scuola, oltre che nelle masse di lavoratori immigrati in Francia, fu vittima di una spietata repressione ad ordine della piccola borghesia francese e algerina (che troverà nel FLN il suo interlocutore privilegiato), la quale temeva che l'apertura di un processo rivoluzionario in Algeria potesse espandersi alla stessa Francia. Il FLN, forte del suo radicamento negli strati più poveri della popolazione e nelle campagne, uscì vincitore da questa disputa grazie alla fondazione di sindacati, associazioni professionali, organizzazioni studentesche e femminili e all'uso indiscriminato della violenza nei confronti di tutti coloro che erano considerati collaborazionisti o traditori. Dal 1956, il FNL affiancato dall'ala militarista (ALN, Armée de Libération Nationale), mise in pratica con successo la tattica della guerriglia, così da evitare il contatto diretto con le truppe francesi, e arrivò a controllare ampi settori delle regioni dell'Aurès, la Cabilia e altre regioni montagnose intorno a Costantina e a sud di Algeri e Orano. Molto importante fu anche il fronte francese, dove i militanti algerini attuarono una serie estenuante di attentati a atti di sabotaggio contro le forze di polizia e le sedi governative. Di tutta risposta, l'esercito francese rispose con un impiego massiccio della forza tramite l'assalto e il bombardamento dei villaggi, il rastrellamento di oltre 2 milioni di algerini e la loro deportazione in veri e propri campi di concentramento e di tortura. Questo atteggiamento spregiudicato delle forze armate, che ricordava fortemente le tattiche usate dai nazisti durante la Resistenza, fu fortemente condannato e criticato dalla sinistra francese e dall'opinione pubblica in generale, legittimando ulteriormente la lotta del popolo algerino. Le sorti della guerra ebbero un'improvvisa svolta nel 1958, quando un putsch di generali guidati da Massu e Dalan, molto critici nei confronti del governo francese, provocò la caduta della Quarta Repubblica e costrinse il presidente Coty a richiamare al potere de Gaulle. Questi modifico' la costituzione, accrescendo i poteri dell'esecutivo (Quinta Repubblica), ma, anziché proclamare la guerra ad oltranza per l' "Algeria francese", avviò contatti coi "ribelli" del Fronte di Liberazione Nazionale, che si conclusero nel marzo 1962, con la firma di un armistizio (armistizio di Evian). Durante i tre mesi che trascorsero tra il cessate il fuoco ed il referendum sul futuro dell'Algeria, l'Organisation armée secrète (OAS), una società segreta a carattere paramilitare che fece del terrorismo la sua arma preferita, riscuotendo vasti consensi nelle file dell'esercito, tentò di provocare una rottura della tregua ottenuta dal FLN ed avviò un'indiscriminata campagna terroristica. Nel solo mese di marzo 1962 l'OAS fece esplodere una media di 120 ordigni al giorno, non risparmiando nemmeno ospedali e scuole. Alla fine i terroristi fallirono nei loro obiettivi e stipularono una tregua col FNL il 17 giugno 1962. Nello stesso mese, più di 350.000 coloni abbandonarono l'Algeria. Ikecm-ed Urumi di ṣṣif Ad iffeɣ s essif Di ṣṣif Qbel lexrif I Francesi sono arrivati d'estate e ripartiranno con la forza, d'estate senza attendere l'autunno (Cheikh Mohand ou-Lhocine)
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pangeanews · 6 years
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I Ferormoni hanno firmato uno dei dischi più belli degli ultimi anni. Li abbiamo intervistati tra estasi, elettronica, Amelia Rosselli e Garbo
I Ferormoni – cioè, Tommaso Crisci e Monica Marini – non hanno eguali in Italia. L’ho già affermato e lo riaffermo a muso duro. Sono coraggiosi; la loro musica non teme alcuno scontro. E il loro esordio, Un segno più forte, è uno dei dischi più belli degli ultimi anni italiani.
Come e quando è nato il progetto Ferormoni?
Tommaso: “Abbiamo creato Ferormoni nel 2014, quasi senza accorgercene; è nato come una sorta di scherzo, una scommessa quasi impossibile da vincere. Il progetto ha mosso i primi passi tra disordini e distanze geografiche colmate da una grande affinità artistica che si è stabilita in modo immediato tra noi. La curiosità, la voglia di infrangere le barriere tra la poesia e la musica, la passione viscerale sono stati gli ingredienti che hanno permesso che vivesse e crescesse fino ad oggi”.
Monica: “Inizialmente è stato un lanciarsi in una serie di sperimentazioni sonore e poetiche sul filo del rasoio, senza avere un’idea precisa di cosa sarebbe potuto scaturire dal nostro connubio. Sia io che Tom abbiamo dovuto quasi spontaneamente imparare una dimensione creativa del tutto nuova: lui a scrivere musica per la lettura delle mie poesie e io a leggere parole in brani che avevano una struttura ben precisa”.
Tommaso: “Andando avanti è venuto fuori questo strano essere, il nostro primo CD che abbiamo chiamato Un segno più forte: un calderone di emozioni, umori, turbamenti, estasi, rumori elettronici e tango, ritornelli cantati (con e senza parole) e poesia detta tra i denti con dolcezza spietata”.
I vostri punti di riferimento. Le vostre stelle polari, per così dire. Le fonti di ispirazione e i modelli. Una domanda che mi preme, perché la vostra proposta musicale – unire letteratura alta e musica elettronica, in chiave dance o sperimentale – a oggi non ha paragoni in Italia.
Monica: “Le mie “stelle polari” sono piuttosto eterogenee. Le prime armi poetiche sono state influenzate dalla musica e dalla scrittura di artisti come Nick Cave e Fabrizio De Andrè. A seguire sono passati in tanti, da Sylvia Plath ad Amelia Rosselli, da Antonio Machado a Bukowski”.
Tommaso: “Il mio travagliato percorso musicale è costellato da una miriade di artisti di ogni genere che mi sono piaciuti; quelli che mi hanno fatto veramente vibrare l’anima sono legati al periodo di fine anni ’70 e gli ‘80: Tuxedomoon, Cure, Television, Talking Heads, Echo & The Bunnymen potrebbero essere validi esempi. Ho amato molto anche classici come Doors, Pink Floyd e i Beatles – questi ultimi soprattutto nel periodo psichedelico. Tuttavia, se dovessi legare questo discorso a Ferormoni, penserei più a Garbo e Subsonica per gli umori elettronici, ai Baustelle per certe atmosfere surreali e ai Gotan Project per il palese background latino presente in molti pezzi”.
Un segno più forte, il vostro disco appena uscito, ha il suo punto di forza nella produzione. Un lavoro certosino per quanto riguarda arrangiamenti e soluzioni sonore; incredibile, se si pensa che il disco è autoprodotto e senza nessuna grande etichetta alle spalle. Qual è stato il lavoro produttivo? Come è avvenuto?
Monica: “Il periodo in cui nacque questo progetto fu per noi davvero molto intenso come emozioni e morbosa curiosità di ricercare, di provare se le poesie su brani strutturati potessero funzionare. La distanza geografica ci costringeva a inviare il materiale via e-mail, ma non fu mai un problema. Ricordo che Tom mi mandava la traccia musicale e io registravo la mia voce con il cellulare e gliela rimandavo. Veniva fuori una sorta di voce inscatolata, lo-fi che ci impressionò e ci piacque da subito. Ma lo capimmo per bene quando per la prima volta Tom provò a mettere insieme la musica di Tenera è la notte, brano di apertura dell’album, con le mie parole: rimanemmo sbalorditi, tant’è che in molti pezzi del CD (Lovers in Hotel, Spaccami il Monitor, Tangata) lasciammo la voce registrata da me a Bologna con il telefonino, aggiungendo qualche minimo effetto ed accorgimento tecnico. Gran parte del lavoro è stato svolto così”.
Tommaso: “Ho prodotto questo disco senza pensarci. Quasi senza accorgermene. Eppure io e Monica abbiamo macinato anni di lavoro, andando dritti e senza tentennamenti. Perché ci piaceva molto quello che stavamo facendo, era passione allo stato puro, senza minimamente preoccuparci se tutto questo avesse avuto un futuro e l’eventuale gradimento da parte di qualcuno. Mezzi molto semplici: il disco è stato registrato nel nostro studio casalingo, mettendo insieme, su un programma multi-traccia digitale, tutte le registrazioni telefoniche di Monica, i miei arrangiamenti, le linee melodiche, i suoni strani e gli umori di quei tempi sparpagliati. Ricercavo i suoni e le melodie, traendo ispirazione dal singolarissimo modo di leggere (e di scrivere) di Monica. Mi sono occupato anche del mixaggio. La fase finale di mastering abbiamo invece preferito affidarla a mani esperte ed è stata effettuata da Andrea “Jim” Ravasio al Frequenze Studio di Monza”.
Il video ufficiale di Armi di Distrazione di Massa, che potrei classificare come il primo “singolo” tratto dall’album. Raccontatemi un po’ di questo pezzo e di come sono nate le idee per realizzarlo.
Tommaso: “Armi è, secondo noi, è uno dei brani più musicali del CD nel senso più stretto del termine. Si discosta infatti molto dall’idea poesia-musica diventando un brano di stampo rock-elettropop, pur mantenendo, nella telefonata e nelle strofe iniziali, il parlato tipico di Ferormoni. Il testo (di strofe e ritornello) è stato da me scritto in una giornata uggiosa di fine ottobre del 2013 e li è rimasto nel cassetto per molti mesi. Monica invece si è occupata della parte centrale in cui c’è la telefonata tra l’utente medio e l’uomo che c’è dietro ai bottoni della sfavillante e spaventosa macchina dei media odierni. Il testo è molto esplicito: parla, in modo ironico ovviamente, di come certi canali informativi vogliano ucciderci mentalmente e psicologicamente. Ci distraggono dalle cose importanti, con notizie che oscillano, tra orrore e angoscia, tra la banalità e l’amore come oggetto di consumo. Il video? Girarlo è stato esilarante! Uno spazietto 2 metri per 2, davanti a un muro completamente bianco. In realtà a me sulle prime veniva da ridere ed ero quasi rassegnato a pensare che girare e montare un video da soli sarebbe stato al di sopra delle nostre possibilità. Invece, come al solito, la passione e il grande divertimento ci hanno subito fatto venire qualche idea. Prendemmo un vecchio televisore e un telefono démodé per mettere in scena la telefonata, qualche faccia attonita e sottotitoli per i versi più importanti”.
Monica: “Non riuscivamo a smettere di ridere mentre tentavamo di mettere insieme un barlume di scenografia che avesse anche un minimo di coerenza con il testo del pezzo. Alla fine, in effetti, il televisore sullo sfondo e quel vecchio telefono kitsch ci hanno fatto capire quale poteva essere la direzione giusta e siamo riusciti a raggiungere un bel risultato, considerato che ci stavamo riprendendo e andando in scena da soli. Riuscire a seguire Tom non è stato facile: si arrampicava su una scala per fare riprese dall’alto, si contorceva sotto e sopra i tavoli; è stata comunque una cosa divertente e oserei dire pirotecnica”.
Testi e musica sono indivisibili nel vostro lavoro: nascono a priori o può capitare che si adattino poi alla musica? Cioè che nascano successivamente a una determinata melodia, a un certo refrain? Raccontate il vostro metodo compositivo.
Monica: “Non ci sono regole! A volte l’incipit parte dalla musica e a volte dalla poesia o dal testo. Per esempio Tenera è la notte, il brano d’apertura del CD, è nato partendo dai miei versi e successivamente Tom ha ideato la musica, cercando ispirazione da quello che le parole gli evocavano. La stessa cosa è avvenuta con Tangata e Nuda. In altri pezzi invece il metodo compositivo è molto simile a una sorta di brainstorming: per quanto riguarda Lovers in hotel, una storia rubata a due amanti, Tom aveva in mente il titolo e l’insistente riff musicale che accompagna tutto il brano. E ricordo che mi disse di provare a scrivere una storia partendo da questi soli due elementi”.
Tommaso: “Anche Sentimento Nudo è nato più o meno così, anche se il processo è stato in questo caso il contrario: io avevo già quasi tutta la musica, con strofe e ritornello cantato e Monica ha poi aggiunto tutte le altre parole. Comunque è proprio così: non è facile raccontare come nasce uno dei nostri pezzi. In genere è come un dialogo, una escalation di emozioni che procedono in obliquo, a ritroso, tra grandi accelerazioni in avanti e brusche frenate. Questo per dire che il tutto può partire da un arrangiamento sul quale si sviluppa la musica, o viceversa da un’ossatura sul quale poi si costruisce tutto il resto”.
Progetti attuali e futuri?
Monica: “Per quello che ci riguarda, adesso il nostro obiettivo è di portare questo progetto dal vivo e presentarlo al pubblico. Infatti, anche se ci sono state serate memorabili come l’apertura al concerto di Garbo e Luca Urbani all’OFF di Modena in occasione del loro tour ‘Un graffio coerente’ , la nostra esperienza live è ancora molto esigua e, almeno secondo noi, dovrebbe crescere molto di più e affinarsi attraverso le esibizioni ai concerti. E devo dire che abbiamo constatato che (per ora) non è stata un’impresa facile, ma noi ce la metteremo tutta per farci sentire”.
Tommaso: “Produrre e pubblicare Un Segno più forte è stato per noi un traguardo che – ai tempi della nascita del progetto – nemmeno pensavamo di poter raggiungere. E invece ci siamo arrivati e con il minimo storico di contributi esterni. Ne siamo entusiasti e orgogliosi, ci siamo divertiti; ci siamo anche sfiancati macinando ore e ore tra mix, registrazioni e prove ed è stato anche un impegno economico non da poco. Nonostante questo, concordando pienamente con Monica sul suonare il più possibile ovunque, il progetto Ferormoni non si fermerà di certo al primo album. Ci sono bozze e demo di molti altri pezzi che non potevamo inserire in questo primo CD, ma sicuramente faranno parte del prossimo e del prossimo ancora”.
Gabriele Galloni
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arcade24-blog · 7 years
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Astro, il client email con assistente virtuale, arriva sul Play Store
Astro, il client email con assistente virtuale, arriva sul Play Store
I "veterani" Android si ricorderanno quando Astro era una presenza irrinunciabile negli app drawer di ogni utente esperto: era uno dei file manager più in voga dell'era Android 2.x, ma la sua popolarità è ormai ridotta al lumicino a causa di una concorrenza spietata e poca rapidità nell'adattarsi alle nuove mode. In ogni caso, un nuovo Astro è in arrivo, ma non c'entra nulla con la gestione dei…
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