Tumgik
#e anche la questione fiscale. ma tant’è
deathshallbenomore · 2 years
Text
comunque dai miei appunti di diritto pubblico comparato riemerge una noterella sulla de facto irrilevanza funzionale del re svedese, che in molte occasioni è sostituito dal presidente dell’assemblea legislativa o comunque da altre cariche legate più o meno direttamente ai processi elettorali. quindi se vai là non ti danno da mangiare ma non si fanno problemi a mantenere una monarchia. okay!
9 notes · View notes
comprounavocale · 3 years
Text
L’importanza delle cose.
Tumblr media
Poi spararono a Tentacolo Joe. Io e Vanni eravamo al bar e guardavamo in tv il comizio, bevendo boccali di birra scadente che ci ripromettevamo di cambiare ogni volta, ma alla quale tornavamo sempre per pigrizia. Sullo schermo, Tentacolo Joe aveva l’estremità alta completamente disintegrata, la forma austera e panata del suo capo appariva caotica e la voce fuoricampo era divenuta incomprensibile, mentre attorno a noi il susseguirsi di “Oh” e “Alza il volume” e “Cristo” ricordava l’inizio disordinato di un musical. La parte superiore di Tentacolo Joe ora somigliava a un mazzo di fiori che era stato stritolato da una mano rabbiosa. Il bianco del pesce, i pezzetti di pangrattato sul vestito. Qualcuno gli aveva sparato e la telecamera aveva tremato. Poi il cameraman aveva ristabilito un contatto cinico con la propria professionalità e noi potevamo dunque guardare meglio ciò che stava succedendo. Si dipanava la vicenda del bastoncino impanato, pensai. Sullo schermo erano apparse nell’ordine: gente e prodotti che urlavano, forze dell’ordine che intervenivano, una signora che diceva “Forse è arrivato il momento” (poi subito scomparsa), un piccolo bastoncino che, impaurito, cercava qualcuno. Poi tornarono in studio, mentre nel nostro pub le espressioni erano ora ordinate in un solo, enorme “Che cazzo!”. Guardai lungo il bancone e tutti i boccali erano appoggiati, e alcune mani li stringevano quasi per non lasciarsi andare, come se una forza sconosciuta dietro di loro fosse pronta a risucchiarli via. Poco più sopra, alcune bocche erano aperte. La maggior parte degli occhi spalancati. Stavamo assistendo a un qualche tipo di svolta storica? La forza che li stava assalendo era nuda e invisibile allo stesso tempo: agiva in maniera spudorata anche sugli avventori abituali che reputavamo più duri (e in quel bar qualche duro c’era) ma, appunto, senza farsi vedere. Era inconoscibile eppure la sentivamo. I nostri padri, in un altro tempo, l’avevano sentita. Di solito, a quei tempi, c’erano state di mezzo le armi, proprio come ora. O al massimo due aerei su due grattacieli.
Tentacolo Joe era detto così non perché fosse un grande bastoncino di pesce confezionato deforme (cosa che era, senza deformità), ma perché era riuscito in pochi anni, grazie a doti di PR fuori dal comune, a creare una rete di persone, circoli e volontari da un lato, e sostenitori del mondo politico dall’altra, che sostenevano la sua causa o che comunque non vi si opponevano. Il tutto era sembrato ai più acuti osservatori qualcosa di incredibile proprio per il carattere archetipico della cosa: Tentacolo Joe era il primo (o forse il più bravo) tra i prodotti a riuscire a tessere rapporti umani. Non solo: nell’immaginario culturale Tentacolo Joe aveva chiuso il cerchio che molta musica elettronica aveva aperto anni prima, con la de-umanizzazione del corpo, a partire dai Kraftwerk. Con Tentacolo Joe il corpo era diventato qualcosa di standardizzato - ora davvero - ma mantenendo l’umanità. Anzi no: l’anima. Per alcuni – come le redazioni di alcuni magazine online – questo carattere accentuava ancora di più l’umano di quel bastoncino di pesce, per contrasto. Ecco perché Tentacolo Joe era apparso su diverse copertine ed era per alcuni il personaggio dell’anno. Non solo: in lui, e nel suo essere una figura politica, risiedeva una terza dimensione di analisi, che era quella sociologica. Tentacolo Joe, prodotto dalla Frostfon nel 2017, confezionato nello stesso anno e ora sul palco a snocciolare un discorso, proprio per il suo essere rappresentante singolo di una collettività che però era anche tutta uguale in quanto frutto di processi produttivi ripetuti, rappresentava un leader nuovo. Un leader che coagulava in sé – pur essendo privo di sangue – una forte serie di paradossi: individuo politico che lottava affinché i prodotti avessero una loro dignità ma allo stesso tempo rappresentante di quella che negli incubi della sinistra era la perfetta società massificata: tutti uguali, tutti identici, stessi bisogni. Almeno in apparenza, perché se poi ti fossi addentrato nei mille rivoli del marketing avresti visto come i vari prodotti e sottomarche si distinguessero al loro interno, ma tant’è. A questo si univa il fatto che tutti i prodotti (non solo i bastoncini, e senza elencare: qualsiasi oggetto avesse una seppur minima concretezza oggettuale, in questo mandando in malora l’importanza del fattore astratto una volta e per sempre, forse) lottassero per una sorta di uguaglianza, che poi era una specie di chiusura del cerchio. Si parlava infatti di roba legislativa, che però faceva uscire sangue dal naso per la complessità enorme dei ragionamenti in gioco a tutte quelle frange bioetiche, politiche e filosofiche che nella nostra storia occidentale si erano alternate, combattute o erano entrate in contatto, visto che l’uguaglianza di fronte alla legge mai come ora rappresentava una standardizzazione dell’esistenza, voglio dire: volevano uguaglianza di fronte alla legge rispetto agli umani, e nel loro gruppo erano totalmente identici, uguali appunto, ma le leggi che fino a quel punto erano state scritte riguardavano sempre, in qualche modo, gli uomini. Tentacolo Joe era quello che aveva messo meglio in dubbio l’antropocentrismo legislativo della nostra società. Per lui la legge non doveva essere uguale per tutti ma per qualsiasi cosa. Si trattava, per il legislatore, di essere anche delicato e politicamente corretto a livello terminologico, per non offendere nessuno e non esacerbare tensioni che a quel punto erano alle stelle (vedi sopra: sparatoria).
Io e Vanni nel frattempo pensavamo di andare in giro a cercare qualche corso che ci avrebbe permesso di sviluppare maggiormente la manualità e inserirci nel mercato del lusso. Il massimo sarebbe stato diventare falegnami, ricevere telefonate da ricconi e strappare loro prezzi altissimi per limare o raffinare mobili dei loro parenti morti in Abissinia. Il problema è che quello era un mercato piuttosto chiuso e non disposto a farsi coinvolgere dalla pubblicità online, e io e Vanni, essendo cresciuti in un’epoca di forte digitalizzazione, ci trovavamo in difficoltà con la comunicazione faccia a faccia con gli sconosciuti che quel mercato richiedeva, e la penetrazione in quella nicchia risultava sempre un’idea senza scia di concretezza al seguito.
L’idea era quella di sfuggire alle grinfie del capitalismo diventando meglio delle macchine e dei prodotti, anche se in realtà speravamo ci fosse una qualche forma di reddito data ai cittadini nullafacenti prodotta dalla tassazione sui robot. Il problema è che la coperta era troppo corta a livello fiscale, pertanto la nostra voglia di non fare nulla e continuare a bere birra scadente a spese dello Stato era da escludere, perché ora i prodotti entravano in campo. Elettrodomestici che volevano avere il diritto di voto, poltrone che, ferma restando la possibilità per gli esseri umani di godersele, volevano certezze normative sull’oltre-vita. E poi c’era la questione culturale, con robe come dischi e libri che a un certo punto si erano messi a farsi i cazzi propri, roba che stava facendo impazzire società di diritti (che a questo punto risultavano più simili a latifondisti e attori del caporalato che per anni avevano esercitato il proprio potere su quegli oggetti), critici, semiologi. Questi ultimi, ora, si vedevano presi per il culo dai prodotti culturali: “No, mio caro, i tuoi scritti e i tuoi quadrati semiotici hanno completamente travisato la mia intentio, che tra l’altro dovresti sapere essere diversa da quella dell’autore”. Un bel casino, e meno male che l’accademia non aveva il peso sulla società che poteva avere avuto un tempo.
Quando Vanni pensò che, visto il trend del momento, forse era meglio diventare oggetti, io non seppi come reagire. Voglio dire, da un lato l’idea non era male, visto che in quel modo saremmo finiti dalla parte della società che, per numeri e moda, a breve sarebbe stata dominante, ma dall’altro mi domandavo se davvero volessi diventare una cosa. Ero finito in una sorta di limbo speculativo che aveva già coinvolto sociologi, filosofi, psicologi, antropologi, responsabili delle risorse umane. Ma diventare cose non era semplice. Prima di tutto c’era la burocrazia, e la trafila non era semplice né rapida. Era una roba simile all’adozione, ma questa volta eri tu che adottavi una nuova forma per la tua esistenza. Poi c’era che dovevi pagare per la transproduzione (così avevano cominciato a chiamarla gli esperti di bio-produzione umana, figure che nascevano dal perfetto incrocio tra l’industria, la biochimica, la genetica e le nanotecnologie: loro sì che da un momento all’altro si erano trovati a dire “Bingo!” in riferimento alle scelte universitarie e lavorative che avevano fatto), e lì come facevi? C’era nel nostro caso da chiedere prestiti o adeguarsi alle piccole somme che avevamo. Era un casino. E poi i rapporti umani. Anche se meno importanti, era difficile abbandonarli. Cioè, voglio dire, cazzo, mia madre non mi avrebbe permesso di farmi mangiare fossi divenuto un prodotto del comparto food.
Sta di fatto che ora avevano sparato a Tentacolo Joe, e la sala in cui eravamo e gli oggetti che la riempivano e anche le persone erano super tese e molto in difficoltà. E se fosse stato un essere umano a sparargli? Un casino, amici. Tentacolo Joe, nonostante tutto, nonostante le spinte indipendentiste, aveva una posizione che, nel suo far convergere su di sé tutte le istanze dei prodotti volte allo scontro, era risultata dialogante. Una sorta di tappo a una situazione difficile. Di sicuro ora nessuno sapeva cosa sarebbe successo, ed era quella una parte del tremore invisibile che si muoveva lungo i boccali di birra su quel bancone. I prodotti si sarebbero arresi, privati del loro leader principale, e avrebbero lasciato perdere con disillusione il grande sogno leggermente accarezzato di un riconoscimento giuridico? Oppure si sarebbero rovesciati per le strade, distruggendo tutto, dopo aver visto esacerbarsi le posizioni più radicali di devastazione della vita sulla terra così com’era stata finora, arrivando ad affermare una sorta di lotta all’umanesimo? Di certo non avrebbero potuto rompere vetrate di negozi e rubare altri prodotti. I prodotti sarebbero usciti da soli in strada, e magari si sarebbero messi a travolgere gli esseri umani, e tutto questo si sarebbe coagulato in rivendicazioni e differenti prospettive e proposte d’azione, e sarebbero emerse diverse fazioni, e questa sommossa avrebbe semplicemente cristallizzato e bloccato per anni le istanze dei prodotti all’interno di una perenne guerra interna su cosa fare, come la roba che era successa con Occupy Wall Street. Ora mi rendevo conto che bastava che i vestiti che indossavamo venissero presi dalla foga e saremmo potuti morire nella presa asfissiante dei nostri maglioni o giubbotti o pantaloni o scarpe.
Ad ogni modo, ci pensate? Vostra nonna che prova a prendere le pillole per la pressione e quelle le scappano dalle mani e vanno via in strada. Oppure i cibi in aereo che cominciano a sbroccare e riempire il velivolo e finire nella cabina di comando e poi c’è un velivolo che perde controllo e quota e si schianta e questo è solo un esempio di apocalisse. Non puoi controllare gli oggetti, ma solo subirli. E l’uomo è costretto a tornare in campagna, e ciao ciao civilizzazione, anche nel senso che forse saremmo stati senza la possibilità di difenderci, e magari avremmo dovuto – ma su questo la questione era ancora aperta – usare le ossa di una carcassa animale come arma come nell’inizio di quel film di Kubrick. Come avremmo potuto difenderci? Il monopolio della forza era da un’altra parte.
Le cose veramente inanimate – o forse potremmo dire inoffensive – erano quelle naturali, tipo alberi, fiori, piante e loro derivati. Tutto ciò che invece proveniva da lavorazione industriale aveva sviluppato coscienza, e la sviluppavano anche gli animali morti e lavorati, vedi i bastoncini di pesce. Bastava la forza della produzione.
Ma questo era solo un problema secondario. In tutta questa tensione, infatti, io e Anna eravamo in crisi, perché io non facevo un cazzo tutto il giorno, mentre lei andava avanti come contabile in una piccola azienda di imballaggio, e a un certo punto tutte le sue critiche sulla mia capacità di organizzare e di avere una prospettiva sul futuro, basate sulla sua superiorità lavorativa, venivano messe in dubbio. Anche perché io conoscevo un sacco di discipline orientali legate allo spirito, quindi sicuramente in un mondo fatto di oggetti che si ribellavano la parte trascendente e intangibile sarebbe risultata un vantaggio competitivo (questa era una mia speranza, più che altro). Anna, le cui labbra non ricordavano alcun oggetto ma solo due nuvole tondeggianti e perfette di un cielo roseo di tramonto, i cui modi, quando dolci, ricordavano la gentilezza tanto narrata di certe figure della storia che molti considerano superiori spiritualmente al resto degli esseri umani perché riescono a esercitare quella gentilezza anche dopo indicibili sofferenze, o quel che è. Anna, conosciuta all’università, mentre provavo a laurearmi in psicologia quando in realtà a me interessavano solo le occupazioni e le feste e nemmeno per motivi politici, ma perché puntavo solo a non fare un cazzo. Mi sarebbe piaciuto moltissimo vedere che sarebbe successo se un giorno tutti avessero smesso di lavorare. Del tipo Stop!, ferma tutto, posa la penna e lascia perdere il computer o il piccone o le manopole o i trapani o le chiavi inglesi o il bisturi e andiamocene in strada a non fare nulla e vedere quanto tempo ci mette tutto a collassare o, in alternativa, a fiorire come dovrebbe. Evviva! Gioia! Alleluja! Vi sembra un manifesto politico? Non lo è: è solo la speranza massima di espressione del mio egoismo, per cui non avendo voglia di lavorare sarei stato meglio se a lavorare non fosse stato nessuno. Sarei stato giustificato.
Davanti a tutta questa situazione andavo alle feste e facevo la pallina da flipper, passando da gruppetto a gruppetto. Se avessi potuto inquadrarli dall’alto avrei visto tutti questi cerchi e tutt’attorno, a popolare gli interstizi, i disagiati, piccole sfere plumbee che si spostavano e fluivano senza mai riuscire a integrarsi e farsi assorbire. Alla fine, era meglio così: nelle cerchie l’allegria data dall’alcool mascherava tutti i dolori, e a me andava invece di parlare di cose profonde. Le feste erano piccoli meeting anti-morte? Erano riunioni per evitare di lasciare spazio al nulla attraverso un caos pianificato (“Ora, luogo, citofono? Le robe da bere le portate voi?”)? A me sembravano riti – dio mio, come sembro un etnologo banale del cazzo in questo momento – che non riuscivano a manifestare il cuore delle proprie faccende. L’evocazione che cercavano di scatenare era quella della festa memorabile, e invece io finivo sempre a casa di amici ad ascoltare altri amici che facevano musica psichedelica e droni e declamazioni noiose che provavano a fornire una visione strana o poetica e invece risultavano solo ridicole. Vanni, ad esempio, a quel tempo indossava una T-Shirt con la scritta: Disposto a combattere il capitalismo per un compenso di dieci euro l’ora. A me la realtà, per quanto disgustosa e difficile e dolorosa e isolante potesse essere, interessava. Non avevo intenzione di guardare dei visual caleidoscopici su un soffitto, fingendo di essere in un club londinese mentre Syd Barrett delira e fa magie. Cazzo, a me i Pink Floyd manco piacciono. Davanti a tutta questa situazione io avevo paura che, se un giorno gli oggetti avessero preferito dichiararci guerra e lasciarci soli, noi non saremmo stati filosoficamente preparati. Ma pare fossi uno dei pochi impauriti. La festa era in realtà un rimandare: rimandare una crisi, un dolore, il momento in cui saresti dovuto rientrare e, da solo, avresti pianto, magari in maniera esplicito-esplosiva o semplicemente in una parte lontanissima del tuo didentro. Non importava: su su, sfogati pure.
Io e Vanni vivevamo queste giornate al bar o in casa mia, sul divano, a guardare film e serie tv mentre fuori il mondo pulsava come un bernoccolo fresco fresco. La politica veniva piano piano modificata dall’economia, e noi compravamo casse di birra. Eravamo vittime? Eravamo illuminati? Eravamo dei cretini? Chi lo sa. In tutto questo la paranoia era che le cose attorno a noi si ribellassero, e ci strappassero letteralmente la carne dalle ossa mentre discutevamo su qualche scelta registica. Era una morte da intellettuali e da stupidi, allo stesso tempo.
Poi un giorno il cielo si trasformò in un enorme codice a barre, e le nuvole divennero QR Code. Alcune persone provarono a tirar fuori il comunismo per tutta risposta a quel che accadeva, ma anche lì c’erano i mezzi di produzione, e da quella vecchia equazione politica dovevi eliminare ora il prodotto, che era vivo, pronto ad affermarsi come nuovo attore sociale. Neanche le variabili erano più quelle di una volta! Porca troia, qualcuno addirittura temeva che Marx, in quanto morto, potesse ora tornare in vita. O – peggio ancora – che tutti i volumi de Il Capitale mai pubblicati potessero ora dire direttamente la loro. La gente non capiva più se fosse giorno o notte. Oh, com’era difficile. Come avrei voluto non reagire passivamente, non sentirmi solo in questa situazione, come avrei voluto che le mille istanze e i mille bisogni differenti delle persone di tutto il mondo potessero finalmente unirsi come un solo flusso nella distruzione di questa situazione, ma poi mi veniva in mente che noi non eravamo nessuno per impedire alle cose, agli oggetti, di vivere una propria vita. E un attimo dopo mi veniva in mente che forse la libertà, l’affermazione di certi diritti stavano totalmente spazzando via la razza umana. E quindi come ne saremmo usciti? Come avremmo potuto superare quello stallo? E Anna? E l’amore, la riproduzione? E quel cielo a codice a barre, come lo avremmo affrontato? Cosa avremmo raccontato ai nostri figli? Come avrebbero reagito i pargoli quando avrebbero capito che anche loro, alla fine, erano nostri prodotti? Che noi, i loro genitori, eravamo la fabbrica che li aveva tirati fuori? Ah, la riproduzione.
In tutto questo, Vanni cominciò a delineare un piano per sfangarla. Consisteva nell’andare in campagna, setacciare tutto in cerca di manufatti artificiali, bonificare l’area. Cominciare da una piccola porzione, verificare la fattibilità del progetto e poi mostrarlo agli altri esseri umani. Da qui, secondo lui, le persone avrebbero cominciato ad aprire gli occhi sulla cosa, ad avere certezza di un’alternativa. Era vero, tutto ciò? Era possibile? Io non me la sentivo di assecondarlo, perché continuavo a pensare che gli oggetti avrebbero trovato un modo per arrivare fino a lì, e che forse si sarebbe dovuto discutere con gli stessi oggetti del fatto che la loro più viva essenza, la loro natura era intrisa dell’uso umano, che senza di noi non era possibile per loro avere un senso. Ma questo era colonialismo economico o spirituale? La testa mi esplodeva dietro a questi quesiti. E dunque bevevamo. Bevevamo birra, molto spesso. Immettevamo in noi litri e litri di aziende, litri e litri di macchinari che stantuffavano, litri e litri di acqua lavorata, litri e litri di cultura del prodotto che ora era in noi, nel sangue, nelle urine, nei reni, nelle vie urinarie, nella vescica. Chi entrava in contatto con una roba come questa, diventava quella roba? E l’acqua? Questo mi chiedevo: l’acqua era natura o prodotto. Di sicuro quando ci trovavamo in campagna o in qualche bosco e capitavamo davanti a un ruscello, essa era silente. Stessa cosa non poteva dirsi delle varie bottiglie dei supermercati. Quella era agguerrita, e io non riuscivo a non pensare a Bauman.
Io sapevo queste cose perché, dopo aver sentito l’acqua alla gola della laurea soffocarmi, avevo terminato il mio percorso di studi umanistici e per un periodo abbastanza lungo della mia vita avevo pensato di intraprendere una carriera accademica. Ma la società nella forma di una mia tutor universitaria mi aveva fatto capire che quella era una vita di stenti, di precariato, di sfruttamento. A quel tempo non mi andava affatto di faticare. Preferivo la birra, cosa che mi succede anche ora.
Ad ogni modo, la sparatoria contro Tentacolo Joe era un fatto che vari politici in tv si erano affrettati a definire come grave. Anche per noi era grave, e avevamo paura delle ripercussioni di quella maggioranza produttiva contro di noi. Da un certo momento in poi le cose, tutta la questione politica si assottigliò nella vecchia, razzista conflittualità “Noi contro di loro”. Solo che la minoranza in questo caso era quella umana. Da un lato, alcune forze di centrodestra puntarono sul fattore sicurezza, come nella loro tradizione, e paradossalmente gli attori politici che avevano difeso l’innovazione tecnologica come strumento di creazione di profitto di coloro che gli finanziavano le campagne adesso si trovavano nella strana posizione di spingere sulla decrescita, sull’abbandono della tecnologia e di ciò che produceva. Parlavano di difendersi a mani nude contro i supermercati. Coloro che possedevano le industrie invece cercavano di placare il tutto: le associazioni di industriali cercavano di tessere buoni rapporti coi prodotti che loro tiravano fuori dalle loro fabbriche. Una cosa divertente è che cominciarono a non parlare più di quei prodotti come “nostri” o “miei”: quel senso di possesso veniva eliminato per non offendere gli stessi prodotti e la loro interiore volontà di indipendenza. Alcuni notarono che questa cosa non veniva fatta con gli operai. La cosa divertente era che una volta avresti sentito dire “I nostri compagni”, mentre se sentivi dire “I nostri prodotti” la mente andava subito a un qualche product manager o dirigente aziendale che, a un convegno o a una fiera, parlava del catalogo del suo brand.
Io e Anna, ad ogni modo, ci eravamo conosciuti all’università, a un’occupazione della Facoltà di Sociologia. Anna aveva: uno dei culi più belli avessi mai visto, un parlare calmo e morbido che ti faceva sentire di avere a che fare con un avvocato che difendeva la giusta causa in un processo legato a diritti civili inviolabili, curiosità e grinta ma anche la capacità di mantenersi sana, stabile, e soprattutto il coraggio, cosa che per un individuo squallido come me era una grande attrazione. Era risoluta ma non ottusa, sapeva cedere su un’idea sbagliata e sapeva trovare un accordo tra le varie parti. Era matura, sana. Era permalosa a volte, ma poi lo riconosceva quando riacquistava calma. Ancora mi chiedo come abbia potuto stare con me. Me lo domandavo anche ora.
Ogni tanto pensavo a mio cugino Delron, che poi in realtà non era mio cugino ma cugino di mio padre, e che per comodità chiamavo cugino perché comunque era più vicino alla mia età che a quella del mio vecchio. Delron, che era stato un eroe anni fa, ora nella Casa degli Ex-Eroi Andati, su a Cavane. Una volta ero andato a trovarlo. Delron era sempre stato un eroe per me, e questo ben prima che diventasse un supereroe. Cazzo, Delron! Fin da bambino era stato una macchina: era quello che faceva divertire noi cugini alle feste, era stato il primo essere umano che avessi visto fare surf, un concentrato che non avevo mai pensato possibile di forza, tenacia, tensione nervosa e allo stesso tempo grazia. Il corpo sulla tavola una cosa perfettamente integrata nel contesto delle onde che si alzavano, i capelli lunghi che, anche senza elastico, non gli finivano mai in viso quando era lì sopra, sulla tavola. Una creatura fatta di natura che eseguiva un gesto di dominazione umana sulla natura stessa. Delron Deltrin, che aveva poi terminato gli studi all’Accademia di Belle Arti ed era poi finito a lavorare per un’agenzia pubblicitaria di fama mondiale. Delron, creatività messa al servizio della vendita di prodotti, quegli stessi prodotti che ora erano l’argomento principale di discussione nei talk televisivi, con gente che parlava e parlava di sentimenti e diritti proprio sotto l’occhio di migliaia di cose messe lì, nello studio, accanto a loro. Come riuscivano quegli opinionisti ad essere tranquilli, con gli oggetti di scena che potevano fargliela pagare da un momento all’altro? Pensavo a loro in relazione a Delron perché le loro parole nell’etere e sullo schermo e nel contesto mediatico di quei giorni mi ricordavano la stessa forma di adattamento perfetto nello spazio che Delron aveva quando surfava? Forse il loro problema e allo stesso tempo la loro grande ricchezza era che non avevano assolutamente coscienza del peso di ciò che facevano dentro a quel mondo? Come quella vecchia idea per cui per uscire da te stesso devi semplicemente fare le cose, non pensarci troppo, finché non ci pensavi davvero più e tutto il tuo essere diventava pura azione in un determinato spazio. Ma la differenza nel caso di Delron era la solitudine del gesto. Delron spiccava, quantomeno nel mio ricordo. Quelli lì in tv, invece, erano soli solo quando inquadrati e prendevano parola e la telecamera stringeva su di loro, ma non essendo davvero soli nello studio (tra addetti ai lavori e prodotti per la messa in onda) la mente di chi guardava non li isolava mai veramente. Delron, invece, brillava sulle onde, le gambe leggermente piegate e i polpacci in tensione, le braccia aperte in una posa che faceva pensare che dovesse prima o poi staccarsi dalla tavola e spiccare il volo, lo sguardo concentrato ma allo stesso tempo quasi privo di un punto nello spazio su cui far atterrare quella concentrazione, l’onda che veniva seguita o forse seguiva il suo avanzare, la scia della tavola sull’acqua una sorta di segno spumoso sui miei ricordi, ecco, quella roba lì era inserita nel contesto ma anche perfettamente isolata. Era forse questa la differenza tra arte e comunicazione? Stavo delirando? Il fatto è che avevo questi pensieri mentre guardavo la tv e Vanni era uscito a comprare altra birra, e guardavo allo stesso tempo lo smartphone in maniera paranoica controllando l’ultima volta in cui Anna era stata online su Whatsapp, e io stavo lì e speravo lei mi scrivesse, la testa piegata sul cellulare e nessun gesto, neppure uno scroll, a far capire all’esterno che ero vivo. Delron era stato un supereroe, era stato capace di controllare gli oggetti, era finito in tv, e poi era impazzito per amore, tanto da non riuscire a controllare più neanche sé stesso. Non volevo finire così. Non volevo impazzire per amore anche io.
Poi Anna tornò, e le cose trovarono un punto di incontro con la mia percezione e tornarono a essere semplicemente oggetti inanimati, inutili anche. Le rimostranze cessarono, Tentacolo Joe venne dimenticato. Caddero a terra senza anima. Tutto questo avvenne grazie all’amore che io e quella donna provavamo. Quell’amore che, vista la sua lontananza, si era trasformato in qualcosa di orribile, malsano, per cui nulla aveva importanza per me. E quel nulla che non aveva importanza aveva riempito invece tutte le cose del racconto di cui ero protagonista (questo racconto che stai leggendo) di un carattere combattivo e cattivo, e il mondo era entrato in un enorme casino. Come scoprimmo con Vanni qualche giorno dopo che Anna era tornata e avevamo fatto pace e lei aveva deciso di lasciarsi andare e credere in me – me la sarei giocata bene, non avrei deluso lei né me -, quegli oggetti avevano cominciato a cercare un senso alla propria vita perché per me nulla senza di te, Anna, ha senso. A volte questa vita sa essere davvero grossolana nelle cose che vuole. E quello che vuole è dire, ora: resta ancora qui con me. Resta, non andare via, Anna. Ok, resto. Stringimi la mano, guidami nel buio. Ci sono. Bene. Non credo di avere paura.
3 notes · View notes
forzaitaliatoscana · 3 years
Text
Made in Italy: fondamentale il dialogo con le aziende
Tumblr media
La responsabile del Dipartimento tutela del Made in Italy di Forza Italia Toscana Antonella Gramigna: "Made in Italy: fondamentale il dialogo con le aziende" Sono oltre 100 i tavoli di crisi aperti nel periodo attuale. Sapevamo tutti che questa grave pandemia, con le temute chiusure e i blocchi delle produzioni, avrebbe messo in ginocchio diverse realtà industriali, artigiane e commerciali. Era previsto, così come è previsto l’intervento dello Stato che deve, e dovrà, fare la sua parte. Quindi, senza voler mettere in discussione il sacrosanto diritto delle aziende a poter riorganizzare e ristrutturare per poter garantire e mantenere l’azienda sana, come responsabile dipartimento Made in Italy di Forza Italia Toscana, ritengo anche sia un dovere di chiunque faccia impresa nel nostro Paese il collaborare lealmente con le Istituzioni, con le parti sociali, con Confindustria, ed anche con rispetto dei lavoratori, per cercare soluzioni ed avere sempre relazioni industriali serie ed accettabili. L’atteggiamento avuto dall’azienda, verso i propri lavoratori, licenziandoli a  mezzo mail, gettandoli nello sconforto totale, proprio perché inaspettato, non é degno di un Paese civile. Un Paese come il nostro, ricco di maestranze capaci, di ricchezza artigianale e umana. Si parla di interesse di queste multinazionali che usano l’Italia, la sfruttano e poi se ne vanno. Credo prima di tutto che serva maggiore rispetto e coscienza da parte loro. Ma più di tutto servono regole chiare, da parte dello Stato, con princìpi e sanzioni, maggiori tutele per il mondo del lavoro. Qui si tratta di un’azienda che pare avere all’attivo merce da milioni da consegnare, e ordini attivi di merce ancora da sballare. Crisi? Quale crisi, parliamone. Si tratta forse di delocalizzazione in paesi con minor pressione fiscale? Ecco che allora, oggi più che mai, servono misure più giuste che possano aiutare sia il mondo produttivo che lavorativo. La vicenda della GKN, come di altre, è questione dolorosissima. Ma insegna una cosa. Alcuni approfitteranno dell’epidemia da covid-19 per fare i loro interessi, come ad esempio chiudere senza un giustificato motivo e lasciare a casa tant’è, troppi dipendenti. I lock down hanno di fatto spianato la strada alle ristrutturazioni, ed ai licenziamenti con il potere nelle mani di pochi. E fin quando sarà cosi, le GKN si moltiplicheranno. Come dipartimento ho già chiesto chiarimenti ai miei referenti istituzionali e mi riferiscono esserci già al lavoro con un tavolo il prossimo 15 luglio,  per questa ennesima vicenda che vede 422 lavoratori seriamente preoccupati, presidiare giorno e notte l’azienda, anche per controllare le macchine e la loro sicurezza. Sarà il Ministro dello Sviluppo economico ad interessarsi della questione, come spero faccia anche il Presidente della Regione Toscana, perché in queste vicende tutte le Regioni hanno un ruolo fondamentale. Il Made in italy non è solo il prodotto artigianale, ma è il concetto di capacità lavorativa, serietà ed eccellenza nel mondo. Questo è il nostro grande valore e bisogna preservarlo con forza. Solidarietà ai dipendenti, e dialogo con le aziende. Solo unendo i due campi potremmo garantire un futuro. Antonella Gramigna, Responsabile Dipartimento Tutela del Made in Italy Forza Italia Toscana Follow @FI_Toscana
Tumblr media Tumblr media Tumblr media Tumblr media
iscriviti alla newsletter Sarai sempre aggiornato sulle notizie e sui prossimi incontri Scrivici Vuoi fare una segnalazione o farci una proposta? unisciti alla squadra Aiutaci a sostenere le nostre idee, i nostri programmi ed i nostri candidati Read the full article
0 notes