Tumgik
#anche da Macron arrivano parole poco rassicuranti
sofysta · 3 months
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Un Mondo di guerrafondai
Palestina e Israele, Azerbaigian e Armenia, Etiopia, Afghanistan, Russia e Ucraina, Sudan, ed ancora guerre apparentemente finite ma senza alcun accordo che potrebbero riaccendersi in qualsiasi momento: Cambogia, Bosnia, Mozambico, Liberia, Yemen e Siria.
Mi chiedo quanti e quali sforzi diplomatici si stiano operando e quanti si vuole che queste guerre continuino fino a sterminare l'umanità. Ci sono menti folli che non si fanno vedere in volto ed agiscono nell'ombra certi del fatto che per loro non ci saranno conseguenze, quelle lasciamole pure ai malcapitati soldati che vanno sui fronti ed ai civili innocenti che stanno cadendo e soffrendo. Alla fine queste guerre servono davvero solo ad accaparrarsi territori, petrolio, sbocchi sul mare e quant'altro o è tutto un progetto che porta allo sterminio dei comuni mortali ed alla sopravvivenza in qualche modo, in qualche luogo, di queste folli menti?? Queste sono guerre mascherate[ talvolta in nome di una democrazia] ma che puzzano di foibe. Il nostro mondo è nelle mani di terroristi e dittatori; la storia si sta ripetendo ed anche male mi pare di vedere.
Avremo un futuro?
Come sarà?
È difficile non porsi queste domande e vivere tranquillamente con il peso di tutte queste stragi nell'anima ed un futuro così incerto per chi ha il culo di non trovarcisi dentro. Perchè si, noi andiamo avanti con le nostre vite ma quelli che soffrono oggi potremmo anche essere noi domani.
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superfuji · 3 years
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Quale Occidente
di Marco Damilano
Gli Usa lasciano l’Afghanistan, la Francia è nel pantano del Sahel, la Germania affronta il dopo Merkel, l’Europa è nel vuoto di leadership. E anche per l’Italia si apre la stagione della grande incertezza
C’è chi racconta che in questi giorni sia profondamente turbato, perché per Mario Draghi l’Atlante occidentale è da sempre l’orizzonte in cui muoversi, il suo dna, il suo romanzo di formazione. È stato difficile trattenere lo sconforto quando il 24 agosto è arrivata la doppia notizia dell’incontro a Kabul del capo della Cia William Burns con il leader dei talebani Abdul Ghani Baradar e l’annuncio che sarebbe stato chiuso per gli afghani l’aeroporto della capitale e la possibilità di lasciare il Paese proprio mentre si svolgeva il vertice straordinario del G7 sull’Afghanistan, e la conferenza stampa dei talebani che annunciavano la chiusura dell’aeroporto della capitale per gli afghani.
In collegamento con Joe Biden e con gli altri leader, Draghi aveva appena annunciato una doppia iniziativa del governo italiano: la destinazione sull’emergenza umanitaria dei 120 milioni di euro previsti per la missione militare in Afghanistan e l’apertura a Russia e Cina, e Turchia e Arabia Saudita, nel prossimo G20 di metà settembre presieduto dall’Italia. Ma il risultato è stato un nulla di fatto. Niente smuove l’amministrazione Biden dalla scelta di abbandonare l’Afghanistan entro il 31 agosto, come vogliono i talebani, una decisione che chiuderà i confini dell’Afghanistan al mondo. La fine di un ciclo durato venti anni. Una doppia catastrofe, politica e culturale, ne parla Renzo Guolo.
Il 31/8 è la data del nostro destino, come fu nel 2001 l’11/9. È la fine dell’estate segnata dalla riconquista jihadista dell’Afghanistan. È il giorno del tutti a casa, l’ultimatum per l’evacuazione concordato tra Washington e i talebani. È il simbolo della «insonnia di massa di questo tempo inaudito», come scrive Don DeLillo nel suo ultimo libro (“Il silenzio”, Einaudi 2021), dopo aver raccontato l’uomo che cade, simbolo dell’attentato delle Twin Towers a New York e oggi, anche, dei voli che fuggono da Kabul con i disperati aggrappati alle ruote degli aerei che precipitano nel vuoto. L’insonnia di massa si accompagna al sonnambulismo delle classi dirigenti, tipico delle età di transizione come quella della prima guerra mondiale nel 1914 raccontata dallo storico Christopher Clark.
Per l’Europa tutto avviene nel momento più pericoloso, del vuoto di leadership. L’Inghilterra di Boris Johnson aveva chiesto agli Stati Uniti di prolungare la permanenza nel Paese asiatico, ma non è stata neppure presa in considerazione, mai è stata più visibile la distanza tra i governi dei due Paesi. La Francia di Emmanuel Macron è già attraversata dalla campagna elettorale per il voto presidenziale del 2022 e prepara un secondo caso Afghanistan, nel cuore dell’Africa, come ha scritto Domenico Quirico (La Stampa, 20 agosto) e come ripete da tempo in solitudine Romano Prodi, che fu mediatore Onu nella regione: il Sahel, dove si incrociano le ondate migratorie, i nuovi califfati, le guerre delle milizie locali, in cui le truppe francesi faticano a reggere la pressione e invocano l’aiuto europeo, sempre comodo nel momento di socializzare le perdite.
E c’è la Germania arrivata ormai alla vigilia del voto del 26 settembre in una situazione di massima instabilità. I sondaggi per la prima volta danno in testa addirittura la Spd del vice-cancelliere Olaf Scholz, guarda chi si rivede, la cara vecchia socialdemocrazia, quello del 24 agosto è stato l’ultimo vertice G7 di Angela Merkel, affrontato con il consueto professionismo politico. E nessuno a questo punto può escludere la formazione di un governo rosso-rosso-verde, con la Linke in maggioranza e i democristiani all’opposizione, che segnerebbe una svolta epocale. Ma questa è l’età dell’emergenza e dell’incertezza, anche sul fronte della lotta alla pandemia. Dai Paesi che hanno cominciato in anticipo le campagne di vaccinazione, Israele e Inghilterra, arrivano notizie poco rassicuranti sulla ripresa dei contagi e dei decessi. Se l’onda dovesse ripetersi nell’Europa continentale il dibattito cambierebbe verso anche sull’uso del green pass e sull’obbligo del vaccino.
Nell’età dell’incertezza il 31/8 per il governo Draghi doveva essere la data della ripartenza. L’anticipo della riapertura delle scuole e il ritorno alla normalità della produzione, con qualche sgradita novità (l’Inps non pagherà più il periodo di quarantena). E un percorso di fine legislatura che si fa più stretto, in vista delle elezioni per il nuovo presidente della Repubblica di inizio 2022. Per la politica italiana è l’incognita, l’enigma cui sono appesi tutti gli scenari. La scadenza interessa Draghi, 74 anni il 3 settembre, ma in gioco non ci sono soltanto le preferenze del premier. Finora la sua disponibilità a guidare il Paese in mezzo all’emergenza sanitaria e economica è stata ottenuta senza richieste, garanzie, assicurazioni. Mario Monti nel 2011 fu nominato senatore a vita da Giorgio Napolitano qualche giorno prima di essere incaricato di formare il governo. Nel caso di Draghi la chiamata di Sergio Mattarella è arrivata in apparenza all’improvviso e senza precludere nessun passaggio successivo, da Palazzo Chigi al Quirinale, ma anche senza prefissarlo. Tutto è aperto.
All’inizio del 2021, in piena pandemia, soltanto due governi occidentali hanno cambiato governo. Gli Stati Uniti con Biden e il ritorno dei democratici alla Casa Bianca, dopo i quattro anni di Donald Trump, nel clima drammatico dell’assalto al Congresso di Washington il 6 gennaio. E l’Italia, con il cambio a Palazzo Chigi tra Giuseppe Conte e Draghi, alla guida del governissimo di unità nazionale. Non c’è un rapporto diretto tra i due eventi, come immaginano i cercatori di complotti di casa nostra, ma è impensabile non cogliere il nesso tra il Paese motore dell’Occidente che provava a chiudere la stagione del populismo e l’Italia, il Paese europeo più attraversato dalle tempeste sovraniste, che tentava di includere in una nuova maggioranza le forze che negli ultimi anni si erano imposte con un messaggio anti-establishment, la Lega e il Movimento 5 Stelle.
Il ritorno sulla scena mondiale degli Stati Uniti del democratico Biden è stato il contesto internazionale in cui si è mossa finora anche l’operazione italiana del governo di unità nazionale. Il multilateralismo celebrato a giugno nel vertice in Cornovaglia è stato il terreno più favorevole per un leader globale come Draghi. Se quel contesto viene meno, come sta avvenendo in questi giorni di tragedia afghana, anche il governo italiano si troverà a muoversi nel vuoto. Che è un’opportunità per chi vuole rivendicare una leadership, in politica i vuoti si riempiono, gli spazi si conquistano, ma anche una maledizione, perché il vuoto di direzione risospinge ciascun governo nel recinto delle sue contraddizioni nazionali. Di fronte alla crisi afghana e all’arrivo dei rifugiati l’Unione europea rappresentata in modo scellerato in questo semestre dal presidente di turno, il premier della Slovenia Janez Janša, è tornata a dividersi, come nelle prime settimane della pandemia e del lockdown nel 2020. Nei prossimi mesi, senza la leadership forte dei Paesi più grandi, la Francia, la Germania, la Spagna e l’Italia, in un quadro inedito di in-fedeltà atlantica del Paese egemone, gli Stati Uniti, ogni Paese tornerà solo, fermo e immobile.
Il governo Draghi non è il governo dei migliori, alcuni ministri, tecnici e politici, si stanno rivelando inadeguati al compito, il premier è chiamato a fare gli straordinari. Appena si nuota fuori dal mare dell’emergenza sanitaria e economica escono allo scoperto le diverse visioni del mondo che una classe dirigente nel complesso moderata e ragionevole (più Giorgetti che Salvini nella Lega, per esempio) prova a tenere a bada, come si è visto anche nel civile confronto tra i segretari di partito al meeting di Comunione e liberazione di Rimini. Salvo poi ritrovarsi con situazioni imbarazzanti, come quella del sottosegretario leghista-mussoliniano Claudio Durigon o la nomina del direttore dell’Archivio centrale dello Stato Andrea de Pasquale da parte del ministro Dario Franceschini, contestata dall’associazione dei parenti delle vittime della strage di Bologna del 2 agosto 1980, da storici, intellettuali e da un pezzo dei partiti della maggioranza. Affidare l’attuazione della direttiva Draghi sulle carte della P2 e di Gladio a un dirigente che ha esaltato le virtù democratiche del fascista Pino Rauti può forse servire a mantenere in vita le ambizioni quirinalesche ma offende la ricerca di verità e giustizia sugli anni bui della Repubblica.
Senza un orizzonte l’Occidente si rinsecchisce, collassa, senza una speranza di futuro l’Atlante occidentale si chiude. E senza un rialzo dal sonno, senza un soprassalto dall’insonnia di massa, il governo Draghi si ritrova a navigare a vista in un mare difficile. Ma il risveglio non spetta a un solo leader, tocca a una classe politica che si impaluda nelle guerricciole a parole sui social e non riesce a trovare un linguaggio per rivedere le proprie categorie di interpretazione della realtà e il messaggio da dare al Paese. Il 31/8 è uno spartiacque, l’opposto della fuga dalle responsabilità cui stiamo assistendo a Kabul.
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