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#Sicilian Nouvelle
sciatu · 1 year
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ANTONELLO DA MESSINA - PARTICOLARI DELLE SUE MADONNE
IL LINK SBAGLIATO
Lo so, è colpa mia! Ma non ci potevo fare niente: l’uomo esperto della vita e delle situazioni, una volta che finisce in un guaio ne esce più forte, mentre un bradipo esistenziale quale sono io, rende il problema ancora più grosso! E questo è quello che è capitato a me: da uno stupido errore, ho creato un immenso casino che mi ha sconvolto la vita. E tutto è successo per uno stupidissimo e insignificante link spedito all’indirizzo sbagliato. Ora, è importante che ti spiego il contesto in cui tutto è accaduto. Io sono un restauratore, dono una nuova bellezza ad oggetti creati da artisti ormai morti, ad opere d’arte la cui luce è stata offuscata dal tempo e dagli uomini. Ecco si, questo è importante per conoscermi: io salvo e proteggo la bellezza nella sua perfezione ed idealità. Quindi, per dover lottare contro il tempo che tutto distrugge e annulla, i miei modi di fare sono lenti e studiati. Per cui non ho quell’approccio che hanno i giovani o gli uomini comuni con le cose e con le persone. Metabolizzo accadimenti e situazioni con il giusto passo, ne troppo lento, ne troppo veloce, per gustarne e capirne l’estetica e attraverso di essa, il senso unico che li caratterizza. Ma di questo cercare l’attimo che definisce il tutto, ora capisco e comprendo che vedevo e consideravo solo una superficiale, benché elegante, inutile apparenza. Questa mia abiura della vacua contemporaneità e illusorio modernismo è dovuta al fatto che la vera forza della natura che ci domina, perché rende vani i nostri sogni, non è il cielo, o il vento o il mare, ma quel Tempo contro cui lotto! Noi siamo quello che il Tempo ci permette di essere nel momento in cui dobbiamo mostrare noi stessi. Una sedia costruita nel 1800 era una sedia, adesso è un’opera d’arte, il simbolo di un’epoca. Per cui per me un oggetto antico, una poltrona, un settimanale, un ex voto, sono un testimone di quella vita che una generazione passa a quelle successive. Sono la prova di una o più esistenze e meritano rispetto, considerazione e la giusta valutazione. Per cui, dando più valore alle cose che alle persone, tratto (o dovrei dire trattavo) le donne, che sono la totalità dei miei clienti, in modo schietto e diretto, senza perdermi in manfrine o complimenti ipocriti e soprattutto senza considerarle importanti. Per motivi che poi spiegherò, ogni volta che permettevo ad una donna di diventare per me importante, ho poi dovuto pagare un prezzo altissimo fatto di infelicità e disperazione. Ma torniamo agli avvenimenti. Per fare contenta Mara, una mia vecchia amica che mi presentava sempre nuovi clienti e opportunità di lavoro, avevo accettato di dare delle lezioni di pittura a lei e ad alcune sue amiche. Non è che io sia un pittore eccezionale, me la cavo un po’ per via del lavoro che faccio e per la buona conoscenza che ho di storia dell’arte; in fondo, come si dice: in mezzo agli analfabeti chi sa scrivere il suo nome è già un letterato. Siccome all’epoca del Covid, ero rimasto senza lavoro, per riprendere i contatti e farmi qualche soldo, avevo accettato di fare qualche corso per allargare la clientela. Mi organizzai con Mara e riuscimmo a interessare alcune sue amiche di cui tre vennero un paio di volte e poi si persero dietro corsi di bachata o fiori di carta, mentre altre tre erano diventate assidue frequentatrici delle mie lezioni. Arrivammo quindi all’ultima lezione prima della pausa estiva e proposi di farla in un posto molto scenografico verso punta Faro, dove si domina lo stretto di Messina, subito dopo Ganzirri, in modo che dopo un paio d’ore di spennellate d’acquarello, potevamo sederci in uno dei tanti ristoranti locali e farci una sbafata di cozze fresche. Ovviamente a spese delle mie allieve. Essendo stato il promotore della uscita con mangiata, promisi di mandare qualche giorno prima dell’evento, l’indirizzo dove potevamo trovarci. Ovviamente me ne dimenticai e il mattino del giorno in cui dovevamo vederci, di fretta e furia, a causa di un quadro che stavo pulendo, mandai in fretta e furia quello che pensavo fosse il link della spiaggia dove dovevamo vederci e quindi continuai tranquillamente la pulizia del quadro che stavo eseguendo senza pensare ad altro. Ed ero tanto preso dal lavoro che arrivai sul luogo dell’incontro in ritardo, solo per scoprire che non c’era nessuno. Fu allora che guardai il cellulare che da quando avevo mandato il messaggio era rimasto chiuso nello zaino usato per portare colori e i quaderni dove dipingevo. Con mia grande sorpresa vi era una sfilza di messaggi “Ma Renzo, sei diventato matto? Non me lo sarei mai aspettato da te” Aveva scritto Mara due minuti dopo aver ricevuto il messaggio “Renzo, che cattivo gusto !! dovresti vergognarti” Aveva scritto Pinuccia aggiungendo una sfilza di faccine disgustate “Renzo ma niscisti pacciù?” Mi chiedeva Emma, la più grande delle gemelle Finocchiaro, mentre sua sorella Edda aggiungeva “si vidi chi jè tantu chi nun fai….” Stupito da quei commenti che le mie alunne mi avevano mandato andai ad osservare il link e notai subito che non era di Google-Map ma di Tumbrl. Eppure ero sicuro di aver copiato il link giusto. Aprii il link e mi trovai a vedere una scena di sesso spinto che neanche Rocco Sifreddi avrebbe mai concepito nei suoi momenti di maggior vigoria. C’era una signora con solo una parte dei vestiti, che dopo essersi deliziata leccando il cannolo del partner, ne faceva uso ed abuso, concedendo all’energumeno ogni suo orifizio ed evidenziando le prestazioni del mandrillo con un piacere urlante anche quando si lasciava tirare i capelli e ricevere grandi manate nel considerevole posteriore, mentre l’infoiato verro, citando i racconti del Decamerone, la possedeva “come in uso tra i cavalli dei Parti”. Provai una enorme vergogna pensando alle mie attempate signore della Messina bene che assistevano stupite e schifate al messaggio che avevo mandato loro. Una profonda e immensa vergona!  In quale abisso ero finito: da maestro d’arte a viscido spacciatore pornografico. Avevo poi dato a quelle annoiate e insipide signore la possibilità di ridicolizzarmi agli occhi di tutti i nostri conoscenti. Che orribile malafigura!! Cercai di capire come avevo mandato quel link assurdo e volgare, che solo quello stupido e fancazzista del mio amico Salvatore avrebbe distribuito tra i suoi conoscenti di ambo i sessi. Fu questa constatazione che mi fece risalire alla dinamica del mio sbaglio. Salvatore, appunto, mi aveva mandato uno dei suoi laidi link, aggiungendovi il solito commento ambiguo e di bassa lega. Mi era sembrato però un link fasullo, perché clickando non faceva partire la pagina web. Lo avevo quindi copiato per incollarlo sul web e vedere di cosa si trattasse. La pagina però veniva caricata molto lentamente ed io l’avevo chiusa, stanco di stare dietro alle stronzate di Salvatore. Probabilmente il link era rimasto in memoria e, preso dalla fretta, lo avevo incollato al posto dell’indirizzo della riunione e li era successo il patatrac, facendomi cadere addosso il mare di escrementi vari in cui stavo affondando. Io non sono un tipo ansioso, ma sapermi ridicolizzato nei salotti bene di Messina mi inquietava. Presto l’inquietudine divento ansia e l’ansia terrore! Passai la notte a pensare a tutti i miei clienti trattarmi da idiota; le confraternite religiose, di cui curavo gli antichi quadri e le tarlate suppellettili, mettermi al bando e cacciarmi con ignominia dai loro circoli; i prelati di campagna che mi portavano vecchi crocifissi anneriti ed ex voto infantili pagandomi con capretti e uova fresche, li immaginavo maledire il mio studio, quella stanza dall’odore di acquaragia e resine pregiate in cui avevo rinchiuso la mia vita per proteggerla dalla barbaria e dal cattivo gusto che la circondavano. Dopo il periodo del covid che aveva asciugato le mie risorse, tutto mi stava crollando addosso per uno stupido, maledetto link. Passai la notte in bianco, maledicendo Salvatore e le tecnologie moderne. Il giorno dopo uscii di casa molto presto, vagabondando per il quartiere pensando a cosa fare. Arrivai alla chiesa del Gesù e come sempre facevo vi entrai non per un qualche motivo religioso o morale, ma solo perché lì c’era la prima opera che avevo restaurato, la cornice barocca che circondava la statua di San Rocco, un’opera molto venerata. Don Nino, il parroco della chiesa, aveva ricevuto una cospicua donazione dal Commendatore Andò che nella chiesa aveva fatto celebrare le nozze della figlia. Con una piccola parte della donazione, mi aveva pagato per il restauro della cornice. Io avevo accettato di buon grado perché ero proprio agli inizi e fino ad allora non avevo avuto nessun cliente che non fosse un mio parente che, ovviamente, si guardava bene dal pagare. Il restauro attirò su di me l’attenzione dei benestanti del quartiere e piano piano, incominciai ad avere la giusta clientela. Guardavo la cornice di San Rocco quando sentii la voce di don Nino alle spalle “È sempre bella, non è vero?” “Certo – risposi felice di vederlo – sempre più bella. Ma occorrerebbe pulirla un po'” “Magari quando troviamo qualche soldino da spendere per la chiesa: ora abbiamo troppi poveri. Ma dimmi, come và, ti vedo preoccupato” Don Nino riusciva a capire i miei stati d’animo anche se mi fossi messo una maschera. Era per me un buon amico e senza di lui sarei stato solo un fallito per cui decisi di accennargli dei miei pensieri. “È che ho fatto una minchiata, forse ho offeso qualche signora e non so come uscirne” Don Nino salutò una vecchia signora che passò nella navata. “Come stà tua moglie” Chiese improvvisamente con un ghigno che se non l’avessi conosciuto mi sarebbe apparso maligno “Don Nino!! Lo sa che io di quella persona non voglio parlarne, non ne voglio sapere: Quella per me è morta!!!” “Ed è per questo che da quando ti ha lasciato non esci più da tuo laboratorio” “Don Nino ma questo chi ci ntrasi? Stavo parlando di un mio problema e lei mi tira fuori quella … quella … non le dico cosa perché siamo in chiesa…” “Ci ntrasi, ci ntrasi – fece sornione don Nino – perché se tu fossi andato a cercare tua moglie e trovandola le avessi chiesto, guardandola negli occhi perché ti aveva lasciato dopo un mese di matrimonio, uno sposalizio con duecento invitati e otto anni di fidanzamento ufficiale dopo quattro anni di giochi erotici e sbaciucchiamenti da fidanzatini, ora sapresti cosa fare! Andresti da chi hai offeso e guardandolo negli occhi diresti “scusa amico mio, scusa, ho sbagliato!” E invece no, ti perdi a pensare come farti perdonare, cosa dire, perché e percome hai sbagliato! Ti chiuderai nel tuo laboratorio indeciso su come affrontare il problema e pensando e ripensando consumerai i tuoi giorni, la tua vita dentro ad una stanza, come un carcerato! Prendi coraggio e vai da chi hai offeso chiedendo scusa, inginocchiati ai suoi piedi pur di riavere la sua amicizia ed evitare di essere sempre più solo!” La forza con cui don Nino mi disse il suo pensiero rimbombò nella navata ed i sacrestani che stavano mettendo in riga i banchi si voltarono a guardarci. Alzai una mano come per rispondergli ed argomentare quel suo rimprovero che pensavo immeritato. Ma non mi usci parola. Allora mi girai e a passo veloce, furioso e disgustato, me ne andai. Fuori dalla chiesa camminai mormorando tra me e me. Urtavo persone che mi lanciavano improperi e maledizioni, attraversavo strade dove le macchine facevano stridere i freni per non investirmi. Ne dicevo di tutti i colori nei confronti di don Nino, ma sapevo che aveva ragione, che da quando mia moglie mi aveva lasciato il mondo per me era come morto. Se non fosse stato per i pochissimi amici che avevo, non sarei uscito dal mio laboratorio. Vedi all’inizio, quando ho cercato di descrivermi, non ti ho detto di mia moglie perché …  perché non ci riesco! Tanto è stato per me il trauma che ancor nel dover parlare di quei momenti mi sale una rabbia che non so trattenere e controllare. Non è solo una persona amata da sempre che improvvisamente ed inspiegabilmente se ne è andata, ma anche tutta la mia giovinezza, tutta una concezione del mondo dove certezze come l’amore, la fiducia negli altri, l’ottimismo, la sicurezza dei rapporti finiva improvvisamente. Come fai a credere negli altri, ad aver fiducia in chi incontri per strada se dall’oggi al domani, chi ti giurava amore infinito se ne va svuotandoti la casa e il conto corrente, dicendo che gli avevi rotto le scatole con la puzza dell’olio dei mobili e le soluzioni di bicarbonato per pulire i quadri. Come fai a credere all’amore, all’amicizia, a tutto quello che ti spinge a vivere se hai capito che non esistono. Non possono esistere. Io lottavo per fermare il tempo, l’estasi della bellezza assoluta. Lei aveva invece cancellato metà della mia vita uscendo da essa. Il suo potere era stato più forte del mio. Fu un periodo orribile, passato a fissare le pareti del mio studio come se fossero le onde del mare al tramonto. Ne sono uscito lentamente grazie all’aiuto di qualche amico. Ad esempio, il corso di pittura richiesto da Mara forse era stato inventato da lei più per aiutare me che le mie allieve a dipingere. Don Nino aveva ragione: dovevo trovare il coraggio di chiedere scusa. Il suono di un clacson mi svegliò dai miei pensieri nel mezzo del Viale San Martino,  circondato da macchine impazienti. Mi guardai intorno e vidi che ero vicino alla casa delle gemelle Finocchiaro. Senza esitare mi diressi verso il loro caseggiato e risoluto a contraddire don Nino salì al loro piano suonando alla loro elegante e ricca porta di casa. Sentii un ciabattare e un chiavistello girare più volte e quando la porta di mogano antico si aprì, mi apparve una delle gemelle con un prendisole turchese, pieno di ricami da cui si vedeva balenare la candida pelle. Ora devo dire due cose delle gemelle. La prima è che sono perfettamente uguali. Loro dicevano che era facile riconoscere chi erano perché Emma, quella sposata portava la fede, mentre Edda che non lo era, portava all’anulare un anello con un rubino. Spesso però avevo la sensazione che si scambiassero l’anello per confonderci. La seconda cosa che devi sapere è che si comportano come se fossero una sola persona. Dipingevano sempre insieme usando uno stile che ricordava i pittori naif della Jugoslavia degli anni ‘80. Una di loro iniziava a dipingere da una parte e l’altra dalla parte opposta muovendosi entrambe, in perfetta sincronia, verso il centro del quadro. Benché non si parlassero e non avessero pianificato il quadro, le due parti del quadro si integravano perfettamente e non si vedevano differenze di stile o dimensioni tra la parte di destra e quella di sinistra. Erano quadri dove erano rappresentate isole mediterranee con tante piccole candide case messe una sull’altra, mentre scendevano verso il mare in un rigoglio di palme e buganvillee. Le case e le stradine che le percorrevano, erano popolate da centinaia di piccoli uomini e donne impegnati in mille attività come piccole rosee formiche in un candido formicaio. In basso a destra si firmavano con la figura di una bambina che era formata da due metà ricongiunte, ma per notare questo particolare bisognava guardarla attentamente. “Renzo, che bella sorpresa” Mi disse una gemella in turchese quando mi aprì la porta “Mi fa piacere vederti” Aggiunse l’altra arrivando ciabattando da un lungo corridoio vestita con un coprisole ocra. Entrambe erano vestite come i personaggi dei loro quadri. “Vieni, entra, prendi qualcosa con noi” Fece quella che mi aveva aperto e presa la mia mano, mi tirò dentro casa sua “Meno male che sei venuto mi stavo annoiando” Aggiunse l’altra spingendomi in un lungo corridoio che dava su molte stanze tutte arredate in modo classico con alle pareti i grandi quadri colorati che dipingevano. Mi fecero sedere in un piccolo salotto con un divano molto largo e pieno di grandi cuscini. Sul tavolino in onice erano sparsi disordinatamente libri, riviste e scatole di torroncini e confetti. Sparirono e riapparirono subito dopo portandomi un gran bicchiere di acqua tonica in cui galleggiava della granita al limone. Parlammo del caldo che imperversava e dello scirocco che svuotava le strade e a loro faceva venire il mal di testa, fino a che non misi giù il bicchiere e, schiarendomi la voce, iniziai il discorso che mi ero preparato. “Ecco … sono venuto per quel link che involontariamente vi ho spedito … volevo chiedervi … scusa” “O veru? …. Scusa  mi volevi chiedere ….?” Iniziò quella seduta accanto a me a destra e quella seduta a sinistra finì la frase “… E picchì ti scusi per quella stupidata …?” “Mi ha fatto divertire ….” “…. E ti confesso, ma non lo dire a mio marito …” “Lui è all’antica, non capirebbe …” “Mi ha fatto venire un po' di voglia…” “voglia di passione, un fuoco proprio li …” “Intenso ….” “feroce ….” “Una cosa mai provata …” “ma forse desiderata …” “ tu quelle cosa, dimmi … le hai mai fatte ?…”” “… si, si tu sotto sotto chissà quante ne fai…” E sentii una mano scivolarmi lungo la coscia “… magari ti ha spinto a spedire quel filmino un qualcosa di inconscio, un desiderio mai confessato … “ “ma fortissimo! Anche a me capita …” “di provare sanazioni proibite, pensieri libertini…” “ ma in fondo, umani siamo” “le tentazioni, dentro di noi sono” E senti il calore di un paio di generose minne premermi contro il petto “per questo il tuo… è sicuramente un messaggio d’aiuto …” “un messaggio… alle tue amiche …” “ e hai fatto bene a mandarlo!” “Ora sò che quello che sento io anche tu lo senti: hai lo stesso pensiero….” “abbiamo gli stessi desideri” “ e ai desideri non bisogna resistere: fa male … “Fisicamente e moralmente…” “Se un desidero è onesto, perché resistergli?” “… devi soddisfarlo, se vuoi vincerlo… “ “Così staresti meglio … ti sentiresti libero” “e anch’io starei meglio …” “mi passerebbe il mal di testa” “mi rilasserei …?” Sentivo il loro respiro sul collo, una mano era salita alla base della coscia e richiamava l’attenzione del locale residente, mentre un'altra mano, dalla parte opposta aveva vinto la resistenza di un bottone della camicia e stava esplorando con dita calde ed esperte, il mio petto. Non sapevo cosa fare, o meglio, lo sapevo benissimo, mi sarei dovuto alzare e lasciar perdere quelle due sirene assatanate. Ma i loro corpi contro il mio, quel sussurro con cui mi tentavano, la carestia sensuale che provavo da quando quella donna che aveva giocato a fare la moglie per poche settimane se ne era andata (portandosi via corredo e regali di nozze), mi impediva persino di concepire l’idea di muovermi, di fuggire a quell’ipnotico desiderio di essere sbranato sensualmente. “Ma … tuo marito?” Cercai di dire ricordando loro impegni morali e sentimentali così che (loro) finissero quella inattesa e bellissima seduzione di un incapace (io), di un inesperto (sempre io ), di un maschio minchione e fissa (ancora io) e quindi innocente, assolutissimamente innocente. “mio marito è una persona eccezionale” “… lui è in mare, è capitano su una nave…" Fece qualcosa di umido che mi esplorava l’orecchio “… starà li per altri due mesi …” Rispose la mano che apriva la mia cintura “è intelligente, capirebbe” “Poi lui fa l’amore a metà….” “… non accetta il fatto che io sono una… “ “ in due corpi” “Che deve amarmi due volte …” “entrambi i corpi” “… perché io abbia un unico piacere …” “… ma se lo sa mi ammazza” Azzardai come ultima disperata e debole difesa “… non lo saprà mai e poi” “… gli abbiamo detto che sei gay ” “… che tua moglie ti ha trovato a letto con un negro…” Capisci? Oltre la notorietà di possibile cornuto, avevo anche la fama di probabile gay. Ma quello che ero per il marito di Emma, in fondo non mi interessava perché ormai non parlavamo più. Cosa stava succedendo è inutile dirtelo e a ripensarci non ricordo tutto quello che era accaduto, perché il mio cervello è troppo piccolo per ricordare tutto il piacere che le gemelle mi facevano provare. Ricordo solo che l’intimo di una profumava di rose e che quella dell’altra di tuberose e che la prima era dominante esigente, predatrice, un amazzone volitiva e golosa. Tuberosa era invece succube, generosa, disponibile, pronta a donare quanto la sorella pretendeva, a non negare quanto la sorella non voleva. Ma non farmi dire altro. Ti dirò solo che insieme avevano tutti i desideri, i capricci, le voglie che una donna ha. I corpi di Rosa e Tuberosa erano abbondanti come le donne dei quadri di Rubens eppure leggeri, quasi evanescenti aerei, come le donne del circolo dei canottieri di Renoir, felici come le Mademoiselle d’Avignone di Picasso e oscure, impenetrabili come gli occhi senza anima delle donne di Modigliani. Scoprii nuovamente che le donne sono come il sole a primavera che dona vita agli alberi e ai fiori, come la pioggia nel deserto capace di far fiorire l’arida sabbia. Quando la sera, distrutto nel corpo e rinato nell’animo tornai nel mio laboratorio di restauro, mi accorsi che era piccolo, troppo piccolo per contenere il piccolo pezzo di paradiso che le gemelle mi avevano donato. Compresi anche la loro solitudine, quella che nasce dal non poter essere di fronte al mondo, quello che ci sentiamo di essere, quella disagevole sensazione che nasce dal mostrare a tutti solo una minima parte di quanto siamo. Quella sera nella casa vuota, mentre osservavo allo specchio i graffi, i morsi che mi avevano lasciato sulla pelle, mi sentii anch’io come loro la metà di una persona, privo di quel gemello con cui poter essere un individuo completo. La metà che mi mancava non era quell’essere odiato che mi aveva lasciato, ma tutte quelle anime spaiate che conoscevo o che avrei potuto trovare e che invece, chiuso nel mio laboratorio, non avevo incontrato e forse avevo perso per sempre. Il giorno dopo mi alzai frastornato. Mi misi a lavorare di lena, ma ogni pezzo di legno che scartavetravo era un pezzo della coscia di Profumo-di-Rosa o Tuberosa; ogni pennello che usavo per distendere gli oli o le resine, mi ricordavano i loro capelli, accarezzati, stretti, tirati e rilasciati con i loro sospiri di piacere. Me ne andai a metà mattinata e mi diressi deciso verso casa di Pinuccia. Dovevo ancora chiedere perdono alle altre amiche e lo facevo volentieri perché ormai avevo capito che anche loro potevano essere sole come me e che il link sbagliato che avevo inviato poteva essere un motivo per non esserlo più. Stavo per suonare alla porta di Pina quando questa si aprì improvvisamente e una vecchia signora, seguita da una ragazza down uscirono. “Marti ti sei presa la sciarpa?” gridò la voce di Pinuccia da dentro casa “Si mamma, non ti preoccupare” Rispose la ragazza “Non fare sforzi “ “Si maaa” Rispose seccata Marti “Cercavo la signora Lo Cascio “ chiesi alla vecchia signora stupita di vedermi proprio di fronte a lei “È intra – fece la vecchia, ed alzando la voce gridò – Signora a stannu ciccannu” E presa Martina per mano entrò nell’ascensore “Chi è? - Fece Pinuccia apparendo sulla porta, vedendomi esitò qualche secondo  e poi mi disse quasi seccata – entra” Entrai colpito dall’assenza di entusiasmo con cui mi aveva accolto Mi fece entrare in salotto e senza chiedermi di accomodarmi mi chiese “Cosa vuoi?” “Ecco … volevo scusarmi per quel filmetto che ti ho mandato … è stato uno sbaglio un errore deprecabile dovuto alla mia superficialità … scusami …” Lei mi guardò freddamente. Io ti confesso che quello sguardo mi fece male. Pina era una signora dai modi aggraziati, aveva due occhi chiari perennemente tristi sotto una chioma di capelli scurissimi, un naso importante che colpiva e ammaliava. La sua pelle era sempre chiarissima ed il corpo tonico, senza un filo di grasso. L’avevo vista una volta in bikini e mi era apparsa come una di quelle sculture delle ballerine di Francesco Messina: perfetta e seducente. Vederla così fredda e arrabbiata mi dispiaceva “”Scusami”…. Vieni qui e mi dici “scusami” … prima mi mandi quelle cose volgari e degradanti, dove le donne son trattate da bestia e poi mi dici “scusami”” E fece una faccia che mostrava solo di disprezzo “Ma no, è  stato uno sbaglio … era un semplice film … “ “Non era un film – gridò feroce quasi saltandomi addosso – non è mai solo un film quando si fa del male è … una porcheria … un sopruso che il vostro egoismo di uomini fa passare per “amore”, per “piacere”” “… ma  veramente …” Cercai di difendermi “È stato un atto disgustoso mandare a me che quella violenza l’ho subita, un film che me lo ricordasse” “Ma no Pina io…” “Sei un vigliacco  un porco come quello che mi violentò a quindi anni e mi ha messo in cinta di Martina … sei un mostro … siete tutti dei mostri” Urlò disperata e nascondendosi il volto tra le mani incominciò a piangere “Ma io … non …” Balbettavo sopraffatto dalla sua reazione, dalla sua storia che non conoscevo, che non sapevo e volevo quasi quasi andarmene, fuggire da quella situazione imbarazzante e sgradevole. Non sapevo cosa fare e non so perché mi venne in mente don Nino e la sua voce che gridava di gettarmi in ginocchio per chiedere perdono. Preso dalla disperazione mi avvicinai a lei e cadendo in ginocchio ai suoi piedi l’abbracciai stringendole le gambe. “Scusami, scusami, scusami, non volevo farti del male, sono uno stupido, un coglione, ma non voglio, non sarei mai capace di farti del male. Sono venuto solo a scusarmi perché è stata una cosa da imbecille ma non sapevo cosa ti era successo, e mi dispiace che questa bambinata ti abbia fatto tanto male. Non avrei mai voluto, non saprei mai farti del male” ripetei, rallentando quel mio dire esagerato e velocissimo che era il frutto della mia sorpresa, del mio disorientamento di fronte al suo dolore. Continuai più lentamente “tu sei speciale, sei la persona più gentile e generosa che abbia mai conosciuto, io non posso volere o desiderare il tuo male. Soprattutto ora che so quanto hai sofferto, quanto stai soffrendo. Pensavo di essere l’unico ad essere stato preso a schiaffi dalla vita. Ma ora so che tu non sei stata più fortunata di me e questo mi dispiace perché avrei voluto che la vita fosse stata più generosa con chi ritengo migliore di me.  Scusami di non aver fatto rinascere il dolore che ti porti dentro.” Lei scivolo tra le mie braccia e mettendosi anche lei in ginocchio mi abbracciò “ La vita mi ha sempre violentato. La prima volta a sedici anni, la seconda quando è nata Martina che malgrado tutto aspettavo con amore, poi quando l’ho dovuta crescere da sola senza l’aiuto di nessuno, quando ho incontrato mio marito che poi è morto in un incidente, privandomi della nuova vita che mi ero costruita. Ed ora, con il tumore che ha Martina l’incubo ricomincia. Lunedì dovrò portarla in ospedale, poi le  medicine, la chemio, le visite e lei dovrà pazientemente sopportare tutto ed io con lei! Ora tutto rincomincia, sono di nuovo all’inizio di un altro calvario” Restò in silenzio qualche secondo, sempre stretta a me “Sono stanca. Vorrei che tutto finisse perché non ce la faccio più.” Chiuse gli occhi e appoggiò la testa sulle spalle senza più dire o muoversi Sentivo il suo corpo tra le mie braccia e non era quello delle gemelle, con un calore solare e un desiderio vitale. Era un fragile guscio che conteneva un anima che aveva attraversato tempeste e soprusi , senza un momento in cui avere la giusta pace e la desiderata serenità. “Lunedì vi accompagnerò io. – esordii improvvisamente - Vi starò accanto e affronteremo insieme tutto quello che c’è da fare: non sarà un altro calvario. Tu hai superato tanti momenti brutti, saprai superare anche questo momento, poi hai le tue amiche, ci sono io: ti difenderemo dal destino e gli impediremo di farti del male.” Lo so: le mie erano semplici e probabilmente inutili parole. Esageravo nel sottovalutare il problema e nel vantare la soluzione, ma in quel momento ci credevo veramente. Sapevo fermare il tempo che divorava la bellezza di mobili e quadri, avrei saputo fermare anche il destino perché ancora una volta non travolgesse Pina e Martina. Ma più di tutto, sapevo, perché me lo aveva insegnato l’arte che curavo, che i sogni vivono più a lungo dei sognatori che li avevano creati, e che illudersi e credere nelle proprie illusioni era l’unico modo di santificare la vita, la propria e quella degli altri vincendo quel nulla da cui diamo nati e in cui scompariremo. Lei si staccò da me guardandomi, poi sorridendo anche se aveva gli occhi lucidi “Non ti sapevo così determinato! Vuoi proprio il mio perdono” “Mi hai già perdonato - le dissi asciugandole gli occhi -  e hai fatto bene. Chi non sa perdonare è come se volesse fermare la vita, ma questa, non la può fermare nessuno e alla fine, la vita lo schiaccia. A me è successo questo dopo che mia moglie mi ha lasciato. Non volevo che tu facessi lo stesso errore.” Sentimmo girare la chiave nella serratura e ci alzammo velocemente. Martina entrò felice mostrando alla madre le medicine comprate. Io salutai e Pina mi accompagnò alla porta. “Allora lunedì passo a prenderti ed andiamo al Papardo. Non ti dimenticare” “Ma Renzo, non so se è il caso …” “Lo è! Fidati” Ed entrai in ascensore. Per strada camminavo lentamente pensando a tutto quello che era successo. Pina dipingeva di preferenza le nuvole. Quelle di un azzurro purissimo sfumate di rosa simili a quelle degli affreschi del Tiepolo e quelle cupe e color piombo della Tempesta di Giorgione. Ora capivo che nel dipingere cercava un po' di pace e voleva esorcizzare le ansie che l’assalivano. Lei non si era rinchiusa in una stanza perché non poteva, ma non di meno, come i miei, i suoi giorni erano senza sole e serenità. Fino a quel momento avevo tenuto lontano tutto e tutti ritenendo che “gli altri” si fossero presi più di quanto mi avessero dato, lasciandomi in una tribolata solitudine mentre loro vivevano immersi in una normalità viscosa e soporifera ma serena e forse, felice. D’improvviso invece, persone che ammiravo perché parte dello sfondo luminoso che circondava la mia oscurità, mi avevano mostrato le loro inquietudini e difficoltà. Non ero quindi un’anomalia, un diverso obbligato ad un infelice malinconia per tutto quello che avrebbe potuto avere e che gli si era rivoltato contro. Ero solo un comune infelice dei tanti, uno qualunque senza peso e senza alcuna importanza. Infelice come lo era anche chi mi circondava.   Avevo bisogno di parlare con Mara. Lei era il mio punto di riferimento, in ogni momento difficile avevo trovato in lei un aiuto a chiarirmi situazioni e persone. Volevo capire cosa dovevo fare con le gemelle, con Pina e soprattutto con me stesso ora che un link del cavolo mi aveva costretto a fare i conti con un insospettato lato nascosto della realtà. Presi il mio furgone e mi diressi verso la casa della mia amica. Arrivato il portiere filippino mi disse che era andata nella casa al mare a Rometta, perché era il compleanno del figlio e volevano festeggiarlo al mare. Mandai un messaggio chiedendole se avesse tempo per me e mi rispose immediatamente di andare a trovarla aggiungendo di entrare dal cancello sul giardino. Andai direttamente a parlarle passando dal giardino senza suonare. Ai tempi del liceo  ero stato in quel giardino molte volte per le feste di compleanno di Mara o per le feste estive. All’epoca Mara era una ragazza con le curve delle donne di Botero, abbondanti e sensuali. Malgrado il sovrappeso e un leggero strabismo di venere, mi attraeva in modo particolare e avevo fatto diversi approcci per farglielo capire e passare ad una relazione più intima.  Non ero però abbastanza esperto per poterla sedurre o interessare, ed in fondo lei aveva già abbastanza malizia da neutralizzare i miei goffi tentativi.   Quello che di lei mi colpiva era la sua capacità di razionalizzare ogni sentimento e persona, una capacità in antitesi con  la mia mente creativa e caotica. Era quindi un valido punto di riferimento, una sicura certezza. Non so perché pensai che al liceo non riuscivo a capire come mai quel suo corpo fuori dalle regole della bellezza mi piaceva, mentre ora mi accorgevo che non era il suo corpo ad attirarmi, ma quello che conteneva: la sua costante serenità, la lucidità, la semplicità, la fermezza, la forza con cui affrontava l’ironia dei compagni di classe e le difficoltà della vita. E questo perché riteneva la vita troppo importante per sciuparla in malinconie ed arrabbiature. Entrai nel giardino e camminai tra gli alberi dei limoni e mandarini, ognuno chiuso in un quadrato di terra circondato da piastrelle di lucido cotto. Quella razionale disposizione mi ricordava i quadri di Mara dove paesaggi e persone erano suddivisi in forme geometriche perfette come quadrati, cerchi, triangoli equilateri, quasi la rassicurasse la perfetta disposizione spaziale di tutto quello che vedeva. La trovai sul dondolo che osservava  il suo cellulare . Era vestita con un kimono leggero, di fiori rossi su un fondo crema. Il kimono era stretto ai fianchi da una cintura che lo faceva aprire sul davanti mostrando, l’abbondanza del petto rinchiuso nella parte superiore di un bikini rosso. Mi fece segno di sedermi accanto a lei “Allora come và?” Esordi sorridendo e guardandomi da sopra i suoi occhiali che controllavano e bloccavano il suo strabismo di venere. “È che ho mandato quello stupido link e sono venuto a chiedere scusa.” “hai fatto tutta questa strada solo per questo? Ma era chiaro che non era cosa tua” “No, non è solo per questo. Ho chiesto scusa anche alle gemelle e a Pina e hanno reagito in un modo strano! Ognuna di loro in modo personale e comunque diverso da quello che mi sarei aspettato.” “È normale : ognuno reagisce per il carattere che ha, siamo in fondo tutti diversi” “Ecco è proprio questo: è normale che ognuno reagisca secondo il proprio carattere, ma la loro reazione mi ha fatto capire che non avevo compreso le loro personalità che non erano per come le pensavo o le conoscevo.” Sorrise allargando le rosse labbra lunghe quanto un sogno. “Ce lo hai spiegato tu: ognuno vede un quadro in un modo diverso perché lo interpreterà sulla base della sua esperienza: tu forse, le hai sempre giudicate sulla base del rapporto superficiale che avevi con loro. “Certo! Questo è normale ma, pur conoscendole da tempo si sono comportate come se non le avessi mai conosciute mentre invece è da un anno che le frequento. La continuità di una relazione fanno si che abitudine e consuetudine rivelano  chi ci stà accanto. Invece non è così. A questo punto mi chiedo: ma allora non conoscevo nel suo profondo intimo neanche la mia ex moglie, non conosco te, non conosco nessuno: e quindi non è possibile conoscere veramente qualcuno per quello che è, con i suoi problemi, manie, nevrosi? Vi sono sempre dentro di noi delle porte che non apriamo a nessuno, per questo nessuno in questo mondo riesce ad essere cristallino, trasparente: vero. E allora che senso hanno le frequentazioni, l’amicizia … l’amore? Se tutti nascondiamo agli altri quello che siamo veramente? Se siamo tutti fragili e prigionieri delle illusioni che ci creiamo per vincere la nostra solitudine? Che senso ha la vita, se è solo un palcoscenico dove tutti recitano di essere un altro e mai se stessi e mostriamo agli altri nei social o per strada, quello che è solo una nostra l’illusione creata per non essere schiacciati dalla realtà?” Restai qualche secondo in silenzio “Ecco, sono confuso” Lei sorrise di gusto “Sei confuso perché sei un uomo, hai la testa piena di rotelline che girano dove ognuna si muove spinta da quella prima per muovere quella dopo, per cui uno più uno è sempre e solo uguale a due. A noi donne questa logica non serve, noi sappiamo leggere anche quello che non è scritto, sappiamo già se il risultato è buono o cattivo indipendentemente dal dover sommare o sottrarre. Noi non avevamo bisogno del tuo link per capire chi sei.” La guardai aspettando che continuasse “E allora chi sono io?” “Un bietolone – rispose sorridendo allegramente -  uno che si perde dietro a un tavolo stile direttorio o un quadro di De Pisis senza considerare la donna che lo osserva accanto a lui” “Io non sono così” Osservai per difendere la mia dignità virile “E allora cos’è per te una donna?” “Un opera d’arte come le Madonne di Antonello da Messina, con lo sguardo che rivelano un anima e delle labbra che promettono l’estasi” Si mise a ridere poi si avvicinò e appoggio la testa con la lunga chioma al suo braccio destro e con la mano sinistra aggiustò il colletto della mia camicia rimasto a mezzaria dopo l’ultimo incontro con Pinuccia. “Una donna non può essere una statua o un quadro da ammirare. Una donna è anche emozione, sensualità, eleganza, passione, armonia, tenerezza, forza, istinto e mille altre cose. Tu di tutto questo hai deciso di vederne solo una piccola parte. Hai ridotto tutto ai minimi termini in esteriorità e coiti, per paura o disillusione e non ci capisci più. Quand’è l’ultima volta che hai vissuto desiderando, o sognato amando?” La guardai disorientato “E cosa dovrei fare per non essere il bietolone che sono?” “Quello che le gemelle e Pinuccia ti hanno detto di essere” Capii che lei sapeva tutto forse anche le cose più intime delle gemelle o che mi ero vergognosamente abbracciato alle gambe di Pina “ vuoi dire amante e amico…?” Chiesi dubbioso “Sei un restauratore, un signore di una certa cultura che restaura le cose e che non ha capito che anche le persone devono essere restaurate, devono essere pulite dalla patina dell’ipocrisia, dalla stanchezza del vecchiume che copre ogni esperienza per riavere le loro emozioni e far nascere delle speranze. Ognuno di noi è abbruttito dalla disillusione e dalla solitudine che ricopre, soffoca i suoi giorni, ognuno di noi vorrebbe levarsi le maschere che indossa per proteggersi o nascondersi e con te questo è possibile perché sei come un bambino onesto e sincero. Tu eri l’unico in classe che mi guardava dentro, cercando di capire cosa c’era in quel mio corpo orribile. E questo ti è rimasto. Non hai però capito che tutti noi vogliamo che il tempo si fermi; vogliamo tornare a provare i colori, i sentimenti della nostra gioventù, le sfumature nascoste delle nostre personalità e splendere come i vecchi quadri che tu pulisci facendoli tornare alla loro bellezza. Questo tu, sei abituato a farlo. Tu non fermi il tempo che divora un quadro! Tu ricrei le emozioni che quel quadro dona, ed è questo quello che le gemelle o Pina volevano e che tu hai dato loro: le emozioni che non riescono più ad avere” Era questo quello che mi era sfuggito: quello che le mie donne cercavano. Volevano riprovare le emozioni delle stagioni passate, riscoprire le certezze che la vita aveva sfigurato o cancellato. Volevano ritrovare quello che era stato rubato loro e per fare questo dovevano vivere, con il mio aiuto, le emozioni che la quotidianità gli negava. Le gemelle avevano bisogno di sentirsi quell’unica persona divisa in due metà come la firma nei loro quadri. Pinuccia voleva una presenza, un sostegno fidato, un amico affidabile e Mara? Mara cosa cercava ? Una donna è emozioni, aveva detto, ma lei era sempre stata neutra, imperturbabile, anche quando la prendevano in giro per le forme tonde e il leggero strabismo di venere. Aveva fatto del non mostrare emozioni il suo scudo invincibile. Con il tempo si era costruita una forma da elegante donna matura, con i fianchi larghi e con gli occhiali, ma anche con due gambe da ventenne e due spalle da campionessa di nuoto che potevano sostenere l’abbondanza del seno, quelle forme che, nell’insieme, la facevano sembrare una intramontabile fotomodella, con un fascino discreto ed intenso. Ma ancora, come al liceo, non mostrava mai emozioni e forse era proprio questo quello che dentro di se avrebbe voluto: mostrare e vivere quanto provava, quanto le dava piacere facendole gustare ed apprezzare la vita. La guardai ed osservai le lunghe labbra piegate in un sorriso ironico. Quelle labbra lunghe, sempre rosse e serene, mi erano sempre piaciute fin da quando eravamo al liceo, e forse il modo migliore per farla uscire allo scoperto era proprio farle capire cosa lei era per me “Ti ricordi quando con gli altri compagni di classe, siamo andati a fare il bagno a Falcone? In quarta superiore” Lei mi guardò stupita da quell’improvviso cambio di argomento “Si … Perché? Cosa c’entra ora?” “Ti ricordi che abbiamo fatto il gioco della bottiglia? Facevamo girare la bottiglia e chi la bottiglia indicava quando si fermava doveva baciare chi aveva di fronte?” “Si – rispose ridendo – abbiamo fatto baciare Carlo e Giovanni” “Ecco vedi – dissi facendo la faccia innocente e spostandole con un dito la falda del chimono – io mi ero allenato il giorno prima  e avevo studiato come far fermare la bottiglia su chi volevo” Lei osservò la mia mano scivolare dentro il kimono e e alzò gli occhi a guardarmi severa, ma non mi fermò “Allora quando toccò a me far girare la bottiglia gli diedi il colpo che avevo studiato e sei uscita tu” Mi guardò ancor più sorpresa mentre con l’indice scendevo sotto il costume e lentamente giravo intorno al suo capezzolo “Mi piacevi tantissimo ma mi evitavi sempre allora sono ricorso a questo trucco per baciarti, ed è stato bellissimo. All’inizio hai fatto resistenza, poi però la tua lingua è scivolata tra le mie labbra. Me lo ricordo ancora. Fu come un fulmine mi fosse entrato nel cervello illuminandomi l’anima e mi sembrò di esplodere, di essere diventato enorme tanto da abbracciare tutto l’immenso blu del mare. Fù la cosa più bella che ricordo di tutto il liceo.” Chinai la testa e appoggiai le mie labbra sulle sue mentre il suo capezzolo si irrigidiva, duro e complice del mio dito. Fu un bacio stranamente lungo e quando mi staccai continuai. “È passato tanto tempo ma quello che eravamo resta ancora in quello che adesso siamo. Io quel momento non l’ho dimenticato ed ogni volta che ti vedo, anche arrivare da lontano mi sembra ancora di sfiorare le tue labbra e di abbracciare l’immenso blu del mare. Se ti sognassi non vorrei più svegliarmi.” “Magari se avessi avuto lo stesso pensiero con tua moglie, lei non ti avrebbe lasciato” Osservò lei senza accidia o cattiveria “Se ne sarebbe andata in ogni caso. I nostri corpi si amavano ma tra le nostre anime non c’era quella amicizia, intimità e complicità che serve a riempire tutto il tempo di chi sta insieme.  L’amicizia è il seme dell’amore, è una piccola, primordiale, forma d’amore e senza di essa, l’amore non può esistere.” “Adesso, quella nostra amicizia del liceo, è diventata altra cosa. Il tempo passa per tutti” “Lo hai detto tu che sono un restauratore, che posso fermare il tempo e per me quel tempo e le emozioni che mi ha dato, sono rimaste esattamente per come le ho vissute” Mi chinai ancora una volta e la baciai con maggiore intensità. Per pochi secondi senti che lei mi rispondeva con la sua passione, ma subito le sue mani mi spinsero indietro. Quando stupito incontrai i suoi occhi, mi sembravano felici, ma la sua bocca mi gelò “Lunedi accompagno io Pinuccia e sua figlia al Papardo.” La guardai stupito. Sapeva ovviamente tutto e ora, al suo solito, stava riprendendo le redini della situazione. Prese la mia mano immersa nel calore del suo seno con due dita e la fece uscire da sotto la sua vestaglia “Pinuccia ha apprezzato molto la tua disponibilità e tutto quello che le hai detto - continuò con un tono tranquillo mentre chiudeva il kimono - Le hai ridato la fiducia nelle persone e nel destino. Ma quello della figlia è un problema di donne e preferisce che con lei vi sia una donna” “Ho capito. – feci seccato – da donna hai letto in noi due qualcosa che non andava bene, anche se non era scritto?” “Si, non possiamo tornare completamente indietro e saltando troppo in avanti faremmo solo del male a noi stessi e a chi vogliamo bene. Il restauro migliore è quello in cui si lasciano le cicatrici del tempo, le rotture i tagli sull’oggetto restaurato. Forse in quello che provi, ci credi, ma devi viverlo secondo le cicatrici ed i doveri  che la vita ha lasciato dentro di noi: per ora va bene così, non c’è bisogno di forzare la mano. Ho due figli, un marito che lavora per darmi tutto quello che io o i figli vogliamo. Loro hanno più importanza di quello che provavamo o che provo io adesso o che potremmo provare domani. Di egoismo si muore ed io non posso essere egoista e pensare solo a me stessa.” Devo aver fatto una brutta faccia perché sorrise e continuò “Anch’io, come Pinuccia ho apprezzato le parole e il gesto, ma la vita non risparmia chi si illude” Aveva ragione, la vita premia solo chi ha coraggio, io dovevo averlo allora quando mi ero accorto che lei era il mio immenso, infinito blu. Si alzò “È meglio che vai. Quello che proviamo al di fuori dell’amicizia non ha un futuro e quindi non può avere neanche una ragione o un motivo. Tra tutti i nostri obblighi ed impegni non ha né uno spazio per crescere ne un senso per vivere” Eccola li: razionale e indifferente, nemica di ogni passione ed emozione. Mi alzai seccato. Il suo volto era serio, forse turbato dalla conclusione che aveva tratto da sola per entrambi e per il nervosismo si mise con le braccia conserte quasi a tenermi lontano. La guardai. La odiavo mentre sentivo di non poterne fare a meno e questo me la faceva odiare ancora di più. “Oh capito ciao” Risposi seccato. Mi girai e mi incamminai incazzato verso il cancello. Era una presuntuosa, boriosa e seccante, come faceva suo marito a sopportarla? Mi fermai davanti al cancello. Il pensare a suo marito fece girare le rotelline del mio cervello. Un pensiero mi illuminò. Mi dissi che ero il solito bietolone che credeva a tutto quello che gli dicevano.   Avevo ancora una volta riassunto una relazione in sesso e apparenze come avevo fatto con quella stronza di mia moglie. Ma Mara non voleva solo la felicità di un attimo donata dalla carne anche se, a sentire il suo capezzolo, l’apprezzava. Avevo sbagliato nel semplificare i suoi bisogni, nel pensare troppo solo ai miei, nell’essermi alzato e nell’andare via offeso nella mia presunzione. Se si è capaci solo di fuggire e non si è disposti a fermarsi, a capire, a lottare per chi si ama, che amore è? Era questo quello che in fondo don Nino voleva dirmi. Mi voltai e tornai da lei sorridendo. Incominciai a parlare velocemente “Lunedi vengo con voi al Papardo e vi aspetto fuori. Quando Pina e Martina escono le accompagno a casa così puoi andare a prendere i tuoi ragazzi a scuola. Ora chiamo le gemelle e chiedo loro se sabato vogliono venire a Taormina. A Palazzo Corvaia c’è una bella mostra e penso che a loro piacerà. Inviterò anche Pina e Martina. Penso che faccia bene a Martina vedere Taormina e riempirsi gli occhi di sole e di mare prima di vedere le corsie dell’ospedale. Assumo che tu venga perché da quando mia moglie mi ha lasciato tu sei stata sempre presente, la prima a chiamarmi, l’unica a considerarmi e da allora non ti ho mai sentito parlare di tuo marito, non ti ho mai visto insieme a lui da nessuna parte a Messina, su Instagram o Facebook e nessuno di tutte le tue amiche, ne ha mai parlato al presente. I tuoi figli hanno più diritto di me, è chiaro, ma io sono il tuo unico diritto, quello a cui non puoi, non devi rinunciare se vuoi dare un senso ai tuoi giorni. Ai nostri giorni. Sei sempre stata quella che passava i compiti senza che nessuno te li chiedesse: hai sempre pensato per gli altri e mai per te stessa come adesso fai con i figli o con un marito che non lo è più. Hai sempre nascosto ogni emozione perché provavi solo quelle che ti facevano male. Ma sei una donna. Tu le emozioni le fai nascere, sai renderle eterne e sublimi: non puoi ignorarle. Io sono un restauratore e come hai detto faccio rinascere le emozioni invecchiate. Ma per me, le uniche emozioni che voglio rivivere sono quelle che mi hai dato quando ti ho rubato un bacio. Se tu il giorno dopo il primo bacio avessi accettato di venire ai falò, io non avrei incontrato mia moglie e non avremmo perso anni della nostra vita  per una stronza.  Non fare lo stesso errore di allora: se sai leggere anche quello che non è scritto, leggi quello che avrei voluto dirti ma che non vuoi sentire: la prima cosa che leggeresti sarebbe  “non aver paura a voler vivere le tue emozioni, la tua vita.”” Le sorrisi e me ne andai. In macchina pensavo che per un link della minchia ero stato sedotto da una donna che era la somma di due donne, ero l’amico fidato di una donna che la vita non aveva mai rispettato, ed ero l’ingenuo seduttore di un’altra donna generosa e pronta ad aiutare tutti, tranne che se stessa. Un casino. Come avrei fatto a gestire tutto? Come mi sarei diviso tra l’una e l’altra e il mio lavoro. Da che ero più solo di una bottiglia vuota che galleggiava in mezzo al mare, a che mi trovavo a condividere intimità e problemi con un harem di anime più sole della mia. Quasi mezz’ora dopo mi arrivò un messaggio, come al solito imperativo e pragmatico: “A Taormina vengo anch’io con Pina e Martina. Andiamo con il tuo furgone!” Passò qualche secondo e apparve un’altra parola come se prima di essere scritta dovesse essere razionalmente pesata e valutata, prima di essere irrazionalmente spedita “un bacio” Aveva fatto la sua scelta. Sapevo che sarebbe venuta anche lei. Perché a Mara le mostre d’arte sono sempre piaciute e chi ama il bello, non può fare a meno dell’amore. Ne ero sicuro perché come ti ho detto, l’amicizia è sempre un principio d’amore un seme che in un modo o in un altro diventa sempre un fiore e perché, come diceva don Nino, una vita, non può restare chiusa in una stanza piena solo di rimpianti.
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ottomanladies · 4 years
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[Murad IV] also brought the principal Sultanas to this pleasant place [the Yerevan Pavilion], like his mother, his sisters and those for whom he had more inclination. But he was there most often with a Sicilian whom he loved very much, and who, being perfectly beautiful and of a gentle spirit, obtained all that she wished from him. She was taken at sea by the Corsairs as she was going to Spain to marry one of the Greatest in the country; and the Pasha of Algiers sent her as a present to the Grand Seigneur, who gave her his affection and made her as happy as a woman can be in the prisons of the Serraglio.
translated from Jean-Baptiste Tavernier, Nouvelle Relation De L'Interieur Du Serrail Du Grand Seigneur (1678)
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why should we be here talking, arguing? Believe me Anna, words are becoming less and less necessary; they create misunderstandings
eclisse inspirations, vol. IV Michelangelo Antonioni’s Trilogy of incommunicability  part. 1 - L’avventura, 1960
When Michelangelo Antonioni’s L’avventura arrived in 1960 – amidst a tumultuous reception in Cannes that saw some disturbed audience members wanting to throw something at the screen – cinema was already changing in fundamental ways. The makers of individual, handmade films that had been institutionally kept out on the fringes (Stan Brakhage, Shirley Clarke, Norman McLaren, to name but three) were starting to draw more viewers and critical attention. The narrative feature film underwent a revision, from inside the nouvelle vague (Godard’s Breathless) and out (Agnès Varda’s first films, Alain Resnais’s Last Year in Marienbad). Meanwhile the Italian film world had already seen the old codes of neorealism swept away – much of it Antonioni’s own doing – and had moved towards a post-neorealist cinema liberated from melodrama and political ideologies, perhaps best exemplified in 1959 by Ermanno Olmi’s first feature Time Stood Still.
A new, maturing modernity became widespread in cinema. The years 1959 to 1960 can be identified as a world-historical moment for film. In line with the development of lenses, film stocks and new and smaller cameras (including a more ubiquitous use of 16mm), the modernism that took hold showed yet again the time lag after which cinema typically comes to embrace changes that have occurred first in other artforms: for instance, the radical overhaul of jazz by bebop; the transformation of the sound world of music by such figures as Edgard Varèse and Harry Partch; the abstract-expressionist movement in painting from Pollock to Rothko; the ‘new novel’ invading literature (on which Marienbaddrew, courtesy of a script by novelist Alain Robbe-Grillet).
In this exceptional moment, some of cinema’s old props were being kicked away, including Hollywood’s genre formulae, the three-act narrative structure, the privileging of psychology, the insistence on happy and ‘closed’ endings. But what did it mean to free oneself of the securing laws and traditions of genre, its capacity for creating worlds and codes? What did it mean to reject a storytelling architecture that had served dramatists well since Aeschylus? What kind of moving-image experience with actors could exist beyond psychology – which, after all, was still on the 20th century’s new frontier of science and society? What if endings were less conclusive, or less ‘satisfying’? These are the questions Antonioni confronted and responded to with L’avventura, the film that – more than any other at that moment – redefined the landscape of the artform, and mapped a new path that still influences today’s most venturesome and radical young filmmakers.
For some that film would instead be Breathless. Godard’s accidental discovery of the jump cut (courtesy of his editor) helped him rejig a more conventional yet sly imagining of the crime movie into a piece of radical art, a way of fracturing time as important as Picasso’s and Braque’s Cubist fracturing of space and perception. It’s also arguable that Godard had the more immediate impact, especially through the 1960s, since his taste for pop-culture iconography, graphic wordplay and politics positioned him a bit closer to the centre of the period’s cultural zeitgeist than Antonioni (despite the Italian’s subsequent ability to capture swinging London and The Yardbirds in 1966’s Blowup, and Los Angeles counterculture in 1970’s Zabriskie Point). Even a movie with huge pop figures and crossover attraction like Richard Lester’s A Hard Day’s Night (1964) would have been unthinkable without the example of Godard.
Yet I’d argue that L’avventura and Antonioni’s subsequent films – perhaps most importantly L’eclisse (The Eclipse, 1962) – have exerted a greater long-term impact (his effect on the generations after the 1960s is something I’ll consider later). One of L’avventura’s many remarkable qualities to note now is its staying power – its ability to astonish anew after repeated viewings. Many great films are of their moment, yet lessen over time. Here, the entrance of Monica Vitti, with her classically hip black dress and sexily tousled blonde mane, amounts to an announcement that the 60s have arrived; a lesser work with her in it would be no more than a key identifier of that moment.
It’s the film’s subtle straddling of an older world and a new one still in the process of defining itself – reflected immediately and perfectly in composer Giovanni Fusco’s opening title theme, alternating between nostalgic Sicilian strummings and nervous, creeping percussive beats – that establishes its rich, unending landscapes of physical reality and the mind. This is part of the film’s timelessness, within an absolutely contemporary / modern setting. The early images of L’avventura trace a parting of the generations, as Anna (Lea Massari) – seemingly the film’s central character – tells her wealthy Roman father that she’s going away on a holiday to Sicily with girlfriend Claudia (Vitti), then seen very much on the periphery of the action, tagging along. But after Anna inexplicably disappears during a boat trip to an uninhabited island, it is Claudia who moves to the centre of the narrative – and into the affections of Anna’s architect boyfriend Sandro (Gabriele Ferzetti) – as attempts to find Anna gradually peter out.
What makes L’avventura the greatest of all films, however, is its assertion, exploration and expansion of the concept of the ‘open film’. This had been Antonioni’s great project ever since he started out as a filmmaker after an extremely interesting career as a critic (like Godard). His early documentaries, such as The People of the Po (Gente del Po, 1947), and his earliest narrative films, such as the astonishing Story of a Love Affair (Cronaca di un amore, 1950), suggest an artist pulling against what he perceived as the constraints of neorealism towards an openness based on a heightened perception of constant change – a dynamic that was for him the fundamental quality of the post-war world.
A NEW QUESTION
For Antonioni, the issues of neorealism were essential, in that they gave him an aesthetic base from which to launch. The People of the Po is an early neorealist work, both in its submersion in unvarnished realism and its interest in the lives of working people, but it also works against the predominant tendency in neorealism to project sympathy and sentimentality. By the time of Story of a Love Affair, teeming with characters from the upper and middle classes, his was not a class-based cinema; it offered instead a broader perspective – observant, distanced, occasionally unsympathetic. It reached into a more modern realm than neo-realism, a realm that had no name for it – and in fact still doesn’t.
Antonioni was never a leader – nor even part – of a movement. That’s partly because with each successive film he constantly redefined his approach. Roland Barthes, in his profoundly perceptive and concise 1980 speech honouring Antonioni, identified the process this way: “It is because you are an artist that your work is open to the Modern. Many people take the Modern to be a standard to be raised in battle against the old world and its compromised values; but for you the Modern is not the static term of a facile opposition; the Modern is on the contrary an active difficulty in following the changes of Time, not just at the level of grand History but at that of the little History of which each of us is individually the measure. Beginning in the aftermath of the last war, your work has thus proceeded, from moment to moment, in a movement of double vigilance, towards the contemporary world and towards yourself. Each of your films has been, at your personal level, a historical experience, that is to say the abandonment of an old problem and the formulation of a new question; this means that you have lived through and treated the history of the last 30 years with subtlety, not as the matter of an artistic reflection or an ideological mission, but as a substance whose magnetism it was your task to capture from work to work.”
L’avventura builds on the work and experiences of Antonioni’s previous decade, which saw him working through his doubts about genre (film noir in Story of a Love Affair, backstage drama in La signora senza camelie, 1953); about narrative form (the counter-intuitive three-part structure of I vinti, 1952); his love of writer Cesare Pavese (author of the source novel for 1955’s Le amiche) – as important a literary voice to Antonioni as Cesare Zavattini was to the hardcore neorealists. And add to this his growing interest in temporality, the emptied-out frame, the composition that maintains both precision and an expansive gaze that treats bodies, buildings and landscapes with equal importance.
With only a few filmmakers (Mizoguchi, Renoir, Dreyer, von Sternberg, Resnais, Olmi, Kubrick, and more recently Costa, Alonso and Apichatpong) is there such a visible, constant seeking of artistic purpose through the process of each successive film – a striving, a refinement. Antonioni’s 1950s work represents one of the most fruitful directorial decades to watch of any filmmaker. Already in some ways a master in 1950, he proceeded to question his own positions with each film, as if the doubts he had about the state of the post-war world resided, originally, in himself, and then fanned out to the making of the work itself, so that the expression of mortality (most explicitly conveyed in a Pavese adaptation such as Le amiche) inside the film was part and parcel of the director’s own tentative stance. (Tentato suicido/Tentative Suicide is the title of Antonioni’s segment in the 1953 omnibus film L’amore in città.)
These were not only cerebral matters – though the intellectual currents running underneath these films and under the neorealist movement preceding them were crucial to their fecundity – but real concerns rooted in the hard factors that faced any Italian filmmaker trying to get a project off the ground. Antonioni’s tentativeness – a constant fascination to his supporters in the French critical community, and an irritation to many of his Italian contemporaries – was partly based on the tentativeness of Italian film production itself. In almost no case during the 1950s did he encounter a smooth pre-production, firm financial backing or drama-free production periods. The typically poor performance of his films at the box office did little to enamour him to distributors and producers, though in the then nascent world of the auteur film business, it helped enormously that his films did well – even smashingly well – in Paris.
After the commercial failure of Il grido (1957) and an initially limp critical response, Antonioni seriously considered abandoning the cinema altogether, and returned to the theatre, where he had worked in the early years of his career. Even when he did come back to film, to shoot L’avventura, all of his worst concerns came back to haunt him. Already shaky producers bailed out mid-shoot as their company, Imeria, went bankrupt, leaving the crew literally high and dry on the desert island of Lisca Bianca, without sufficient food and water, in a hair-raising episode that makes Coppola’s misadventures filming Apocalypse Now in the Filipino jungle sound like a stroll on the beach.
SURPASSING MYSTERIES
This context, in all its intellectual and practical dimensions, is crucial to comprehending the massive achievement that L’avventura represents. How a film of such constant perfection could even be made under such dreadful conditions is, for me, one of the surpassing mysteries of film history. Viewed in isolation (and aren’t almost all films, even more now in our isolated viewing environments?), L’avventura can superficially be seen as magnificently beautiful in its constant chain of stunning black-and-white images from cinematographer Aldo Scavarda (with whom Antonioni had never previously worked, and never would again).
L’avventura is populated by good-looking actors oozing sex appeal. Monica Vitti, for one, had never had a starring film role before, but with her smouldering presence it was she – as much as Sophia Loren or Ingmar Bergman’s ensemble of intelligent and worldly actresses – who set the standard and the look for the new, sexualised European movie star that was key to the successful foreign-film invasion that hit English-language shores (and was perceived as such a threat by LBJ and his White House crony Jack Valenti that they set up the American Film Institute as a nationalist bulwark against the foreigners supposedly taking over US cinemas). For New York downtown hipsters, London cosmopolitans and Paris cinephiles alike, the combination of serious cinema and sexual beauty was simply too much to pass up.
All that may be why L’avventura had its immediate impact. (A special jury prize from Cannes, after all that booing and hissing, also didn’t hurt.) But the endurance of the film, residing crucially in its conceptual openness, describes a pathway that cinema has been exploring and testing ever since. Much as Flaubert’s novels and Beethoven’s symphonies, concertos and string quartets are continually regenerated by way of the new directions they paved, and the new generations of work following such directions, so Antonioni’s work – and L’avventura in particular – is regenerated by the subsequent cinema that came in its wake.
As Geoffrey Nowell-Smith observes in his essential study of the film, the periphery in Antonioni is of absolute importance, for this is where the sense of drift in his mise-en-scène and narratives resides – a de-centred centrality. No filmmaker before Antonioni, not even the most radical visionaries like Vigo, had established this before as a part of their aesthetic project. In the early scenes when Anna visits Sandro, or when they join their holiday boating group, Vitti’s Claudia remains for a long time on the outside looking in, marginalised, seemingly unimportant. And yet there is something in her nervous gaze, her subtle physical gestures, that makes her impossible not to notice, especially in contrast to Anna’s inner tension and outward unhappiness – an unhappiness she can’t identify, even in private to Claudia.
These are most certainly not Bergman women, forever examining themselves, forever able to articulate the exact words in whole spoken paragraphs about their state of mind, their relationship with God. For one thing, in Antonioni, God doesn’t exist. The state of the world is one of humans searching for some kind of connection amidst a disinterested nature; the island on which the floating party lands is both exotically remote and barren, like a volcano frozen during eruption. The landscapes in L’avventura have been interpreted in a number of different ways that testify to the film’s Joycean levels of readings: from Seymour Chatman’s insistence on metonyms for his reading of what he calls Antonioni’s “surface of the world”, to Gilberto Perez’s more valuable view of the work in his extraordinary film study The Material Ghost, across a whole range of possible interpretations, from the literary to the visual. For me, however, it’s always tempting to see these people – on this island, at that moment – as the last humans on earth.
In L’avventura, more than any film before it had ever dared, the centre will not hold. The open film is a fluid thing, pulsating, forever changing, shifting from one centre to another, not quite beginning and not quite ending (or at least beginning something new in its ‘ending’). Anna, the centre, vanishes, with no visual or verbal clues to trace her by, except rumours of sightings. She was in effect the glue that held the party together, having helped bring Claudia in closer to her circle of friends – and to Sandro. But with Anna’s disappearance, the film alters shape in front of us; a sudden absence actually expands the film’s eye. Individual shots become more extended and prolonged, the sky and land grow larger, the elements become more tangible (clouds, rain, harsher sun).
HERE AND NOW
What’s even more disturbing is that nothing happens – no discovery, no evidence, no detective work and, finally, no memory. L’avventura is, in part, the story of how a woman is forgotten, to the extent that long before the film is done, Anna is less than a trace on a page, a ghost or a photo in an album. A more sentimental filmmaker or a Hollywood studio would have ensured that Anna lived on through Claudia and Sandro’s love affair and possible union. But here, after a while, they don’t speak of Anna anymore. She gradually fades, which is what happens to the dead as regarded by the living (not that Anna is necessarily dead; the film neither encourages nor discourages the suggestion). Although their joint actions ostensibly trace an effort to collect any information on Anna’s whereabouts, Antonioni suggests that the activity of Claudia and Sandro isn’t nearly as important as their time together in this moment, in this or that place.
About those places. The greatness of L’avventura is multivalent, situated in many realms at once: cinematic, aural, existential, literary, architectural, sexual, philosophical – all of them of equal importance. The open film, beyond its fluidity, is amoral in the best sense, or at least unconcerned with a hierarchy of values. Almost all films of any kind privilege certain artistic values above others, and the great ones do it for several: Singin’ in the Rainhonours the body, the sounds of showbiz, the fresh memories of Hollywood at its height; Vampyr celebrates the psychological effect that optical dislocations have on the viewer’s psyche, the spiritual possibilities of the horror film, the blurry line between genres and those alive and dead.
But L’avventura marks a new kind of film, not made before, in which the story that launched the film dissolves and gives way to something else – a journey? a wandering? – that points to a host of possible readings beyond what mere narrative allows, and yet at the same time is too specifically rooted in a form of acting – in situations, episodes and events – to ever become purely abstract. (Though this was an area Antonioni did address in various ways, including the semi-apocalyptic ending of L’eclisse, the visualisations of madness in 1964’s Red Desert and the slow-motion explosion near the end of Zabriskie Point.)
For Geoffrey Nowell-Smith, “L’avventura is a film about consciousness and its objects, the consciousness that people have of other people and of the environment that surrounds them.” It is a film that’s also about a change of consciousness – what that looks and feels like: for instance Claudia’s move from the edges to the centre and, in the final passages, back to the edges. This change of consciousness is realised in terms that encompass Antonioni’s grasp of a vast range of materials: Sandro’s relationship with architecture is framed with the couple’s bodies, both above buildings and nearly swallowed up by them, their shared sexuality first shared in open space and then further and further contained within smaller rooms; the sense of new possibilities (new towns, new relationships) seen in the curve of a highway, a train hurtling down the tracks and through tunnels; the insistence on the Old World in the hulking presence of churches, formal dinner parties, rigid bodies against Claudia’s free and easy one, always in motion; the sounds of creaky nostalgic ‘Italian’ music against Fusco’s disturbing atonalities and unnerving syncopations (in one of the greatest film scores ever written).
Antonioni, as Perez often notes, infuses his cinema with doubt – a doubt that extends to his questioning of psychology as a basis for cinematic drama (let alone his doubt in the value of cinematic drama). But doubt is not an end point in this or his other films; instead it represents the beginning of new possibilities. Thus the open film’s mapping of changes of consciousness – through the tools of mise-en-scène, temporality, elliptical editing, a matching of sound to image combined with a de-emphasis on actors’ faces presiding over scenes (close-ups are fewer by far in L’avventura than any of his previous films) – is a picture of a post-psychological topography of the human condition, a radical effort to find a cinema grammar to express inner thought with photographic means.
This is a map that did (as Perez has noted) go out of style for a time, perhaps during the period of postmodernism, and definitely during the period when Fassbinder ruled the arthouse. But the map has been opened again by a new generation. Its influence can now be seen in films from every continent – to such an extent that the Antonioni open film can be said to be in its golden age. Here are some examples: the work of Apichatpong Weerasethakul, from Blissfully Yours to Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives; Lisandro Alonso’s La libertad through to Liverpool; Uruphong Raksasad’s Agrarian Utopia; C.W. Winter and Anders Edström’s The Anchorage; Ulrich Köhler’s Sleeping Sickness; the entire so-called Berlin School, of which Köhler is a part; Albert Serra’s Honour of the Knights and Birdsong; James Benning; Kelly Reichardt; Kore-eda Hirokazu; Ho Yuhang’s Rain Dogs; Jia Zhangke’s Platform and Still Life; Li Hongqi’s Winter Vacation. The list goes on…
Some of these filmmakers may disavow any Antonioni influence – but we know that what directors (including Antonioni) say about their films can’t always be trusted. Besides, the ways in which L’avventura works on the viewer’s consciousness are furtive and often below a conscious level. In Apichatpong’s fascination with characters being transformed by the landscape around them; in Raksasad’s interest in dissolving the borders between ‘documentary’ and ‘fiction’, or the recorded and the staged; in Alonso’s precision and absolute commitment to purely cinematic resources and disgust with the sentimental; in Köhler’s continual refinement of his visualisation of his characters’ uncertain existences; in Reichardt’s concern for what happens to human beings in nature – especially when they get lost: in all these and more, the open film is stretched, remoulded, reconsidered, questioned, embraced. A kind of film that was first named L’avventura.
[by Robert Koehler, from BFI. November 2016]
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cmbynreviews · 6 years
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"Call Me by Your Name" brings warmth, cinephile class to snowed-in Park City
Just ahead of the blizzard, which blanketed Park City with three feet of snow (testing even the most veteran festivalgoers) a welcome touch of cinematic class blew in from Europe in the form of Luca Guadagnino’s Call Me by Your Name . The Italian director is no stranger to Park City having shown his I Am Love here five years ago. That film went on to garner critical acclaim and a Golden Globe nomination in 2011. Love, like last year’s A Bigger Splash hinged on Guadagnino’s collaboration with his muse Tilda Swinton. This film, an adaptation of André Aciman’s novel of the same name is a poignant coming of age story revolving around the budding attraction between an American graduate student on a research trip to Italy and the adolescent son of the antiquities scholar (Michael Stuhlbarg) who is putting him up in his lovely Northern Italian villa. Guadagnino’s deft, Bertolucci-inspired direction and the easy chemistry between Hammer and Timothée Chalamet (Interstellar, Love the Coopers). The standing ovation the film received at the Eccles premiere has already led to Call Me by Your Name being called a “queer masterpiece”. In truth the strength of the movie is how it transcends the easy stereotyping of genre, achieving – in ways that may be unprecedented for a gay narrative – a truly universal story of love, desire and the complicated ways they intertwine in a poignant coming-of-age story.
Guadagnino is master of atmosphere and the way he immerses us in the languid milieu of an Italian countryside summer is worthy of Grand-Tour literature. A deft, literary screenplay by James Ivory and the shooting location – the director’s own residence in the Padana valley – don’t hurt either. Of the current generation of Italian directors Guadagnino is the most direct artistic descendant of Bernardo Bertolucci, to whose Val Padan-based Spider’s Stratagem the director himself acknowledges a debt of inspiration. While fans of Bertolucci’s cinema will recognize the fluid, purposeful and sometimes amazingly complex use of the camera (strictly on 35mm film), Guadagnino has proven to be unmatched in modulating hommage with a distinct authorial voice. A Bigger Splash was a reworking of Jacques Deray nouvelle vague film La Piscine, which eschewed the “remake” tropes in favor of a remixing of the original film transposed from Southern France to the Sicilian island of Pantelleria. Guadagnino’s next project is a new version of the Dario Argento cult horror Suspiria which he told us will “pay homage to the original masterpiece” while becoming “its own film in every way”. In the same way he acknowledged the differences between the Aciman novel and his own version of Call Me by Your Name telling the Eccles audience “that cinema must not be denied its form”.
The result is Guadagnino’s perhaps most sensual film (and that is saying a lot), which breaks new thematic ground while affirming an ever more assured directorial touch. As many have acknowledged here in Park City, Call Me by Your Name has brought a welcome and much-needed whiff of cinema to the festival.
Like most every movie here this year, the film has acquired additional poignancy given the current American political context and the ways it could potentially impact the LGBT community. A fact that undoubtedly accounted for some of the emotions in the Eccles audience.
LUCA CELADA | goldenglobes.com | 23 Jan 2017
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remniov · 4 years
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Part 2
I wish could make my project related to all of them.
 From the last time I've made research on different cuisines which exist in our world and it includes 5 main cuisines.
The first one is Central European cuisines which include: Austrian cuisine, Czech cuisine, German cuisine, Hungarian cuisine, Polish cuisine, Liechtensteiner cuisine, Slovak cuisine, Slovenian cuisine, and Swiss cuisine.
All of these countries have their specialties. Austria is famous for their Wiener Schnitzel - a breaded veal cutlet served with a slice of lemon, the Czech Republic for their world-renowned beers. Germany for their world-famous wursts, Hungary for their goulash. Slovakia is famous for their gnocchi-like Halusky pasta. Slovenia for their German and Italian influenced cuisine, Poland for their world-famous Pierogis which are a cross between a Ravioli and an Empanada. Liechtenstein and German-speaking Switzerland are famous for their Rösti and French-speaking Switzerland for their fondue and Raclettes.
Second one is Eastern European / Caucasian cuisines which includes: Armenian cuisine, Azerbaijani cuisine, Belarusian cuisine, Bulgarian cuisine, Georgian cuisine, Kazakh cuisine, Moldovan cuisine, Romanian cuisine, Russian cuisine, Komi cuisine, Mordovian cuisine, North Caucasian cuisine, Chechen cuisine, Circassian cuisine, Tatar cuisine, Udmurt cuisine, Yamal cuisine, Ukrain cuisine, Crimean Tatar cuisine.
Third Northern European cuisines: British cuisine, English cuisine, Northern Irish cuisine, Scottish cuisine, Welsh cuisine, Danish cuisine, New Danish cuisine, Estonian cuisine, Faroese cuisine, Finnish cuisine, Icelandic cuisine, Irish cuisine, Latvian cuisine, Livonian cuisine, Lithuanian cuisine, Norwegian cuisine, Sami cuisine and Swedish cuisine.
Fourth one of the huge number of cuisines is Southern European cuisines: Albanian cuisine, Bosnian cuisine, Croatian cuisine, Cypriot cuisine, Gibraltarian cuisine, Greek cuisine, Cretan cuisine, Greek Macedonian cuisine, Ionian cuisine, Italian cuisine, Arbëreshë cuisine, Abruzzian cuisine, Apulian cuisine, Lombard cuisine, Neapolitan cuisine, Roman cuisine, Sardinian cuisine, Sicilian cuisine, Tuscan cuisine, Venetian cuisine, Macedonian cuisine, Maltese cuisine, Montenegrin cuisine, Portugal cuisine, Sammarinese cuisine, Serbian cuisine, Kosovan cuisine, Spanish cuisine, Andalusian cuisine, Aragonese cuisine, Asturian cuisine, Balearic cuisine, Basque cuisine, Canarian cuisine, Cantabrian cuisine, Castilian-Leonese cuisine, Castilian-Manchego cuisine, Catalan cuisine, Extremaduran cuisine, Galician cuisine, Menorcan cuisine, Valencian cuisine and Turkish cuisine.
And last but not least Western European cuisines which includes: Belgian cuisine, Dutch cuisine, French cuisine, Haute cuisine, Cuisine classique, Nouvelle cuisine, Luxembourgian cuisine, Monégasque cuisine and Occitian cuisine.
As we can see there are so many cuisines in our world, I wish could make my project related to all of them, but I think to focus on a few of them will be much more interesting rather than make a mess. For instance, if I choose Top 10 or Top 5 or maybe even from 5 main cuisines pick few.
Maksimas Remniovas
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vacationsoup · 4 years
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New Post has been published on https://vacationsoup.com/history-of-churches-and-cathedrals-in-the-lot-et-garonne-nouvelle-aquitaine-sw-france/
History of Churches and Cathedrals in the Lot et Garonne Nouvelle Aquitaine SW France.
A reflection on the stories told by holiday guests over the years here at Gone Fishin’ in the sunny Lot et Garonne.
This month we share with you The Cathedral Saint Caprais in Agen. Lot et Garonne Nouvelle Aquitaine.
But first breaking news …… Since early September 2019 the cathedral Saint Caprais in Agen has been the talk of the town. Why?
Well, it all started with the discovery of an ancient sarcophagus on September 3rd 2019 and then to top that they discovered 5 skeletons on 13th November 2019 . Pictures courtesy Sud Ouest paper.
Saint Caprais Agen Breaking news of discover
Saint Caprais Agen. Five skeletons Found at the entrance
The five skeletons lying on their back with one being a child and as expected by now the bones so brittle. All of this is openly displayed to passers by hence the talk of the town. When we have further details I will add to this article and update.
    Built in the twelfth century, this cathedral Saint Caprais in Agen was ransacked so many times.
 An eventful past and surprisingly there are still some treasures left, and it is not the only building worth seeing in the vicinity
The Cathedral was consecrated in 1802, Saint-Caprais and is classified in the world inheritance of Unesco under the heading “the roads of Saint Jacques de Compostela”.
Its architecture, predominantly Romanesque, is a reflection of its history and that of the city of Agen
Agen Saint Caprais Unearthed skeletons
Established 15 centuries ago as a basilica, then destroyed by the Normans in 853.
Again rebuilt, this time enlarged from the twelfth century, Then destroyed again by the Albigensians !
Again rebuilt, by the Protestants, then when the Revolution arrived even more destruction but only not to recover until the nineteenth century. Absolutely amazing history.
So much more history can be unearthed with more research.
The Cathedral Organ at Saint Caprais Agen
In 1855, restoration began on the organ at Saint Caprais  , to be able to show off it had to be big so as to create prestige in the city. The house Stoltz and Schaff makes an advantageous proposal: They would deliver the organ they had built after they had unveiled it at World Fair held in Paris the same year. The Empress Eugenie , seduced by the idea, she then buys the organ and gives it to the parish.
Monumental Cathedral organ at Saint Caprais Cathedral Agen
  In 1859, the organ is installed. With its three keyboards, and 45 games pedals, it is the largest in Lot-et-Garonne and hosts a festival every summer.
Richly decorated walls
        In 1845 the painter Jean-Louis Bézard, Prix de Rome, was chosen to create the murals of the cathedral.
Richly decorated walls at Saint Caprais Cathedral Agen
 This took 14 years, he painted all the decor that affirms the character of the building largely inspired Sicilian churches and Byzantine art.
 The French Revolution is over, religious art returns and all is normal.
 The figures of the Bible, the iconography of Mary, are themes used by the painter is admired by all .
But there is much more to this story as it also presents the martyrdom of the saints Agenais , while revealing, in its way, the Catholic history of the Agenais.
We will next visit Marmande Notre Dame with our next guests … see you soon
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theageofthemovies · 4 years
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MEDITERRANEE -  (Jean-Daniel Pollet, 1963)
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That’s a poetic and fascinating movie (?), a short film (45 minutes) shot almost as a Super-8, that charmed Jean-Luc Godard and that belongs to the unrated genre some critic called, diversely than a fiction movie, an "ovni" (the French) or "ufo" (standing for un-identified filmic object). I knew this "thing" (a charming, moving and absolutely interesting filmed manufact) had been referred to as "a comet in the sky of French cinema"; or "an unknown masterpiece" and even an "unprecedented" artwork that refuses interpretation (even if it has provoked a lot of critical writing). The movie has not a story but it owns its rhythm and this rhythm depends on a collage of recurring images (a girl on a gurney, a fisherman, Greek ruins, a Sicilian garden, a Spanish corrida) accompanied by an "abstract" commentary, and only the quiet and somber lyricism of the musical score (Antoine Duhamel) holds the cinematic elements together. At first viewing, one fears the movie could fly apart into incoherent fragments, but on the contrary, over the course of its short life it "produces" (better: "invents") its own rules, and you realize "...you’re watching something like the filmic channeling of an ancient ritual.” (Chris Darke). A true gem, the core itself of the nouvelle-vague cinematic ideology, and a film that fascinated filmmakers like Resnais and Godard and poets like Cocteau. 
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r.m.
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alidifirenze · 7 years
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Nouvelle journée de rêve en Sicile ! Mon roadtrip vous fait découvrir une réserve naturelle, une plage en mode Maldives et un village Soooo Charming Link in BIO ! / I just published a new feature about my Sicilian roadtrip, enjoy the ride ! _____________________________________________ #sicily #onlyinitaly #italyiloveyou #italy365 #browsingitaly #bonnesadresses #cityguide #alidifirenze #sicilytour #sicilysummer #italianblogger #travelgirl #travelgram #travelblogger #marzamemi #tonnara #sanlorenzo #sicile #roadtrip #holidays (à Marzamemi, Sicilia, Italy)
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sciatu · 1 year
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Mattino sullo stretto
MILLE PICCOLI NEONATI
OGNI DRAMMA INIZIA CON CALMA  - Bastiano si mise lo zaino sulle spalle, prese l’ombrellone e con una corda se lo mise alla spalla destra. Prese una sedia pieghevole e la sistemò sulla spalla sinistra. Afferrò le due stampelle senza le quali non poteva camminare, controllò nel borsello se aveva preso tutto ed usci nel giardino circondato da alte mura. Percorse, tra gli alberi di limoni, mandarino e nespole, il vialetto che portava fino al portone che dava su uno stradone chiamato pomposamente “lungomare” e che separava la sua casa dalla spiaggia. Uscito dal portone attraversò lo stradone e da li scese lentamente verso il bagnasciuga, sempre mettendo avanti le stampelle poi raggiungendole spingendo per raggiungerle, le gambe magre e deboli, che a stento riuscivano a tenerlo in piedi. A circa cinquanta metri da dove le onde si appiattivano sulla sabbia, si fermò e mise giù lo zaino, aprì la sedia pieghevole e si sedette tra due blocchi di cemento che fungevano da frangiflutti, in modo da essere protetto dal vento. Da seduto piantò l’ombrellone e l’apri in così che coprisse la sedia. Cercò nello zaino e tirò fuori un tablet ma prima di immergersi nella lettura guardò il cielo per vedere come era il tempo. Osservò se si vedevano all’orizzonte lungo lo stretto, le “Calabrie” per capire quanta sarebbe stata afosa la giornata. Se le “Calabrie” fossero state nascoste da un velo grigiastro voleva dire che sarebbe stata una giornata caldissima, appiccicosa e afosa. Infine guardò la spiaggia quasi deserta con alcune barche rovesciate qua e là, dove due pescatori, ognuno con quattro o cinque canne fissate lungo il bagnasciuga,  andavano avanti e indietro seguendo il movimento delle canne ed osservando i galleggianti in mezzo al mare. Era tutto a posto. Sarebbe stata un’altra giornata di sole, rovente e normale, come cento altre e le gambe non gli avrebbero fatto male come quando cambiava il tempo e le ossa rotte in mille pezzi ed aggiustate chirurgicamente, non avrebbero fatto sentire il loro lamento simile a mille lame gelide che scavavano nei suoi arti. Bastiano sorrise soddisfatto, si sentì dell’umore giusto per un buon racconto e sul tablet andò a cercare il libro di Allende che stava leggendo. A quel punto l’imprevisto che è il protagonista inatteso di ogni racconto: una ragazza incominciò a scendere dal lungomare verso la spiaggia. Ora Bastiano, a causa dei suoi problemi fisici, non era uno che cercava l’avventura o pensava solo all’apparato riproduttivo delle donne. In vita sua poi di donne, ne aveva conosciute molte, alcune erano anche professioniste del sesso che avevano fatto di ogni loro gesto e sguardo una reclame ambulante del piacere. Però la ragazza che scendeva, con il suo prendisole nero   capelli di un nero intenso lunghi ed ondulati, gli occhiali scuri di Versace dove brillavano particolari dorati, cosi come d’oro erano le finitura del bikini nero, le scarpe e la borsa che indossava, rendevano quella ragazza Diversa da quelle poche presenti sulla spiaggia. Sapeva di sensualità armonica e selvaggia, di sesso puro, passionale e intenso. Un sesso non descritto dal corpo che non aveva un filo di grasso, dalle abbondanti curve del seno o del di dietro nervoso e ben formato e neanche evidenziato od esaltato da un bikini la cui superfice totale non superava quello del fazzoletto dentro cui la nonna di Bastiano, quando andava a prendere la pensione, metteva i soldi  per nasconderli nel seno. Il sesso, dichiarato e presente, era esplicito nel come si muoveva, in come   la sua gamba si allungava mostrandosi dritta e perfetta per conquistare la spiaggia e di come il suo corpo la seguiva sobbalzando, oscillando, vibrando prima di prendere possesso di un altro metro di universo, mentre i suoi capelli sdraiandosi nel vento che correva, salutava la sabbia alle sue spalle lasciandogli in ricordo un profumo di limoni dolce e costoso. “Chista si si pigghia a coccadunu, su suca comi si saria n’ovu” Pensò ammirato e sebbene lui fisicamente non era messo male con un torace e due braccia da palestrato, riconosceva che quella ragazza lo avrebbe messo in serie difficoltà. Poi, gustando il sapore di sesso e di vita che gli era rimasto nel corpo, tornò a leggere il suo libro assorto dalla scrittura latina dell’autrice. La ragazza nel frattempo si era seduta a una decina di metri da lui invadendo quel pezzo di spiaggia con il profumo della sua sensualità di cui restarono colpiti anche i due pescatori vicini a loro, uno alto e lungo come la fame, l’altro basso grasso e tondo come l’abbondanza. Questi avevano lasciato perdere le loro canne e commentavano con semplice lascivia, quello che quel corpo disteso al sole, suggeriva alla loro libido paesana. Dopo quasi un ora, Bastiano, contento per come la mattinata stava procedendo, allungò le gambe e appoggiando la schiena alla spalliera della sedia, chiuse gli occhi e lasciandosi cullare dal rumore delle onde e dalle grida dei bambini in acqua, cercò di appisolarsi. Ora, poiché nella vita il caos è inevitabile, entrava in scena un secondo imprevisto nella persona di un ragazzo in jeans e camicia bianca che parcheggiata una potente moto sul bordo dello stradone, appese il casco al manubrio e risoluto scese in spiaggia dirigendosi verso la ragazza con un passo veloce e cattivo tanto che a pochi metri da lei, incominciò a inveire “Accà a unni si, buttana chi non si otru? Jo ti spitava a Furci e tu si ca, stinnicchiata o suli” La ragazza al vederlo si alzò di colpo  e presa una pietra di grosse dimensioni in mano gli urlò “Vattinni chi t’ammazzu quant’e veru Diu” Ma lui senza farsi intimidire l’afferrò per i capelli e fermata la mano armata con il sasso incominciò ad urlare “Si na troia, na bucchinara, tu si peggio da medda” “Strunzu, lassimi annari chi mali finisci” Rispondeva la ragazza che malgrado bloccata dalle  forti braccia del ragazzo, non desisteva. I due pescatori si voltarono ad assistere alla scena come tutta quella parte di spiaggia, ma nessuno mosse un passo verso di loro. “Muta disgraziata chi tu si na ruvinafamigghi, a mari t’aiu ittari comi si fa ca munnizza” Per tutta risposta lei gli diede un calcio tra le gambe e dal dolore l’uomo strinse di più i capelli facendola gridare “Lassala stari” Grido Bastiano che al primo battibecco  si era alzato ed aiutato dalle stampelle si eri avvicinato ai due “Fatti i fatti toi, screncu chi  campi cent’anni” “Jo mi fazzu i cazzi toi picchì si non mi scuti, non ci nesci vivu i sta ribba mari” Il giovane stava per rispondergli quando dalla riva del mare si sentì gridare “Bastianu chi c’è cosa?” E quando i tre si girarono per guardare chi aveva urlato videro i due pescatori muoversi. Il lungo levò una canna dal tubo di ferro conficcato nella sabbia che la teneva dritta e lo liberò dal terreno, afferrandolo saldamente in mano ed incominciando a  camminare verso di loro. Il corto lo seguì con una mano in tasca ai pantaloncini da cui estrasse quello che sembrava un bastoncino nero di venti centimetri tenendolo stretto nel pugno. Il giovane capi che era uno “sfilatino” un coltello lungo sui venti centimetri che i pastori usavano per sgozzare in un sol colpo, pecore e capre. Anche Bastiano aveva fatto volare in aria la stampella prendendola al volo pronto a colpire il ragazzo al primo passo che avrebbe fatto verso di lui, e, visto i muscoli del braccio, non sarebbe stato un colpo leggero. Il ragazzo pensò qualche secondo poi spinse via la ragazza “Cu tia fazzu i cunti dopu “ Le disse rabbioso e guardando Bastianu sbottò “Ha ringraziari Diu chi nun mi voggliu luddari i manu cu genti comi a vui” E se ne ando verso la moto ostentando sicurezza e tranquillità Bastianu si avvicinò alla ragazza “Tutto a posto?” Lei fece di si con la testa massaggiandosi il polso che il ragazzo aveva stretto “Vai al mio ombrellone, c’è un po' d’acqua e ti rinfreschi” Nel mentre arrivarono i due pescatori “Oh arriva il settimo cavalleria a salvarmi…. “ “Nui a iddu sabbammu – fece il corto – che se lo prendevi tra le mani, in dui u rumpivi” “U canuscivi  a chiddu Bastià?” “No non l’ho mai visto e ha capito  che non si deve far vedere più” “A lenza a lenza,” gridò il corto sentendo il campanello posto su una canna suonare e corse via, seguito dal lungo che gli gridava “Pigghialu, pigghialu” Bastiano andò dalla ragazza che se ne stava all’ombra raggomitolata ad abbracciare le ginocchia “Tutto bene ?” “Si, si” “Aspetta un po' a muoverti magari quello è la che aspetta” “Vigliacco com’è, è capace che mi aspetta, ma io devo andare” “E non hai la macchina?” “No sono venuta cu l’autobus” “E come per cinque minuti? “Volevo distrarmi un po'” “O non volevi farti trovare?” “Tutte e du cose” Fece seria senza guardarlo “Ma ora devo andare. Conosci qualcuno che mi può portare a piazza Cairoli” Lui la guardò e ora, così da vicino, gli sembrava una bambina con occhiali troppo vistosi e un bikini troppo piccolo.
UN BAMBINO PER STRADA “Vieni, ti accompagno” Disse allora lui quasi seccato di dover lasciare prima del tempo la sua spiaggia “Hai una macchina?” Chiese sorpresa “Si, una piccolina” Si alzò dalla sedia con abilità, spostando il peso prima su una stampella poi sull’altra, raccolse velocemente zaino ed ombrellone e si incamminò. Bastiano e la ragazza salirono sul lungomare dove, una diecina di metri più avanti si fermarono di fronte ad una vecchia golf. A vederla la ragazza si mise a ridere “Sembra una scatola per le scarpe con le ruote” “Se non ti piace te ne puoi andare a piedi “ “No, no, per oggi le avventure bastano” Una volta in macchina, Bastiano partì in direzione della città. La ragazza guardava con curiosità la macchina “Ma non ha i pedali?” “li ha qua sul volante” “E le marce?” “Sempre al volante” “Ma perché? le gambe non le puoi muovere?” “Non completamente” “Ma cosa ti è successo? Pigghiasti a tubercolosi?” “No, ero su un ponteggio che è crollato e le gambe si sono rotte in diversi punti, non sono riusciti a sistemarle per come erano” “O matritta bedda e hai sofferto tanto” “Abbastanza, mi avevano pianto per morto.” Arrivarono ad un semaforo dove una famiglia dell’est stava elemosinando. Un bambino con una chioma bionda spettinata e due occhi enormi di un azzurro chiaro, con una mano sporca batté sul vetro di Bastiano e quando lui si girò a guardarlo allungò la mano con il palmo verso l’alto e la faccia da meschino disperato “Nun haiu nenti” Fece Bastianu agitando l’indice ed il pollice allargati a ribadire la sua povertà. “Nun ci diri accussì” Lo rimproverò la ragazza e preso dalla sacca un enorme portafoglio lo aprì cercandovi qualche moneta, non trovandole, prese l’unico pezzo da cinque euro che abitava sconsolato  in un enorme falda del portafoglio e glielo passò “Daccillu” Disse a Bastianu allungandoglielo “È troppo” replicò lui stupito “Daccillu!!” insistette lei arrabbiata. Controvoglia l’uomo abbassò il finestrino “Teni” Disse al bambino che presa la banconota la guardò sorpreso “Come ti chiami?” Chiese la ragazza ridendo. Il bambino li guardò e disse qualcosa in un'altra lingua. Da dietro incominciarono a suonare perché il semaforo da un millesimo di secondo era diventato verde e Bastianu mise la marcia e partì. “Come ti chiami?” Chiese ancora la ragazza voltandosi sul sedile a vedere la testa bionda che ormai era già sparita dietro il fiume di macchine. “Potevi aspettare un secondo” Disse ancor più arrabbiata a Bastianu “Lui alzò le spalle.” “Non sentivi che stavano suonando e che ci sarebbero saliti addosso” Lei alzo le spalle, cercò nella borsa il suo enorme paio di occhiali neri, li mise agli occhi e a braccia conserte fissò il parabrezza con l’aria seccata, ignorandolo. Bastianu la guardò. “Quello sulla spiaggia … era il tuo fidanzato” Chiese perché lei non pensasse che avesse il cuore di pietra. “Si, uno dei tanti” Rispose lei dura “ah si e quanti ne hai?” Chiese divertito Bastianu “Troppi – fece incazzata - troppi e tutti stronzi” “Perché?” “Perché cosa” “Perché così tanti?” “Perché sono una scema, una cretina e rovino la mia vita dietro agli uomini credendo che mi vogliano bene, invece loro pensano solo a futtiri” Restò qualche secondo in silenzio e poi precisò con cattiveria “La mia vita “di merda” senza un senso o un motivo buttata via con ziti di merda senza senso e motivo, perché non c’è nessuno che può darti quello che ti manca, quello di cui hai bisogno veramente” Bastiano tornò a guardarla Vide che da dietro gli occhiali di tartaruga con filo d’oro stava scendendo una piccola lacrima e si sentì colpevole per la semplice domanda che aveva fatto, per cui pensò di dover di dire qualcosa di serio e consolatorio. “Non devi dire così, la vita è importante, quello che facciamo noi a volte è sbagliato, ma la vita non merita di essere considerata brutta o di merda. Te lo dico io che ci voleva tanto con tanto, che la perdevo”! Lei continuò a guardare davanti a se quasi ignorandolo e allora lui continuò- “Non bisogna confondere la vita con il vivere. Prima di noi ci sono stati milioni di anni in cui non esistevamo e quando moriremo, ci saranno milioni di anni in cui non ci saremo. Pi chistu a vita è un controsenso, uno scandalo in questo universo fatto solo di materia, per questo dobbiamo vivere la nostra vita nel modo migliore, nel modo che riteniamo gli dia più senso. Invece pensiamo che questo insieme di cose e di persone – e con la mano indicò le case e le macchine che li circondavano - sia la nostra vita. In più cerchiamo di vivere negli occhi degli altri, nei desideri che la moda ci obbliga ad avere, nelle relazioni che sono l’ombra di quelle che potremmo avere. Ecco, siamo solo ombre, riflessi, voglie da saziare provvisoriamente, e chiamiamo questo: Vita. Ma non è chista a manera giusta di rispettare il miracolo che è.” Lei lo guardò con aria da compatimento e ironicamente chiese “Ma chi si filosufu?” “No sono uno ca motti a tuccoi ca manu e ha sofferto i peni ill’infennu – rispose seccato – Siamo a piazza Cairoli sei arrivata, scendi” “Graaazie mille” Fece lei con un miagolio da gatta “Pregu pregu” Rispose Bastianu velocemente, pensando che parlare ai sordi non serve a niente. Appena lo sportello si chiuse, corse via, seccato di aver sprecato una giornata dietro a una zalla come quella.
NESSUNO CONOSCE VERAMENTE QUALCUNO - Verso sera, il buio aveva legato insieme il cielo, il mare e la spiaggia accogliendoli nel suo grembo oscuro. La luce delle barche sparpagliate nel buio del mare, sembravano stelle cadenti che si muovevano al rallentatore, mentre sullo stradone   sfrecciavamo macchine, motorini, pulman pieni di persone che tornavano a casa, avvolti nei loro pensieri e storditi di stanchezza. Le falene si agitavano intorno alla luce giallognola dei lampioni e cani randagi abbaiavano lontani tra i casali dei monti nascosti dall’oscurità. Nella sua cucina, Bastianu prese sei bottiglie di birra Messina e le sistemò nello zaino; vi aggiunse un vasetto di olive schiacciate, uno di finocchi selvatici sott’olio, un vasetto di pomodori secchi sott’olio, un bel pezzo di primo sale e un chilo di pane casareccio. Si prese la sedia pieghevole e se ne scese lentamente sul bagnasciuga, raggiungendo i pescatori che al mattino erano corsi in suo aiuto. Il lungo e il corto avevano aggiunto alle punte delle loro canne delle luci giallognole per vedere quando i pesci abboccavano e si muovevano in un tratto di spiaggia che, a causa della luce biancastra delle loro lampade a gas, sembrava un paesaggio lunare. La costa a causa di tutte quelle piccole luci giallastre messe sulle punte delle canne, era diventata  una piccola via lattea. “Bastianuuu – gli grido stupito di vederlo, Nino detto u Cuttu, il pescatore piccolo e tondo che era corso verso di lui con il coltellaccio in mano – voi ncuminciari a piscari puru tu?” “Vi ho portato un aperitivo, almeno se poi mi dovete difendere sarete in forza” “Ma quale difendere e difendere, nui a chiddu sabbammu.” Rispose Filippo, il pescatore alto e si misero tutti e tre a ridere. Aiutarono Bastianu a disporre il contenuto dello zaino su una barca capovolta. Per una mezzora non fecero altro che tagliare pane e parlare delle olive o dei finocchietti, dicendo ognuno la sua: se il migliore primosale era quello di Moltalbano o di Mandanici, giudicando i pomodorini e svuotando le bottiglie con lunghi sorsi come se fossero usciti in quel momento da un deserto rovente. Ad un certo puntu Bastianu chiese “Ma oggi a quei due li conoscevate?” “Bastianu, ti nciuru supra i me figghi chi oggi si du strunzu ti tuccava quantu è veru Diu, a testa ci scippava, comi si era na custaddedda” Rispose pronto u Cuttu, sfogando la rabbia che aveva ancora dentro e che sottolineò con un lungo sorso di birra. “A iddu no canuscia, avia essiri i Missina, idda era Bittina a figghia i me cumpari Gianni, u Prufissuri” Rispose Filippu. U Cuttu sorrise e sottolineò con enfasi. “A buttana” Filippo scosse la testa contrariato “Nun è na buttana” “Ma si fa lassa e pigghia chi masculi … visti chiù minchii idda chi u me urologo” “Non è na buttana” ripetè seccato Filippo, e rivolgendosi a Bastianu come ad una persona che poteva capire e giudicare continuò “A quindici anni un ragazzo della sua età l’ha messa incinta. I parenti di lui lo hanno mandato in America perché non volevano che si la sposasse. Lei il figlio se lo voleva tenere perché era una bambina e pensava che un figlio è un dono di Dio. Invece i suoi parenti le hanno fatto firmare una carta e hanno dato il bambino in adozione. Lei non lo sapeva e quando ha partorito cercava a suo figlio e invece lui chissà dove era. Quando lo ha saputo, sballoi, si strammoi e incominciò a fari cosi strani: mivia, si drugava, annava chi masculi e quannu fici diciottu anni sinni annoi da casa. Dormiva per strada dove capitava. Ora lavora in una tabaccheria dove il padrone se la fotte quando vuole. L’assistente sociali ci dissi a Gianni chi idda fa tutti sti cosi pi sfreggiu e so parenti chi ci rubbaru u figghiu, lo fa per punirli e svergognarli. Ma dentro è rimasta bambina, non ha accettato quello che è successo. Viene al mare sempre qui perché fino a quindici anni veniva qui a divertirsi, ma dai parenti qui intorno, e ne ha tanti, non ci va, non ci interessanu e pensa chi Gianni quannu parra d’idda si metti a cianciri i quantu ci voli beni” U Cuttu non replicò perché forse questa storia la sapeva già. Bastianu mise la mano nello zaino e tirò fuori una bottiglia di spumante “Pinsamu a nui” Disse distribuendo bicchieri di carta e stappandola. “A saluti” Fece riempiendo i bicchieri “A saluti” Risposero i due pescatori e bevvero tutto d’un sorso per non pensare a Bettina e al figlio negato.
L’ALBA E’ SEMPRE UNA PROMESSA - La prima cosa che Bastianu faceva quando si alzava poco prima dell’alba, era attraversare il giardino, aprire la porta e guardare il mare. Se il mare era quieto e sembrava un tappeto azzurro l’osservava incantato, come un contadino che guarda un campo di grano o un’amante che guarda la sua amata arrivare per la strada e osserva con piacere ogni suo gesto, ogni suo sorriso, pregustando la gioia del prossimo abbraccio, il calore che il corpo amato avrebbe dato al suo. Se invece il tempo era brutto e il maestrale urlava riempiendo il cielo di inquiete nuvole color cenere, mentre il mare  sibilando si arrampica scivolando lungo la spiaggia divorandola quasi a voler alzarsi, uscire dai suoi abissi ad assalire e distruggere il mondo, allora Bastiano si avvicinava e si aggrappava al guard-rail sul lato opposto del lungomare e stava li dritto a sfidare la distesa di acqua grigiastra e spumosa, così come aveva sfidato la morte ed il dolore e respirava felice il vento che lo sferzava pieno di salsedine e di furia. Allora si sentiva vivo e capace di domare la sfortuna che lo aveva reso un invalido, un diverso, un inutile. Quel giorno il mare era invece inquieto, smosso da un vento nervoso, fastidioso ed insistente mentre l’alba, lentamente perdeva i suoi colori accesi per trasformarsi in un normale mattino. Si avvicino al guardrail ed osservò la spiaggia vuota. Casualmente guardò verso destra e vide una figura nera seduta sulla panchina sotto una palma piccola e spaurita. Il suo istinto gli diceva che la conosceva, ma da li non vedeva chi era, così si avvicinò per guardarla meglio. Con sua grande sorpresa riconobbe Bettina che avvolta in uno spolverino nero e nascosta dal solito paio di occhiali neri stava fumando guardando il mare. Notò anche che stava tremando per il vento che la investiva e che non era per nulla fermato dai suoi vestiti di cotone leggero. “Buongiorno – le disse sorridendo – cosa ci fai qui alle sei del mattino” Lei lo guardò qualche secondo prima di salutarlo “Ciao … sono già le sei? – restò in silenzio qualche secondo – mi offri un caffè? ho freddo” “Vieni, da questa parte, andiamo nel mio giardino.” La precedette nel portoncino e la fece sedere sul dondolo in un angolo protetto dal vento. Entrò in casa e prese una coperta di pile molto grande che teneva pronta per quando il freddo mordeva le ossa delle gambe e la coprì per bene. Entrò in casa e preparò un caffè lungo, gli mise del latte e un cucchiaino di miele e lo portò alla ragazza. Lei strinse la tazza tra le mani, bevendolo a piccoli sorsi, ed una volta finito gli passò la tazza e disse solo “Scusa, ho sonno” E piegandosi su di un lato si coprì con la coperta e si addormentò. “Buonanotte” Disse Bastiano scuotendo la testa. L’osservò. I capelli erano in disordine e gli occhi erano circondati da un alone nero, sporchi di rimmel colato forse da lacrime. Sulle labbra aveva ancora del rossetto di un bel colore, ma erano ancora le labbra di una bambina. Pensò che lei era un po’come lui: la vita, l’aveva spezzata dentro così come a lui aveva spezzato le gambe. La guardò di nuovo. Era una bambina come aveva detto Filippo. Ma perché stava li a guardarla? Perché era sempre lì a renderla protagonista dei suoi pensieri? Il fatto era che gli piaceva, ma non per il profumo di sesso che emanava. Non sapeva neanche lui perché. Ecco si, gli piaceva perché era fragile terribilmente fragile e reagiva a questa fragilità con durezza e cattiveria. Come un soldato nel mezzo di una guerra. Anche lui era stato un soldato e la sua guerra alla fine non l’aveva vinta. Era questo quello che in lei gli faceva sangue: lottava. Era viva, infrangibile, una donna vera. Ci pensò. Da sola, pensava che non sarebbe mai andata da nessuna parte, cercava sempre bisogno di qualcuno che le riempisse il vuoto che aveva dentro. Lui aveva il mare, i viaggi, i libri. Lei si attaccava a questo e quello sperando di trovare qualcuno che potesse aiutarla a ricucire la sua vita. Doveva trovarle un paio di stampelle con cui affrontare i suoi silenzi. Incominciò a pensare. In mattinata uscì e quando rientrò Bettina era ancora li che dormiva, immersa nell’enorme coperta, con il dondolo che ondeggiava cullandola nel silenzio del giardino. Bastianu cucinò ed apparecchiò in giardino sul tavolo di lava vicino al dondolo e quando fu pronta la tavola e la pasta chiamò la ragazza Lei si alzò lentamente ed intontita si sedette a tavola. Incominciò a mangiare senza mostrare appetito “Buono, non l’avevo mai mangiato” Disse dopo la prima forchettata “Dal pescivendolo ho visto degli scampi e mi è venuta voglia di farli come le ho mangiate una volta a Livorno.” “Ma tu lavori?” “No, non più. Quando ho avuto l’incidente l’assicurazione mi ha riempito di soldi ed io li ho investiti per non dover lavorare più. Ho comprato anche questa casa e l’ho ristrutturata. Il primo piano lo affitto in estate perché non posso salire le scale, questo piano qui sotto l’ho adattato per me e mi sono impegnato a vivere.” “Ma non sei sposato?” “Avevo una zita ma dopo il primo anno di terapie ed interventi mi ha detto che non se la sentiva di fare l’infermiera a vita” “A vita è accussi – commentò lei – amore, amore ma poi quando il “piano” diventa “salita”, tutti scompaiono” “No, non è la vita, sono i rapporti del momento” “Ed io di questi ne so qualcosa” “Ieri ti sei divertita vedo che hai gli abiti da sera” “Ma quali!! Sono uscita con uno che faceva sempre il romantico, si presentava sempre con una rosa, citava sempre versi di Battiato e Neruda, siamo saliti sul promontorio qui sopra per vedere tutto lo stretto illuminato e la prima cosa che mi ha chiesto tra il cantare dei grilli ed il cielo pieno di stelle, è stato di prenderglielo in bocca” “Però, romanticone” “Io non sono una santa, anzi mia nonna mi chiama la Buttanissima. Ma avevo voglia di coccole e tenerezze, se no sarei uscita con uno dei miei amici per cui rispettarmi vuol dire mettermelo di dietro usando la crema Nivea.” “Si molti hanno questa delicata forma di rispetto” “Allora abbiamo incominciato a discutere. Io dai maschi mi so difendere e gli ho quasi cavato gli occhi. Lui tutto incazzato mi ha buttato fuori dalla macchina e se ne è andato lasciandomi li. Sono dovuta scendere dal promontorio a piedi nudi con le scarpe con i tacchi in mano. Appena vedo dove ha parcheggiato la macchina, gli taglio le ruote” “Ma non passava nessuno?” “Erano le quattro del mattino chi doveva passare? Quando sei arrivato tu ero stanca morta e congelata” “Ma non avevi paura a fare tutta quella strada da sola? “ “Io non sono mai sola. Sono una madre, una madre non è mai sola” Bastiano la guardò incerto se chiedere come mai si definiva una madre se non aveva un figlio. Decise di cambiare discorso “Nel poco tempo che ti conosco hai già litigato con un altro zito. Ma non sei stanca di questa vita di correre dietro agli uomini, stanca di tua nonna che ti chiama la Buttanissima.” “E perché? Non faccio nulla di male? Faccio come fanno gli uomini, lascio e prendo! Se sono una troia io, anche loro sono delle troie che se ne tornano dalle loro mogli come se nulla fosse mentre è successo quello che ha fatto Giuda: hanno tradito chi li ama? Cristo ha sempre avuto pietà delle buttane e le ha sempre perdonate, ma a Giuda no, non lo ha ancora perdonato, è sempre all’inferno dove ci andranno tutti gli uomini con cui sono stata….” Lui la guardò facendo una faccia scettica e lei continuò “…o tu sei uno di quelli che scrive Amore con l’A maiuscola, per cui si dovrebbe solo obbedire, subire e farsi scopare?” “Ma io l’amore non l’ho mai incontrato. Quello che si è presentato per tale, è stato l’unico osso che mi è rimasto rotto veramente. Per me puoi fare quello che vuoi finché non ti faranno del male sul serio, perché il  sangue degli uomini è quello di Caino.” Raccolse i piatti e li mise nel carello con cui dalla cucina portava le vivande. “Visto che sei la prima ospite da tanto tempo, per festeggiare ti ho preso i cannoli di don Roberto” Gli occhi di lei si spalancarono dalla contentezza “Che Buoniii: quando venivo qui ne mangiavo sempre più che potevo” “Qui ti puoi sfogare: ne ho preso una dozzina” Bettina non si fece pregare e mentre ne afferrava uno le chiese “Senti dopo devo andare in città vuoi che ti accompagno?” “Se puoi mi faresti un favore “Figurati – rispose sorridendo – lo fai tu a me il favore. Devo portare un regalo ad una persona in ospedale e da solo non ce la farei”
UN ANGELO PER STRADA -  Partirono dopo il caffè.  Salita in macchina Bettina notò nel piccolo sedile di dietro una cassetta di legno con dei limoni simili ai cedri “Ho trovato quei limoni Perrini. Sono una rarità perché sono dolcissimi. Le porto ad una mia amica a Messina. Mi fermo solo per darglieli e poi ti lascio.” Lei non gli fece neanche caso preoccupata a rispondere ai messaggi sul telefonino. Arrivarono al semaforo e si avvicinò nuovamente il bambino biondo che sorridendo allungò la mano. Questa volta Bastiano abbassò il finestrino e gli allungò un euro “Come ti chiami?” Gli chiese sorridendo “Havryil” Rispose il bambino allargando il suo sorriso “Come si chiama?” Chiese Bettina che aveva pescato nella sua borsa una caramella e si era sporta dalla parte di Bastiano per dargliela. “Havryil, è un nome ucraino, vuol dire Gabriele “Che bel nome. Ciao Gabriele, ciao” Fece la ragazza mentre la macchina ripartiva. “Come sapevi che è un nome ucraino” “Ho lavorato da quelle parti, nella raffineria di Odessa.” “Allora hai girato il mondo e avrai guadagnato un sacco soldi” “E ne ho speso altrettanti per curarmi” “Bhe almeno hai visto il mondo. Io più che le baracche di Messina non ho visto” Concluse sconsolata Vi fu silenzio per qualche minuto. “Hai detto prima che una madre non è mai sola. Ma tu hai qualche figlio?” “Scherzavo” Tagliò corto restando in silenzio “No, non scherzavo – concluse dopo un minuto - è che sono una madre senza figli. Ho avuto un aborto tempo fa” Si mise subito a guardare il cellulare per dire che l’argomento era chiuso. Lui l’osservò sott’occhi. “Io volevo tanti figli, perché a casa mia eravamo in tanti. C’era tanto casino e ci divertivamo un sacco. Ma poi è andata così. Ora non saprei come fare a gestire un figlio” Restò un minuto in silenzio perché si era accorto che stava sbagliando strada “Quest’inverno vado a Parigi. Sai quando ero in ospedale pensavo ai viaggi che avrei voluto fare perché ormai non potevo più cambiare il passato, ma potevo creare un futuro diverso” “Per farlo ci vogliono i soldi” “No, bisogna volerlo. Mi avevano detto che potevo camminare solo con la carrozzella. Invece l’anno scorso sono andato da solo a Madrid, quest’anno vado a Parigi, il prossimo anno voglio andare in Norvegia. Io ho imparato questo: soffrire è la benzina delle tue passioni. Ho sofferto tanto che non ho più paura di farmi male, non ho più paura di sbagliare. È come quando il fabbro martella il ferro caldo e tutte le impurezze, le debolezze del metallo vengono fuori e saltano via e resta solo il metallo duro e temprato. È questa consapevolezza che mi da la forza di fare cose che il mio fisico non giustifica. “ Vide l’ingresso dell’ospedale ed entrò di volata salutando la guardia.
UN VERO DOTTORE CURA ANCHE L’ANIMA - Invece di dirigersi verso il parcheggio, andò verso la parte posteriore dell’edificio parcheggiando dove si mettevano i furgoni che raccoglievano le lenzuola sporche. “Per favore prendi la cassetta e vienimi dietro” la ragazza sbuffando prese i Perrini e lo seguì. Sembrava che Bastianu conoscesse tutti i meandri dell’ospedale e la guidò attraverso corridoi e stanze vuote o colme di scrivanie e letti rotti. Arrivò ad un ascensore, e con un coltellino girò la chiave della pulsantiera chiamando l’ascensore. Salirono ad uno dei piani alti arrivando in un corridoio di servizio su cui si affacciavano diverse porte Bastianu si avventurò con prudenza fino ad una porta che dava sulle stanze del ricovero. Affacciò la testa guardando a destra e a sinistra. Vide una dottoressa che parlava con una donna in attesa. Alzo una mano e chiamò “Franca…” La donna si voltò e vedendolo fece una faccia sorpresa e felice. Gli andò incontro con le braccia allargate mentre si nascondevano nel corridoio dell’ascensore. “Bastiano, questa si che è una bella sorpresa.” Lo abbracciò baciandolo “Come stai gioia mia, è tanto che non ti fai vedere, e questa bella ragazza? Non l’hai portata per farmi ingelosire?” “Mi ha aiutato a portarti un regalo” E mostrò la cassetta con i limoni “I Perrini, che buoni… grazie era tantissimo che non ne vedevo. Mi è già venuta l’acquolina in bocca” “Franca lavora qui in ginecologia e gravidanza, è l’ostetrica più brava di Messina, ha fatto nascere non so quanti bambini.” Spiegò a Bettina e si girò subito verso l’ostetrica “Lei è Bettina, le piacciono molto i bambini. Perché non gliene fai vedere qualcuno?” “Non so se si può, ma aspetta, vieni, mettiti questo camice e seguimi. Bastiano aspettaci qui non passeresti inosservato “ La fece uscire nel grande corridoio e da li, tramite una porticina, entrarono in un piccolo corridoio laterale con una parete in vetro. “Guarda, questi sono gli ultimi nati. Quello laggiù è nato ieri pesa quasi quattro chili: un gigante! Quella li è nata questa mattina con un cesareo: aveva il cordone ombelicale intorno al collo.” Bettina guardava come se fosse di fronte ad una vetrina di gioielli e dovesse sceglierne uno. Non batteva neanche le palpebre tanto i suoi occhi erano impegnati ad osservare ogni dettaglio dei bambini. Le smorfie della bocca, le dita ringrinzite che si agitavano, i colli esili e le teste grosse, gli occhi chiusi e i capelli fini e sparsi, i nasini appena pronunciati e le orecchie piccole. I suoi occhi osservavano tutto e la sua bocca, ferma in un sorriso estatico, sembrava che neanche respirasse. Un bambino incominciò a strillare diventando rosso e allargando la bocca a dismisura. Un’infermiera lo prese in braccio e gli guardò il pannolino. Franca le fece cenno di avvicinarsi e lei lo portò vicino alla vetrata proprio davanti a Bettina pensandola una parente. Il piccolo si rasserenò e tornò a dormire. “Questo poverino è il più sfortunato. Sua mamma ha una situazione particolare e verrà dato in adozione” Bettina la guardò poi si voltò verso il bambino e l’osservò con maggiore attenzione, quasi attaccandosi al vetro. Un altro bambino incominciò a piangere e l’infermiera andò a vedere cosa avesse, ma Bettina restò lì a guardare il bambino messo nella culla. “Dobbiamo andare” Le disse Franca toccandole una spalla Lei si girò a guardarla come se la vedesse per la prima volta, poi lentamente si staccò dal vetro e la seguì da Bastiano. Ma restò come assorta nei suoi pensieri e mentre Bastiano salutava l’amica lei si mise di fronte all’ascensore dando loro le spalle. Quando Bastiano la raggiunse vide che stava piangendo.
OGNI TANTO, E’ INEVITABILE FARE GLI STRONZI - L’ascensore si aprì e lei entrò dando le spalle alla porta. Non si voltò ma disse rabbiosa “Si nu strunzu. Nu ranissimu figghiu i buttana. U sai chi i carusi mi fannu cianciri.” “Si sono stato stronzo, ma a volte dobbiamo esserlo. Sono stato il martello che batte il ferro per fargli uscire quella superficialità e irresponsabilità che ti porta a vivere la tua vita alla cieca, sentendoti come di doverti punire o punire tutto il mondo” Arrivarono nei sotterranei e lei usci velocemente, con la testa bassa, le braccia conserte e il passo veloce. Bastianu continuò “Quando conoscerai meglio Franca lei ti dirà che i ragazzi adottati cercano sempre i genitori biologici per capire perché li hanno lasciati, per capire chi sono. E quando tuo figlio ti verrà a cercare e ti chiederà chi sei, cosa hai fatto, cosa gli risponderai? Che hai sucato le minchie di tutta la costa ionica per punire te stessa e la tua famiglia?” Lei si girò nell’androne dove erano, pieno di scrivanie rotte, poltrone sfondate le mura sbrecciate piene di polvere e ragnatele e spazzatura sparsa ovunque e che sembrava essere la rappresentazione dell’anima sua “E allura ? sunnu cazzi mei! Gli dirò quello che gli dovrò dire! Che nessuno mi ha rispettato che nessuno merita di essere considerato. Ma a tia chi  minchia tinni futti? Cu si tu? Me patri? No e allura picchì mi rumpi puru tu i paddi” “Picchi jo era comi a tia. Come a te, vedevo solo il passato che non esiste più. Esiste solo il dolore che ci ha lasciato e se vuoi continuate a vivere, devi tornare a soffrire per cambiarlo.” Lei si voltò inviperita e tornò a dirigersi verso la macchina a passo veloce mentre lui la seguiva affannato con la sua andatura altalenante. “Echi aviria affari? Mio figlio l’ho perso e se come dici tu mi giudicherà capirà il male che mi banno fatto, non ho potuto avere lui, non potrò averne altri, sugnu n’abbiru siccu, n’acqua motta.” “Non è vero è per questo che ti ho portato qua, fra sei mesi c’è il bando per la scuola di ostetrica, se lo chiediamo a Franca, lei ti aiuterà a superarlo, starai sempre in mezzo ai bambini, non ne avrai uno, ma cento, mille, avrai uno scopo, vivrai quello che ami di più: l’amore, l’innocenza che hai perso. Pensaci. Sarà l’ultimo treno che potrai prendere per arrivare a quella serenità che altrimenti non avrai mai” Si fermò e si voltò a guardarlo come a pesare le sue parole, poi velenosamente gli gridò “Strunzati nun dici autru chi strunzati.” Si girò e se ne andò a passo veloce superando la sua macchina senza fermarsi. Lui gli gridò “Vai vai, tanto tu non sarai mai in pace con nessuno, ne con me, ne con i tuoi ziti della minchia, e mai, e ripeto mai, con te stessa” Poi sottovoce aggiunse “Picchì si na strunza” Scosse la testa e salì in macchina. Era incazzatissimo e durante il ritorno a casa non fece altro che dirsi che doveva farsi i cazzi suoi, perché se a quella piaceva fare a sucaminchia, doveva lasciarla fare! Arrivato a casa quando era già buio prese un bottiglione di limoncello da due litri e se ne andò in spiaggia a berlo con Filippo e u Cuttu.
LE MURA DI UNA STANZA DURANTE UN TEMPORALE -Per quattro giorni Bastianu non fece altro che andare in palestra, non tanto per bisogno di esercitarsi  ma solo per sfogare la sua rabbia sollevando pesi e sforzando i muscoli ricuciti delle gambe. Il quinto giorno quando tornò da aver fatto la spesa, mentre sistemava la frutta comprata, notò dalla finestra della cucina, che nel giardino c’era qualcuno sul dondolo. Lasciava sempre la porta del giardino aperta, così che i suoi vicini potevano prendersi qualche limone o le erbe aromatiche che teneva nel giardino, però nessuno si sedeva sul dondolo, così incuriosito uscì a vedere. Trovò Bettina sdraiata sul dondolo con il telefono in mano e con accanto due trolley e un sacco della spazzatura pieno di vestiti. La guardò sorpreso e rassegnato. “E ora, chi succidiu?” Lei lo vide e sorrise “Mi hanno buttato fuori di casa” Bastianu fece una faccia sconsolata e rassegnata “Manciasti?” Le chiese “Non ho fatto neanche colazione” “Vieni che cucino i broccoli” “Non mi piacciono i broccoli” “Ti arrangi: questo c’è” Rispose Bastiano seccato Entrarono in cucina e lui si mise a cucinare. Lei si sedette e vedendo un pane fresco ne staccò un pezzo incominciando a mangiare. “Allora, raccontami daccapo: cosa è successo.” “E’ che ci ho pensato. Ho pensato che forse quello che avevi detto poteva avere anche un senso e il giorno dopo sono andata di nuovo a parlare con Franca. Le ho chiesto se quello che avevi detto tu fosse possibile, se veramente potevo diventare ostetrica e far crescere tanti batuffoli rosei. Lei ha detto che se glielo avessi chiesto tu, ti avrebbe risposto di si che era possibile, perché tu hai una forza di volontà e determinazione incredibile. Se ho anch’io la stessa forza, potrebbe essere possibile, ha risposto. Mi ha fatto andare il giorno dopo come assistente volontaria per vedere se il lavoro mi sarebbe piaciuto.” “E ti è piaciuto?” “C’erano bambini bellissimi, guarda ho fatto le foto. Guarda questo che occhioni che ha” Fece mostrandogli il telefonino e guardando estasiata le foto “Poi è arrivata una famiglia di quelle particolari che hanno più parenti in galera che al camposanto e volevano vedere a tutti i costi un bambino. Hanno aggredito la caposala e sarebbe finita male. Allora mi sono messa di mezzo io e li ho spediti tutti fuori. Franca mi ha detto subito che mi avrebbe aiutato perché aveva bisogno di qualcuno che sapesse gestire le famiglie particolari. Mi ha fatto iscrivere a un’associazione di volontari, così che posso stare li in ospedale, aiutarli e imparare le cose più pratiche. Poi mi ha dato dei libri dicendomi di farmi aiutare da Simone, uno che ha appena superato il concorso.” “Ho capito, già immagino come ti aiuterà questo Simone! E’ anche lui romantico e rispettoso” “Che dici, Simone è ghei, non sai come lo prendono per il culo i dottori! Sono degli stronzi. Lui è un bravo ragazzo e gli piacciono i bambini come a me. Al mattino sono in corsia, al pomeriggio studio con lui. “Allora tutto a posto” “No, perché dove lavoravo prima, in tabaccheria, non potevo più andare e mi hanno licenziato. Siccome il padrone era anche il proprietario della casa dove stavo, mi ha mandato via. Allora mi sono ricordata che tu hai l’appartamento di sopra vuoto e magari io posso starci per un po' di tempo” “Studiando e senza fare cazzate?” “Senza fare cazzate!: giuro su mio figlio. Bastiano, io quel lavoro lo voglio! Quando sono in mezzo ai bambini non penso a tutto quello che è successo e mi sento non dico felice, ma almeno serena. Ti prego. “ Lui si voltò a guardarla, e lei continuò “Non puoi farmi la predica e poi tirarti indietro nel momento che voglio fare quello che mi dici” A quel punto lui si arrese “Va bhe, facciamo la prova: se fai una stronzata o se Franca si lamenta di te, ti butto fuori.” La vita di Bastianu cambiò improvvisamente. Al mattino lei passava da casa sua per un caffè e quindi correva a prendere la corriera per andare in ospedale. Il pomeriggio Bastianu leggeva libri di biologia o di medicina perché la sera lei tornava e mentre pranzavano Bettina, con il libro davanti gli faceva domande a cui lui all’inizio non sapeva rispondere. Sul tardi lei se ne andava a dormire al primo piano e lui la sentiva buttarsi sul letto e li restare immobile stanca e senza forze. Il giorno dopo era la stessa cosa e così il giorno dopo ancora. Quando arrivavano sabato e domenica, Bastianu non voleva sentire ragione e se ne andava in spiaggia. Bettina lo raggiungeva più tardi si metteva all’ombra e leggeva gli appunti chiedendogli spesso il significato di una parola o di una frase. Quando passò un suo cugino e sorpreso di vederla la salutò, lei non alzò neanche gli occhi dal libro e disse tutto di un fiato “Ciao, sto studiando per fare l’ostetrica, Bastiano mi ha dato in affitto la casa al primo piano, nun futtemu e nun semu ziti, di alla nonna che la saluto e che gli voglio bene e a tutti gli altri di non rompermi chiddi chi nun aiu.” Il risultato fu che il giorno dopo, e regolarmente tutti gli altri giorni successivi, al mattino qualcuno bussava alla porta di Bastianu e quando lui apriva si trovava di fronte uno dei tanti cugini più piccoli di Bettina che ripeteva cantilenando la solita frase “Me nonna Bettina ci manna stu paccu a me cugina a dottoressa e ci manna a diri chi ci voli beni, mi studia e mi fa cosi boni” Il pacco conteneva ora zucchine fresche, ora patate, uova, un pollo o un capretto a pezzi. Bettina quando lui glielo raccontò commento solo “Lo vedi, ora da Buttanissima sono diventata Dottoressa. La nonna mi ha perdonato” Bastiano capì che lei vedeva questa salita nella scala dei valori della nonna come una mezza vittoria. Purtroppo però, la vita non è mai in discesa. Una sera, una di quelle sere quando il vento gonfiava il mare e piegava gli alberi, mentre una pioggia intensa e fredda schiaffeggiava i tetti delle case e le strade nere e viscide, Bettina tornò con una faccia scura e cupa. Bastianu le mise davanti un piatto di linguine con le cozze che avrebbe resuscitato un morto. Ma lei con la forchetta allargò la pasta nel piatto e non ne assaggiò un filo “Chi succidiu?” Chiese Bastianu stupito dall’assenza di appetito “Oggi Simone mi ha fatto fare una prova con le domande del bando” “Eh allora? “ “le ho sbagliate tutte. Simone si è incazzato. Dice che studio tutto a memoria senza voler capire. Si è proprio incazzato” “Va bhè era la prima volta….” “Si ma le ho sbagliate tutte. Sono andata nel panico e non ho capito più niente “ “Ecco vedi, c’è un motivo, la prossima volta…” “Non ci sarà una prossima volta, sono un incapace, chi voglio illudere? Scecca ero a scuola scecca sugnu, nun si cava acqua i na petra” Si alzò e se ne salì in silenzio a casa sua. Lui lasciò cadere la forchetta nel piatto e la guardò. Poi si alzo, prese una bottiglia di fuoco dell’Etna, quello che aveva novanta gradi, e se ne versò un buon bicchiere, uscendo nel giardino e sedendosi sul dondolo. Lo bevve a piccoli sorsi osservando la finestra illuminata della camera da letto di lei. Dopo un ora che era seduto sul dondolo, la finestra diventò buia e lui, finendo il liquore d’un fiato se ne andò a dormire, senza neanche sparecchiare la tavola. Era in un dormi veglia oscuro ed inquieto, dove si sentiva sveglio ma vedeva strane persone con la testa da scarafaggio mentre camminava su un’impalcatura fitta di tubi da dove, dai livelli più alti, gocciolava sangue. Qualcuno bussò alla porta. Cercò sull’impalcatura la porta poi alla fine capì che era quella di casa, così si svegliò, si alzò ed andò ad aprire. Era Bettina, avvolta in una coperta che senza dire una parola entrò ed andò dritta in camera da letto dove lui la trovò nel letto, in posizione fetale nascosta sotto lenzuola e coperte. “Allura?” Chiese Bastianu “Non riesco a dormire … il vento … il vento è lo stesso di quando ho partorito … porta disgrazie … ho paura. Stringimi per favore … stringimi.” Lui tirò un sospiro e lentamente con le stampelle, passò dall’altro lato del letto e si sedette. Con le mani alzò le gambe mettendole sotto le lenzuola. Spense la luce e lentamente si avvicinò a lei, stringendola a se. Incominciò a carezzarle i capelli “Quando ero in ospedale ad un certo punto volevo lasciar perdere. Dissi al fisioterapista che non ce la facevo più, di lasciarmi stare. Mi sarei rassegnato a camminare sulla carrozzella. “hai ragione” mi disse. “È più facile cosi. Ma renditi conto che se vuoi prendere la vita solo in discesa, resterai un handicappato. Un menomato. Ma non perché andrai sulla sedia a rotelle. No, chi va sulle sedie a rotelle ha una sua dignità. No. Sarai un handicappato perché avrai rinunciato ai tuoi sogni, a tutto quello che su questo letto hai sperato, desiderato, immaginato. Perché il vero handicappato è chi ha rinunciato, chi ha posto davanti ai suoi sogni, a quello che ha sempre desiderato, la comodità, la sua paura di soffrire, il suo rassegnarsi per piegarsi come tutti al vento che soffia. A volte ha più senso spezzarsi nel tentativo, che piegarsi e allinearsi a quello che tutti gli altri immaginano debba essere il senso della vita di ognuno. Se non hai il coraggio di ribellarti al tuo destino allora sei giustificato, sei uno dei tanti, qualcuno che non ha dato a se stesso il posto che meritava.” Io allora pensai al mio dolore. Lo immaginai brillante e tagliente come bicchiere di cristallo, immaginai di prenderlo in mano e di buttarlo per terra rompendolo in mille pezzi. Da allora non ho più sentito dolore, o meglio lo sento, ma non lo ascolto, non lo considero, non gli do modo di decidere per me.   Tu non sei diversa. Per anni hai avuto solo rabbia, ora hai modo di usare la tua rabbia per costruire qualcosa. Non sarai più la madre di un figlio perduto ma la madre di mille piccoli neonati, ognuno dei quali avrà un pezzo d’amore che a lui non hai potuto dare. E se ci pensi, non è una consolazione, non è un modo per cancellare quanto è successo. Havryil ti ha chiesto di dargli qualcosa e tu gliela hai data, ma loro non possono chiedere, dovranno fare affidamento solo sul tuo amore, sul tuo bisogno di amarli. Oggi è stato solo un incidente di percorso, un segnale che devi dare di più, che devi soffrire di più per raggiungere quello che desideri, perché la sofferenza è il metro con cui si misura la felicità. Noi due siamo uguali: non ci importa di soffrire pur di raggiungere quello che riteniamo sia un diritto della nostra vita.” Lei non rispose e lui pensò che dormisse. Cercò di levare la mano con cui le circondava i fianchi e la pancia, ma lei mugolò qualcosa e con le sue braccia strinse il suo braccio, perché lui non la lasciasse. Nel buio che li avvolgeva come una fredda coperta, pensò che non sarebbe riuscito a dormire in quella posizione scomoda, con tutti quei capelli che lo solleticavano. Sentì la pioggia battere contro i vetri delle finestra e il vento che le aveva portato via il figlio premere contro le mura ella stanza, ma lui le disse in cuor suo, che quel vento maligno non sarebbe passato, non l’avrebbe raggiunta. Lui l’avrebbe protetta. Pensando questo, dopo pochi secondi, si addormentò.
DOMANI…- Aveva sentito la sua sveglia suonare ma si ricordò che era sabato e lei non doveva andate all’ospedale, così si lascio sprofondare nel sonno, rifiutandosi di aprire gli occhi. Passò del tempo di cui non ebbe coscienza, finché sentì che qualcosa lo stava accarezzando. Senti un sussurro, una voce sottile, come lo sciacquio delle onde sul bagnasciuga. “Bastià – faceva – Bastià, rusbigghiti” Aprì gli occhi, ma era buio e vedeva poco e niente. “Bastià, rusbigghiti” Si ricordo che si era addormentato con lei e che forse lo chiamava perché aveva portato il caffè. Aprì di più gli occhi e vide i suoi, due stelle nere luminose, e la sua bocca, rossa, piccola, desiderabile come una ciliegia di maggio, velenosa, come il fiore rosa dell’oleandro. “Chi c’è ?” Chiese la sua bocca a quella di lei “Bastià, ho voglia” Le  rispose quella bocca che era l’unica luce che vedeva “Voglia di chi?” “Ho voglia” E la mano di lei gli disse di che cosa, toccandolo dove ancora dormiva Lui la guardò stupito “Ma …” Cercò di obiettare la sua bocca perché gli sembrava strano quella voglia di che poteva essere suo padre, un padre malmesso e debole. Forse doveva discuterne, ma la bocca di lei gli bloccò il ragionamento, glielo divorò, e la sua lingua, glielo porto via ogni obiezione, come il vento caldo d’agosto ruba i fiori ai gelsomini. E le restituì il bacio, con la stessa intensità perché ora aveva sete di lei, voleva conoscerla in ogni sua parte e la sdraiò sulla schiena e la baciò sul collo e nell’incavo delle spalle stringendole il seno, spremendolo per fargli uscire il succo profumato del piacere. Lei si muoveva cercandolo con il grembo e quando si trovarono e lui incominciava ad amarla lei gli prese una mano e la portò a stringerle il collo “Picchiami, chiamami troia – disse e dentro se pensò – chiamami troia, fammi sentire il nulla che sono, godi della mia umiliazione, fammi sentire un animale, una cosa giustificata solo dal tuo piacere” lui la guardò stupito “Finiscila i giucare” le disse levando la sua mano dal collo e baciandola dove le sue dita avevano lasciato un segno rosso” “Finiscila i giucari – ripeté l’anima di lui – non sono uno dei tanti, non sei per me una qualunque, sei l’innocenza che ho perso, la sofferenza che ho vissuto, il dolore che fino ad oggi mi ha nutrito, il piacere che mi dai, il desiderio che sazi, il domani che rappresenti” “Finiscila di giocare, - ripeté lei dentro di se – vuol dire che quello che dava piacere a quei porci dei miei ziti, non ha più senso, è un gioco per bambini, una ridicola farsa, che non ha motivo o senso e  che con me vuole fare qualcosa di vero, di importante perché e questo quello che io sono per lui, perché lui, contrariamente a tutte quelle inutili ombre, a quei pupi senza anima e cuore che ho conosciuto, lui mi ama, mi vuole per come sono, mi chiede di essere quello che sono.” Allora lo strinse con le braccia e le sue gambe si attorcigliarono alle sue malate e piene di cicatrici, alla sua debolezza, così che la loro pelle fosse una unica cosa, come la loro saliva, il battito dei loro cuori e la loro carne, ed infine salì su di lui perché voleva dargli in dono tutto quello che i suoi amanti le avevano insegnato e si mise a danzare, a ondeggiare a oscillare su di lui come la fiamma di un falò che nella notte brucia le cui fiamme si innalzano al cielo muovendosi come lei faceva sul suo corpo con cui era una unica carne.  Lei lo sentiva come il vento che quel fuoco accarezzava, alimentava, ingrandiva e la seguiva nel suo bruciare, finche le loro anime esplosero, annullandosi nella cenere che erano diventate, morendo l’uno nell’altra, sfinendosi esausti e sazi, dissolvendosi nei loro corpi come fa una candida nuvola nell’azzurro intenso del cielo. Vi fu un lungo silenzio, per farli rinascere e rivivere “Ti è piaciuto? Sono stata brava?” “Si” Rispose brevemente “Perché noi mi hai chiamato troia quando te lo chiedevo” “Perché non lo sei” “Per gli altri lo sono. Non ti piaceva?” “A te piaceva?” “A me … una volta si … mi intrigava dentro  … mi faceva godere di più. Ora non so, ora è tutto diverso” Si fermò disorientata come se stesse dicendo troppo “Ma io non sono così” aggiunse velocemente impaurita dall’aver mostrato qualcosa di brutto, di aver detto per sbaglio qualcosa di intimamente suo e vergognandosi di pensare questo perché sentiva che lui, a differenza di tutti gli altri, quel suo mostrarsi per com’era, in fondo lo meritava. Continuò quasi dicendolo a se stessa – Non sono una troia; è  solo un gioco come hai detto tu non penserai  …” “Non penso nulla. – le diede un bacio sulla fronte – Per me non hai un passato. Sei solo Bettina. Quello che dicono o vedono in te gli altri non mi interessa, perché io so di te quello che gli altri non vedono e che non sapranno mai.” L’osservò stupita, poi girò lentamente lo sguardo nella penombra della stanza quasi spaventata dalla verità che le aveva detto, infine tornò a guardarlo “Tu sei … forte. Riesci a portare su di te tuti i miei sbagli” “Dici? Quando qualcuno ci piace accettiamo tutto quello che è, anche quello che non avrebbe senso” E sorrise Lei ci pensò per quasi un minuto, poi decise di uscire allo scoperto “Questo lo chiamano amore” “Non lo so come lo chiamano. So che adesso è cosi. Deve essere così. Domani magari, invece di accettare tutto, odierò tutto” Lei lo guardò negli occhi e lui continuò “E questo dipenderà da te, da me, da noi” Lei sorrise e il suo sorriso illuminò la penombra “Hai detto … Noi. Vuol dire … che siamo una sola cosa, vuol dire che mi vuoi bene” “Può essere, ma stare insieme una notte non è amore. È solo un inizio” “Io di inizi ne ho avuti tanti, troppi.” Commentò amara, appoggiando la testa sul suo petto. Lui mise le mani tra i suoi capelli accarezzandole la testa “Non ha importanza quanti sono stati gli inizi. Dai senso ad una frase a seconda di dove metti il punto. Se lo metti troppo presto o troppo tardi la frase non ha senso.” “E se non lo metto?” “Vuol dire che quella frase diventa la tua vita” Sorrise ancora e si strinse a lui. Vi fu un silenzio che per i loro pensieri fu come la primavera per i fiori “Ti piace la pasta con la mollica?” “Ti vuoi mettere a cucinare?  Da quando ti conosco non hai toccato una padella neanche per sbaglio” “Voglio fare per te qualcosa che non ho mai fatto per gli altri. La pasta con la mollica mi riesce bene. È l’unica cosa che so fare” “E per ostetricia?” “È stata la prima prova, non vuol dire niente. Non ho più paura, ci riuscirò. Con te accanto ci riuscirò, avrò mille piccoli neonati da far nascere, ognuno avrà il sorriso di mio figlio e quando lui mi cercherà gli dirò che ha mille, diecimila fratelli, tutti figli miei” Si strinse ancora a lui, con la testa sul suo petto chiuse gli occhi e continuò “Sai qual è la parola più bella dopo amore” “Scopare?” Fece lui ridendo “No, scemo, è “domani”! Domani tu sarai ancora qui, domani faremo all’amore, domani farò un nuovo test, domani vincerò il bando, domani sarò ostetrica, farò nascere tanti batufoli rosa, domani vedrò mio figlio …. Domani È una parola bellissima, che adesso per me ha un senso. Una parola dove ci siamo tutti e due.”
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sciatu · 2 years
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U CADDIDDU - L’amore dei vecchi
A Biagio Manicò la pensione, arrivata quando ancora non aveva l’età a cui andavano tutti gli altri, sembrò subito un emerito scassamentu di paddi! Da quando aveva undici anni, aveva lavorato come garzone nella Rinomata Pasticceria del Cavaliere Paternò, lavorando principalmente la notte per produrre, cornetti, briosce e dolci di varia natura, dagli agnelli di cedro per Pasqua, alla pignolata e ai panettoni per Natale. Durante la notte i suoi clienti erano i nottambuli, le buttane di diversa categoria, i ricchiuni più o meno altolocati, i ladri, gli spacciatori di basso rango, i ragazzi che volevano divertirsi e quegli operai obbligati come lui a lavorare quando gli altri dormivano. Ora d’improvviso si trovava in un mondo sconosciuto, rumoroso e indifferente e tutti i suoi amici notturni erano chissà dove, in quel caos abbagliante che è Messina di giorno. Biagio però non si perse d’animo e convinto che la pensione dovesse avere qualcosa di buono si mise ad aiutare sua moglie Filomena nelle faccende casalinghe. Capì però, dopo che aveva rotto il lampadario della cucina, macchiato il divano con la candeggina e fatto saltare il forno a microonde, che sua moglie non era molto contenta del suo aiuto soprattutto perché girava per casa urlando come un’ossessa ogni volta che scopriva una sua malefatta. Per fortuna Filomena era pia e devota, così un pomeriggio che aveva perso quasi la voce per le urla fatte, andò a confessare a don Nino la sua volontà, secondo lei giustissima e giustificabile, di uccidere il marito. Don Nino, sentendo che nell’elencare i difetti del marito le era tornata la voce, per non farla urlare come una indiavolata anche nel confessionale, le suggerì di mandargli Biagio per aiutarlo in parrocchia, suggerimento che Filomena, accolse come una grazia della Madonna delle Lacrime. Tornò a casa tutta contenta e spiegò a Biagiuccio, come lo chiamava nei momenti di intimità, che don Nino, con la Madonna e tutti i Santi, avevano bisogno di lui. Biagio, visto che non aveva nulla da fare andò a sentire don Nino che prendendolo a braccetto e camminando tra le navate della chiesa, gli spiegò che servire Dio era un dovere e non un lavoro, che come i soldati, non era importante fare la guardia a un fusto di benzina o far saltare un carrarmato, ma che bisognava fare solo il proprio dovere che era fare quello che Dominedio ci diceva di fare. Biagio, non era uno che stava a sentire i preti, ma visto che non aveva niente da fare e che la parrocchia era piena di signore e signorine accettò di passare un po' di tempo ad aiutare il vecchio sacrestano nella manutenzione della chiesa. Si presentava regolarmente ogni mattino e si metteva a passare la cera sulle panche o a pulire gli altari dalla polvere che veniva dalla strada. Ogni giorno faceva una sola cosa perché si metteva a parlare con questa o con quella che passava dalla sacrestia o per le navate e per questo motivo Biagio non aveva tempo di fare altro o di fare troppo. Fisicamente era ben messo (fin da piccolo era stato costretto dal lavoro a fare molto esercizio fisico) e per questo, molte pie donne lo trovavano interessante o piacevole; in aggiunta lo sentivano caratterialmente simpatico perché aveva letto molto per rifarsi delle scuole scarsamente frequentate e quindi aveva una parlantina frizzante e ironica che colpiva le devote fedeli della parrocchia. Biagio quindi non aveva problemi a trovare con chi parlare per far passare il tempo, senza mai permettersi di oltrepassare quella sottile linea oltre la quale l’amicizia diventava qualcosa che avrebbe fatto scatenare la furiosa ira di Filomena. Al Manicò sembrava quasi di essere tornato a quando lavorava di notte in pasticceria e dava i cornetti caldi ai nottambuli che passavano dal laboratorio scambiando con loro quattro chiacchiere. Un giorno, mentre spazzava l’altare di san Giuseppe in attesa di qualche onesta peccatrice con cui scambiare due parole, ecco che vide arrivare una signora alta, vestita come nelle riviste di moda con in mano un IPad e che parlava tutta sollecita (alla svelta) con il povero Don Nino che le camminava dietro come uno scolaretto fa con la maestra. “Queste pareti hanno un colore orribile, non possiamo ritinteggiarle? magari un bianco colomba o Ice-hot? Levando quelle strisciate di equivoco e squallido giallino …. Ahhh e quello cos’è?” Chiese terrorizzata indicando una statua che sovrastava un altare laterale “E’ San Rocco – rispose pronto Don Nino – il protettore dei feriti e dei lazzariati” “Per carità, con tutto il rispetto per i Santi e chi per loro, ma  non vorrà mostrare questa statua con tutto quel sangue in un matrimonio ? No, no, lo ricopriremo con dei fiori” E si mise a scrivere velocemente sull’I-Pad. Biagio la guardava stupito per la sua eleganza, per i fianchi stretti messi su un sedere elegante, ma era anche spaventato dalla velocità con cui mitragliava parole. Lei alzò gli occhi e incontrò quelli di Biagio “E sto coso chi è?” “E’ il nuovo assistente del sacrestano” spiegò paziente Don Nino” “L’assistente del sacrestano? Ma sembra uno scopino senza voglia di lavorare – sottolineò schifata dal quel corpo proletario appoggiato ad una ramazza d’altri tempi – Don Nino, per favore, lo sa che il Commendatore paga per una cerimonia elegante, ordinata ed emozionante. Non possiamo far vedere questo netturbino ecclesiastico in mezzo alle riprese di deputati e giudici…. Per favore – continuò con tono severo rivolta a Biagio – durante le prove aspetti fuori, abbia pazienza, quando finiremo le prove potrà tornare a lavorare, se ne ha mai avuto voglia” E senza dargli tempo di dire “ne schì ne scò” lo spinse con due dita verso la porta a lato della navata e girandosi verso la gente che la seguiva e mentre si puliva con un fazzoletto le dita che avevano toccato Biagio, incominciò a gridare con voce da contralto “I parenti della sposa vadano a sinistra quelli dello sposo a destra secondo lo schema che trovate nel fogliettino che vi ho dato! Ognuno dove è scritto il suo nome…” Biagio guardò Don Nino mostrando la ramazza quasi a chiedere se poteva argomentare il suo disappunto per le parole di quella jarrusa licchittata (malafemmina ben vestita) rompendole in testa il manico della scopa. Don Nino gli fece cenno di lasciare stare e di andare fuori e lo fece alzando gli occhi al cielo per fargli capire che anche a lui la cosa non andava, ma se non rispettavano San Rocco, potevano rispettare all’assistente del sacrestano? Biagio se ne andò scuotendo la testa e si mise a ramazzare nel cortile piccolo, quello circondato dalle mura della chiesa e dell’oratorio dove c’era la statua di Padre Pio. Stava pensando ai cavoli suoi quando vide uscire qualcuno dalla porta laterale della chiesa. Era una ragazza, vestita con maglietta e jeans e una nuvola di capelli neri che le coprivano il volto che comunque non si sarebbe visto perché lei lo nascondeva tra le mani, come se stesse piangendo. Si mise in un angolo del piccolo cortile a singhiozzare senza far caso a Biagio. Lui la guardava disorientato e non sapeva cosa fare. Alla fine si avvicinò lentamente e appoggiandosi alla scopa le chiese “Signorina, mi scusi, non volevo disturbarla, va tutto bene?” Lei continuò a piangere e singhiozzare come se lui non avessero parlato. Biagio si avvicino ancora di più “Signorina, scusi di nuovo – e prendendo un fazzoletto glielo porse – tenga, si asciughi gli occhi che se qualcuno passa, penserà che le ho fatto qualche torto” Lei si girò lentamente e vedendo il fazzoletto lo prese. Il volto era coperto dai capelli e neppure si vedevano le lacrime che eppure scendevano fino a terra “Ecco signorina, io non voglio occuparmi degli affari degli altri, ma vede …  io sono l’assistente del sacrestano, sono un uomo di chiesa e devo aiutare chi ha problemi. Sa la storia del samaritano che trova uno investito sul lato della strada, menzu mottu e lo aiuta. Magari se si sfoga non le verrà più da piangere.” Lei si soffiò il naso e si asciugò gli occhi spostandosi indietro i capelli. “Nooo  … nooon … eeee … ra invvveee … stito. Lo …. aa …. aveva … no ddd ddd … deru … bato” “Matritta bedda – penso tra se e se Biagio – è ghecchia!! (balbuziente) ma ghecchia forte!!!” E continuò ad alta voce “si mi confondo sempre: investito o derubato, era sempre uno che aveva bisogno d’aiuto come a lei ora. Posso fare qualcosa” “nnn … noo … chi … vvvv … voo…li fari? Dooo …  vee… vo … leg…geee …reee … iil … vaa … aan … gelo. Ma aa… pena inco ..miiiin… ciato … sii soono … mmeees… si … a ride … ere … tuu … tuu … tti” E incominciò di nuovo a piangere. Biagio era perplesso. Anche lui avrebbe riso se quella ragazza avesse incominciato a leggere per come gli stava parlando. Ma era una ragazza e non poteva lasciarla li nella sua disperazione. “Signorina ma quelli che ne sanno? Se quella signora che comanda l’ha fatta leggere, vuol dire che lei deve leggere. Quella vuole levare a Santu Rocco, si figuri se non la bloccava immediatamente se leggeva male. E poi nessuno ha il diritto di ridere di una altro. La prima cosa nella vita è il rispetto! San Francesco lo hanno fatto santo perché rispettava tutti, dai passeri al papa. Purtroppo al mondo vi sono più maleducati che foglie sugli alberi” le passo un altro fazzoletto e le spostò i capelli dalla faccia trovando due occhi scuri annegati di lacrime che lo guardavano disperati. Sorrise continuando “Senza rispetto saremmo tutti comi i “cani i Blasi” pronti a scannarci per niente. Non li consideri neanche” E le fece il sorriso migliore che aveva “Lauretta … Lauretta” Apparve una signora alta, elegante, con capelli biondi e ben curati. Quando la vide a Biagio sembrò di riconoscerla “Signora Marisa…” La signora, che intanto aveva abbracciato la ragazza lo guardò stringendo gli occhi per vederlo bene. “Biagio ! – esclamò sorpresa – che ci fai qui?” “Sto aiutando Don Nino qui nella parrocchia. Ma questa è Lauretta? Me la ricordo quando nica nica (da piccolissima) entrava in pasticceria ed io le davo il bombolone con la crema che le piaceva tanto. Mi ricordo che aveva tutta la crema intorno alla bocca ed il naso tutto bianco per lo zucchero.” Sorrise alla ragazza che rispose abbozzando un piccolo sorriso. “Mi ricordo quanto eri carina. Ora non te la devi prendere. Al giorno d’oggi ci sono tanti modi per curare tutte le malattie. Vedrai che per il matrimonio leggerai come una giornalista della televisione!” “Magari -  fece la madre – volevamo che andasse dal Logopedista ma dopo la prima lezione è scappata via perché non ce la faceva neanche a parlare!” Biagio la guardò stupito. “No, non devi fare così! Nella classe di mio nipote Michele c’era una bambina che era come te. Avevano fatto la recita di Natale, lui doveva recitare una poesia e non è riuscita a dire una parola. Signora lei non si può immaginare come si è messa a piangere. -  Intanto Biagio aveva tirato fuori il suo cellulare e sembrava cercasse qualcosa - Invece è andata dal logopedicosu e ha fatto tutte le lezioni e Michele e i suoi compagni a turno l’aiutavano: ognuno di loro stava un pomeriggio con lei a farla esercitare e … ascolti …” Mostrò loro sul cellulare una bambina al centro del palco della scuola che con voce ferma recitava scandendo le parole “Non sete, non molli tappeti, ma, come nei libri hanno detto da quattro mill'anni i Profeti, un poco di paglia ha per letto. Per quattro mill'anni s'attese quest'ora su tutte le ore…..” Biagio interruppe la bambina sul cellulare “Ha visto Lauretta, parlava perfettamente e le hanno dato la strofa più lunga propria per farlo vedere a tutti che non era più ghecchia, … volevo dire balbuziente. Anche lei ce la puoi fare” “Maaa … io .. nnnon … ceee … la… pooo … ssso … fffa …re” Rispose triste e sconsolata la ragazza Biagio non si arrese “Posso dirti una cosa, una cosa breve, perché forse dovete andare” La madre rispose “Effettivamente dovremmo andare” Ma non si mosse osservando la figlia che attenta ascoltava Biagio “Nnno … voo ..  glio … ssseen … tire” Rispose decisa la ragazza “una volta ho trovato un caddiddu, che era caduto dal nido. L’ho preso e portato a casa, l’ho messo in una gabbia e lui è cresciuto li dentro. Ogni mattina, appena spuntava il sole, cantava tutto felice. Cantava in un modo meraviglioso che rincuorava tutti quelli che stavano nel mio palazzo. Io lo curavo come un figlio e tutto il mio tempo libero lo passavo con lui. Quando era diventato vecchio, a mala appena riusciva a cinguettare qualcosa e stava fermo sul suo trespolo tutto il giorno. Io mi sono detto che non era giusto, ora che stava morendo, lasciarlo li in gabbia. Perciò un giorno gli aprii la porticina e gli dissi “Vai, vattene, vedi il sole, le nuvole, conosci il vento, scopri il mare, i fiori e le foglie. Prima di morire scopri il mondo per cui eri nato, libero e felice”. Lui invece se ne rimase chiuso nella gabbia. Io allora, con una piccola canna lo spinsi fuori. Lui volò fino al davanzale della finestra. Guardò fuori e poi se ne tornò in gabbia. Vedi, ormai si era fatto l’idea che la gabbia fosse la sua vera casa, pensava che quello che aveva visto dalla finestra, gli alberi, il cielo, le nuvole, il mare lontano, non fosse il suo mondo, la sua vita e se ne era tornato dove era sempre rimasto prigioniero” Biagio si fermò e guardò la ragazza negli occhi. “Non deve fare comu u caddiddu. Quelli che hanno sorriso mentre leggeva, sono la sua gabbia, la vergogna che ha provato, sono le sue sbarre. Il logopedicosu è la sua porticina aperta, quella che dà la fuori, sul mondo per cui sei nata, sulla vita che è sempre una meraviglia da scoprire. Non devi perdere questa occasione, non andare a chiuderti nella gabbia pensando che quella è la tua vera vita e che non meriti altro perché non vali niente. Non è così. Devi farti forza e impegnarti al massimo e vedrai che dopo i primi momenti un po' difficili, tutto diventerà più semplice. Tua madre, tua sorella, tutti t’aiuteranno” Qualcuno uscì dalla porta della chiesa e chiamò “Signora, signora, la Weddings Planner la sta aspettando” “Vengo, vengo – rispose seccata – chi camurria chi è da cristiana! Lauretta, hai sentito il signor Biagio? Se ti impegni e se lo vuoi veramente potrai leggere la lettura per il matrimonio di tua sorella. Grazie signor Biagio, ora dobbiamo andare, ma Lauretta terrà presente il suo consiglio. Non è vero Laura?” La ragazza allungò la mano e quando Biagio gliela strinse, disse velocemente “Graaazie” Biagio le osservò andare velocemente e prima di entrare Laura si giro per salutarlo con la mano, come faceva quando usciva dalla pasticceria. A cena raccontò quello che era successo a Filomena e lei lo informò sul matrimonio “Quella che hai visto è la Weddings Planner che organizza i matrimoni dei personaggi famosi. L’ho vista pure su Telecolor. Il Commendatore Andò ha pagato nu saccu i soddi per farle organizzare il matrimonio della figlia maggiore con il figlio dei Baroni De Requesenz, il direttore del Banco Siculo.” “con tutti quei soldi poteva portare Lauretta da un buon Loguperasta …” “Logopedista, Biagio, no sai diri” “Chiddu chi caddu jè, non poteva portare prima la figlia a parlare bene?” “Che vuoi, hanno avuto gli occhi solo per la figlia grande. Poi figurati alla piccola non sono stati dietro più di tanto e lei si è chiusa in se stessa, non ha amici e non parla mai con nessuno l’hanno sempre considerata un po' cretina, mi ha detto la comare che abita nella loro strada.” “ma comu cretina – disse sdegnato Biagio – per questo parra pi comu parra puvirazza!! Quando uno non si sente considerato non diventa ghecchio: diventa escluso, e se ha già qualche difetto è comu mottu!” E per il resto della serata restò di malu verso. Il malumore gli restò per qualche giorno e appena vedeva Don Nino gli attaccava bottone lamentandosi dell’indifferenza della famiglia Andò per il problema della figlia. Ad un certo punto Don Nino gli chiese “Ma perché t’arraggi (ti arrabbi) pi da carusa? Chi te ne vene a tia?” “Perché quando ero ragazzo a mi prendevano pi babbu (stupido) come a idda!!! Mi chiedevano “come ti chiami?” e jo non arrispunnia perché mia madre mi diceva di non parlare con nessuno e allora la maestra mi metteva in fondo alla classe cu Cicciu u Lampatu (lo stordito) e Cosimu u meravigghiatu a rutta, che stava sempre con la bocca aperta a guardare stupito il mondo come fanno i personaggi del presepe. Se mi avessero dato un’opportunità, se mi avessero considerato, ora magari sarei laureato, avrei lavorato in banca o al Comune! Invece non volevano perdere tempo e mi hanno messo da parte e a dieci anni me ne sono andato a lavorare perché era inutile aspettarsi qualcosa da loro. Ora per lei è lo stesso: fatti a nomina e cuccati cioè fatti una reputazione e non fare più niente perché tutti ti tratteranno per come pensano che sei. Pi sti puvirazzi nun c’è un Cristo che fa un miracolo!!” Don Nino lo guardò stupito. “Ma non c’è bisogno di Cristo per questo: tu hai già fatto un miracolo. Ora la figlia della signora Andò sta andando dal logopedista e sua madre mi ha detto che il merito era tuo” “O veru?” Chiese stupito Biagio “Ca cettu! L’ho sentita io” Biagio fu stupito da quanto il prete aveva detto “Speriamo che almeno lei riesca a trovare la sua via” Disse alla fine. Tornò a casa pensando a quello che gli aveva detto il prete. A pranzo ne parlò con Filomena che disse soddisfatta che almeno quel disastro di suo marito “mezza cosa giusta, nta so vita, l’aveva fatta”. Mentre mangiavano suonò il telefono e Filomena andò a rispondere con Biagio che seguiva il telegiornale pulendo il sugo dal piatto con un pezzo di pane. La moglie arrivò di corsa con il telefono coperto con la mano “È la signora Andò, ti voli parrari” Disse sottovoce tutta eccitata. Biagio si pulì la bocca con il tovagliolo e si schiarì la voce mentre Filomena allungava l’orecchio verso il telefono per sentire “Proontò” “signor Biagio mi scusi se la disturbo all’ora di pranzo, volevo ringraziarla innanzitutto per le belle parole che ha detto a Lauretta. Lo sa che l’ha convinta e che ora va regolarmente dal logopedista?” “ne sono contento signora: è una brava ragazza, molto sensibile” “Infatti, lei lo ha capito e ha saputo usare il giusto tono. Ecco vede ora Lauretta si deve esercitare, deve avere qualcuno con cui mettere in pratica quello che le insegnano. Io le ho detto che poteva farlo con me ma lei ha insistito per chiederle se lei può aiutarla. Non vorrei che la cosa le prendesse troppo tempo ma se potesse dedicarle un’oretta al giorno, le sarei molto grata” “signora mi consideri a disposizione, se posso aiutare Lauretta lo faccio volentieri” E dopo i soliti convenevoli si salutarono. “Vedi che te lo avevo detto: non la considerano a quella povera figlia: chi ci ntrasi tu con lei” Commentò la moglie che aveva sentito tutto “È che ha capito che io parlo per il suo bene” rispose Biagio contento di poter aiutare la ragazza. Per una diecina di giorni si vide quasi ogni giorno con Lauretta. Avevano scelto di incontrarsi nella Villa Dante e da li camminavano lungo il viale San Martino fino a Piazza Cairoli, il centro di Messina. Mentre andavano si fermavano sempre in qualche pasticceria o gelateria e lui le comprava sempre qualche dolce, quello che secondo lui era la specialità del negozio. Lei aveva incominciato a dargli del tu e mentre andavano gli spiegava gli esercizi che le facevano fare e poi provava a descrivere la sua giornata, o i suoi compagni di scuola. Biagio, che non stava zitto neanche se era sott’acqua, prendeva spunto da qualcosa che lei diceva per raccontarle dei fatti della sua vita, poi parlava dei libri che aveva letto, dei viaggi che avrebbe voluto fare per mare e le raccontava delle tempeste terribili che aveva visto su Instagram, degli animali esotici visti su Focus ed usava parole tali e similitudini fantastiche e colorate, che lei lo stava ad ascoltare stupita che il mondo fosse così meraviglioso. Poi Biagio le chiedeva cosa avrebbe fatto in questa o quella situazione e lei si sforzava per parlare di sé stessa, di quello che pensava o desiderava e che non aveva mai detto a nessuno e scoprendo, grazie ai commenti ed esperienza di Biagio, che anche le persone normali avevano i suoi pensieri, le sue paure, i suoi sogni e che anche se loro non balbettavano, spesso era come se fossero ghecchi anche loro, perché gli altri li trattavano come si sentiva trattata lei quando parlava. Solo quando sua mamma telefonava per sapere dove era, si accorgeva che era tardi, che doveva andare e lasciava il suo unico amico di malavoglia, perché per una manciata di secondi era fuggita lontano dalla sua gabbia. Biagio però non si dimenticava del suo compito e il giorno dopo la faceva parlare e ridire le parole in cui si era bloccata il giorno prima, oppure la sfidava a ripetere dei sciogli lingua “Prova a dire Tirituppiti e pani rattatu, consami u lettu ca sugnu malatu, sugnu malatu di malincunia, consami u lettu ca vegnu cu tia” “e se lllo dico … cosa … vinco? “Ci prendiamo un beddu cannolu unni Irrera” Allora lei iniziava a ripetere lo sciogli lingua e quando inciampava o si fermava lui le diceva di iniziare di nuovo e lei si arrabbiava e con la faccia rossa rincominciava a voce più alta mentre la gente che passava guardava preoccupata quella ragazza tutta agitata che diceva cose incomprensibile come posseduta da chissà quale diavolo e quell’uomo accanto che la fermava e la incitava a continuare o ad iniziare di nuovo. Alla fine lui le comprò il cannolo e lei mezza stravolta dalla fatica gli disse che forse era meglio che non lo mangiasse. Lui la guardò stupito “E picchì? Nu cannolu nun si deve rifiutare mai soprattutto se è quello di Irrera” “È che se no ingrasso mi vengono i punti in faccia e divento più brutta di quello che sono” Ed abbassò gli occhi dalla vergogna. Biagio la guardò attentamente. La massa di capelli le nascondeva il volto tondo e facevano un tutt’uno con le folte sopracciglia. Dalle tempie le scendeva verso la guancia una peluria appena accennata, ma tanto scura da notarsi immediatamente. Aveva una felpa enorme rosa e una gonna di jeans che finiva in un merletto ridicolo, mentre le gambe rivestite da una calzamaglia nera pesante finivano in un paio di scarpe da ginnastica bordate d’oro e con una suola di quattro centimetri. Biagio si pulì le labbra. “Ti  stai rinchiudendo in un'altra gabbia, peggio du me caddiddu” Lei lo guardò seria “Che vuoi dire” “tutte le donne sono belle, ma le più belle sono quelle che lo sono per sé stesse” Lauretta batté gli occhi non capendo “Vedi se si va da una estetista, questa leva qualche pelo qua e là, pitta le unghie e rende più bella la persona. Se si va da un parrucchiere lui sistema i capelli in un modo più elegante e ordinato, se si va in una boutique, vendono i vestiti costosi dei grandi sarti, una bella borsa di pelle e a questo punto, ti chiedo: la persona che và da questi esperti estetici sarà bella?” “si penso di si, io sarei belli … issima, “No, saresti un manichino che gli altri hanno aggiustato secondo quello che loro ritengono essere la bellezza. Saresti bella come un cannolo con dentro la crema Chantilly che dopo il primo morso nausea - lei lo guardò tutta seria come se pesasse ogni parola che lui diceva - devi cercarti la tua bellezza, quella che ti fa sentire in ordine, pulita, sicura, in grado di presentarsi agli altri senza paure e vergogne perché dentro di te sei a posto e il tuo corpo, i tuoi vestiti, il tuo modo di muoversi sono la parte tangibile, l’evidenza di come sei dentro di te. Una volta che hai raggiunto questa consapevolezza, di mostrarsi per come dentro di te ti senti, allora sarai veramente bella. Prima di tutto per te stessa e poi giocoforza per gli altri. Mia moglie, non glielo dire mai, è un arancino con i piedi. Tonda, bassa, senza nulla di particolare, non si dovrebbe considerare bella, interessante. Ma quando cammina per strada si muove in una maniera che ancora qualcuno si volta. E non lo fa in modo volgare o malizioso o per essere notata. Lei lo fa perché è cosi che le piace essere, è così che si sente bella e sa che io così la vedo bella. Ha trovato il suo modo di interpretare la bellezza. Ci ha lavorato a lungo ma alla fine io posso confermare solo che è bella, non per i vestiti, o il taglio dei capelli ma per come veste di gioia ogni cosa che fa, la gioia che ha dentro di se.” Lauretta continuò a guardarlo anche se lui non parlava più. Dopo qualche secondo disse solo, senza balbettare, “ho capito”
“Dumani è duminica, ci tagliamu a tiesta a Minicu, Minicu un c'è, ccià tagghiamu o re, u re è malatu, ccià tagliamu o suddatu, u suddatu è a guerra, tutti cu culu 'nterra! Ti piace questo sciogli lingua? Me lo ha insegnato il sacrestano. Oggi lo dico a Lauretta e vediamo se lo sa ripetere!” “Lauretta ha chiamato prima ha detto che oggi non viene perché deve fare delle cose” Gli rispose Filomena mentre puliva la cucina. “Comu nun veni?” “dissi chi avi a chi fari cu so matri” Biagio fu sorpreso ma non si stupì; pensò che con l’avvicinarsi del matrimonio le cose da fare a tutta la famiglia Andò non dovessero mancare. Il giorno dopo però Lauretta gli scrisse sul telefonino che era presa e che si sarebbero rivisti la settimana dopo. Biagio si giustificò il tutto con il fatto che ormai Laura sapeva controllare il suo modo di parlare e tornava a balbettare solo quando qualcosa la turbava. Tornò alla vita di tutti i giorni e rivide Lauretta solo due settimane dopo. Biagio era al solito posto dove si incontravano e si ripeteva lo sciogli lingua che voleva farle dire quando una ragazza si avvicino e lo salutò. “Ciao Biagio” Lui la guardò stupito, solo guardandola bene la riconobbe per il taglio degli occhi e il sorriso “Lauretta!” Fece Biagio stupito. Lei sorrise felice “Anche tu non mi rico..noscevi” “ma sei cambiata completamente… e i capelli?” “Visto, li ho ta..gliati e colorati di biondo, ho sfoltito le sopracciglia e ho levato tutta la peluria” Biagio la guardò stupito. Indossava un jeans elastico che esaltava tutte le sue forme e un giubbino di cuoio sopra una camicia elegante aperta a far vedere l’inizio del seno. Degli stivaletti con tacco a spillo e punta dorata e le unghie curatissime completavano il suo salto dalla profonda adolescenza alla prima splendente giovinezza. Biagio dentro di se era affascinato da quel corpo che aveva sempre visto nascosto dentro a vestiti goffi e fuorimoda. Lei lo prese sottobraccio e lui sentì una ventata di profumo sottile e delicato. “Ho seguito il tuo consiglio, mi sono fatta portare dall’estetista e dal parrucchiere” “Ma non era questo il mio consiglio” “I..infatti. Ho detto loro come volevo essere e… e non … mi sono fatta consigliare. Ti piace il risultato?” Biagio la guardò “ Mi piace la luce che viene da dentro di te, è questa  la tua bellezza” “ Si, sono co..oontenta. Ora faccio palestra, una dieta terribile, ma sono come volevo essere, fi.. nalmente” “se sei contenta, lo sono anch’io. Non vuoi ripetere perciò lo sciogli lingua che ho pensato….” “No, vvoglio chiederti un'altra cosa” “chiedi pure, poi però il cannolo lo offre tu” “non mangio più cannoli, solo spremute! Ti volevo chiedere questo: come capisci se ami qualcuno?” E lo guardò con una malizia che lui non aveva mai visto nei suoi occhi. Biagio si fece serio. “Non posso parlarti d’amore” “e perché?” “Perché io sono vecchio e tu sei giovane” “e cosa c’entra che io sono giovane: l’amore sempre amore è” Biagio ai sedette su una panchina della villa in cui stavano camminando “no, non è vero. Quando si è giovani, l’amore è il presente. L’aspettarla, il desiderarla, l’abbracciarla, il baciarla, il camminare con lei mano nella mano senza aspettare o desiderare altro che non sia lei. Vivere del desiderio quando l’aspetti, della passione quando l’abbracci, del nulla che il mondo intorno a voi diventa quando è tra le tue braccia ed i suoi occhi sono nei tuoi. Ma quando si è vecchi, l’amore è il passato, sono le assenze che lei riempie, i dolori che cancella, il futuro che nasconde.” Lauretta lo guardò e aggrottò le sottili sopracciglia ben curate e alla fine disse “Non capisco” “vedi, io e degli amici eravamo andati a capo Milazzo per fare un bagno. Allora correvo dietro ad una ragazza, alta, bionda, con i fianchi stretti e un seno pieno, ma mentre eravamo li, lei si imbosca con un suo amico di Rometta. I miei amici erano a nuotare ed io seccato mi ero seduto sulla spiaggia accanto a Filomena che cercava inutilmente di mettersi la crema solare nelle spalle. Mi siedo dietro di lei e gliela spalmo sulla schiena e intanto parliamo delle solite cose. Ecco mi ricordo la sua pelle bianchissima e morbidissima. Lei poi si sdraia ed io insisto per metterle la crema sulla pancia. Aveva una pancia grossa, bianca e morbida, più soffice dell’impasto delle brioche.” Biagio si fermò come se il ricordo ancora lo colpisse. “ Sai, noi uomini nella testa – fece toccandosi con l’indice la tempia -  abbiamo un labirinto chiamato sesso in cui ogni ragionamento si perde. Il mio pensiero, a sentire quella carne delicata e leggera come schiuma, a vedere gli occhi pieni di gioia e furbizia di Filomena e la sua bocca che rideva, si perse completamente nella voglia e nel desiderio e le chiesi cosa avrebbe fatto la sera. Da lì inizio tutto quanto. Questo è l’amore dei giovani, se chiedessi al Biagio di allora cos’è l’amore lui risponderebbe: desiderio, passione, sesso, bellezza, piacere, un po' di minchioneria e tanta voglia di stare sempre insieme, di navigare incoscientemente verso il futuro di cui non si sa mai nulla.” Biagio si mise le mani in tasca e prese un fazzoletto con cui velocemente si asciugò la bocca. “se invece lei chiedesse a questo Biagio, che è insieme a Filomena da un tempo che lui non conta più, che cos’è l’amore, questo vecchio non risponderebbe così. Direbbe che l’amore erano le briosce calde che portava al mattino a casa quando finiva il turno e moglie e figlia lo aspettavano per fare colazione e l’odore di vaniglia o di crema riempiva la casa prendendo il posto dell’odore caldo di sonno. L’amore era la stanchezza della moglie che tornava a casa dopo una giornata che puliva le case dei ricchi e che seduta al tavolo della cucina aspettava che le versassi la pasta nel piatto e che aspettando si addormentava, così che dovevo svegliarla per mangiare con lei prima di uscire ed andare in pasticceria a lavorare, lasciandola sola nel letto con la sua stanchezza e la nostra solitudine. Questo è l’amore di noi vecchi: il senso di fatica, i sacrifici, i baci non dati, i silenzi, i litigi spenti per rassegnazione, i problemi, le difficoltà e dall’altra parte i compleanni, la nascita dei nipoti, il loro crescere, il nostro invecchiare curandoli e amandoli perché l’amore dei vecchi è un amore distribuito, dato a tante persone anche se nasce a ragione di una sola e di cui tanti, forse, non se ne rendono neanche conto perché trovano quell’amore come una cosa normale, dovuta.” Biagio si zitti guardando il fazzoletto che stringeva tra le mani e iniziò a parlare più lentamente “L’amore è la mano di Filomena stretta nella mia in ambulanza. Una mano pallida, fredda, perché aspettava il figlio maschio che desiderava e ha avuto un aborto spontaneo ed io la trovai nel salotto di casa, nel sangue, svenuta e senza forze. Io guardavo quella mano e sentivo lei piangere e avrei voluto darle tutto quello che c’è nel mondo per non farla piangere più e renderla felice per come la volevo vedere. Felice, per com‘era quando ci eravamo conosciuti e per come vive nei miei ricordi. Ed invece ormai non potevo farlo più, non avevo più modo e tempo per donarle quello che voleva. Anche se sei il più ricco del mondo, se non puoi asciugare le lacrime di chi ami, sei solo un povero Cristo come tanti. Questo è l’amore dei vecchi, quello che potevamo dare contro quello che abbiamo veramente dato e il senso di impotenza che ne deriva perché non c’è più tempo. Questo è l’autunno dell’amore: quello che ci è stato dato contro quello che avremmo voluto avere. Lo so che è stupido fare questi bilanci ma lo dico per te, perché tu comprenda che il più grande nemico dell’amore è il tempo. Il tempo che odia l’amore perché l’amore lo vince e lo neutralizza, il tempo che dell’amore falso, rivela l’incapacità, l’ipocrisia e lo rende distacco, solitudine, sofferenza, ma che non potrà mai vincere o negare quanto non può rubare, l’amore vero, quello che ti fa sfottere la morte perché quel tesoro che hai vivrà più a lungo di te. “ Biagio si voltò e guardò Lauretta negli occhi “Devi prendere seriamente l’amore perché ha una forza spaventosa, può distruggerti o renderti immortale, questo noi vecchi lo abbiamo capito quando era troppo tardi e voi giovani non riuscite neanche concepire questo senso drammatico e necessario di amare” Lei lo guardò senza capire e lui vedendo la sua difficoltà a seguirlo sospirò e le chiese: “perché u caddiddu è tornato nella sua gabbia?” La ragazza sorrise “Perché aveva paura di cambiare” “questo è quello che ho pensato io che da sempre, voglio vedere cosa c’è dopo l’orizzonte. Lo sai cosa ha detto mia moglie?” Lauretta lo guardò e scosse la testa “che u caddiddu è tornato nella gabbia perché non voleva lasciare chi lo amava, chi lo aveva sempre accudito e chi ogni giorno gli parlava e sorrideva. Ha rinunciato alla libertà, il suo bene più prezioso, per restare con me. Capisci? Filomena ha risposto quello che lei avrebbe fatto, rinunciando a vedere l’altra parte della vita, per amore. Malgrado tutto quello che abbiamo passato, malgrado le parole, gli sfottò che ci diciamo, lei non mi lascerebbe mai: questo è l’amore che non conosce il nulla che divora le vite. Quell’amore che riempie quegli istanti che altrimenti non avrebbero senso, la lancetta corta della nostra vita che  indica lo scorrere del  tempo e vince la consapevolezza di essere di passaggio.” Lauretta abbassò gli occhi e poi tornò a guardare quelli di lui. “perciò non ameresti mai un'altra” “Perché dovrei? Per fingere di essere tornato ragazzo ed illudermi di avere una vita di fronte a me? Per illudere qualcuno di aver raggiunto un paradiso che sarebbe solo provvisorio? Sarei ridicolo non solo per l’età ma perché non saprei amare per come ho amato. Reciterei una parte dove tutto è già scontato, è già stato detto, senza alcun fuoco e scopo” Lauretta lo guardò intensamente tutta seria, quasi contrariata. Poi d’improvviso tirò fuori dal giubbottino una busta. “Mamma gradirebbe molto se tu e Filomena verreste in chiesa per il matrimonio . Ti manda questo invito, ti prego vieni, vedrai come leggerò bene” E sorrise in modo freddo e formale ma con gli occhi pieni di tristezza. “ne sono certo, venirti ad ascoltare è la cosa che in questo momento desidero di più” Il sorriso di lei si allargo, caldo e tenero “Vedrai, sarai orgoglioso della tua allieva” Si alzò nervosamente ma lui la fermò afferrandole una mano “Io non so che risposta volevi sull’amore. Non lo voglio sapere perché sono vecchio ma proprio per questo sono onesto e sincero. Visto che te ne vai un po' seccata, ti prego di una sola cosa: non credere a chi ti promette tutto quello che desideri. Ama chi saprà darti le cose vere di questa vita. Perché se affronti l’amore come se fosse un sogno, un desiderio, una voglia da saziare, ti distruggerà” Lei lo guardò poi tirò il braccio per liberarsi dalla sua mano, si girò e camminando in fretta, se ne andò.
Biagio era a letto e nel buio della stanza, cullato dal respiro di Filomena che gli mostrava la schiena e che probabilmente, appena aveva toccato con la testa il cuscino, si era addormentata. Stava ripensando agli avvenimenti della giornata. Per prima cosa pensò a come Laura lo aveva guardato quando era arrivata alle domande che gli aveva fatto. Forse si aspettava una risposta diversa, perché in cuor suo voleva che le confermasse che poteva amare qualche d’un’altra, magari a lei. Aveva fatto bene a disilluderla. Lei meritava una vita da scoprire e creare giorno per giorno. Aveva bisogno, di un amico, un compagno d’avventure, un amore della sua età e con i suoi stessi desideri. Non di un vecchio come a lui che neanche chi gli stava accanto sopportava perché dopo quarant’anni di convivenza, ne vedeva solo i difetti. A questo punto pensò a Filomena e ricordò il momento in cui aveva dato alla moglie l’invito per il matrimonio. Lei lo aveva guardato stupita e spalancando gli occhi aveva chiesto “puru nui? Puru nui amu annari?” “Filomè è la terza volta che me lo chiedi! Lo vedi l’invito? Dice che ci aspettano in chiesa alle 11:00  e di occupare il posto S 301 e S 302 dove S sta per sinistra” “Oh Signuruzzu, ma non ho niente da mettermi…0ra chiamo tua figlia e le dico se andiamo a Catania a comprare un vestito” e corse in salotto ciabattando cercando il telefono ma senza lasciare l’invito della famiglia Andò e dei Baroni Requesenz a partecipare con loro all’amore di Serena e Gilberto. Biagio si girò nel buio del letto e dopo averla guardata abbraccio la sua vecchia Filomena. Si, si incazzavano, si mandavano a fanculo, ma non  potevano lasciarsi. L’abbracciò e sottovoce, quasi un sospiro, le chiese “Filomè, Ma tu mi vò ancora beni” “Cettu  -  rispose lei con gli occhi chiusi e con una voce sottile sottile impastata di sonno - se no a quest’ora ti  buttavo fuori dalla finestra” Biagio sorpreso che fosse ancora sveglia sorrise e chiese ancora “ Ma picchì mi vo beni?” “Comu picchì, l’amuri nun avi nu picchì. Si sapiria chi è,  l’amuri saria una cosa precisa, matematica, sicura, invece è na cosa che nessuno sa, che nessuno può dire è grande così …, pesa tanto … picchì è amuri. Jo sacciu sulu chi senza i tia muriria e basta, come si mi finiria l’aria o si stutiria u suli. E ora lassami dommini e non pinsari a sti cosi i carusi” E si spinse contro di lui a sentirlo lungo tutta la sua schiena. Biagio pensò che magari le avrebbe accarezzato il sedere e con la scusa di stringerla avrebbe fatto scendere la mano fino laggiù, sotto la mutanda come faceva da giovane per farle venire voglia. Ma la mano arrivò a metà della pancia e lui, avvolto nel tepore del corpo di Filomena, si addormentò.
“Hai visto? C’è la dottoressa Mizzichè, a direttrici du Papardu e u prufissuri Contini, il senatore, vadda, vadda c’è anche il Principe Stagno d’Alcontres.” Come faceva Filomena a conoscere tutta l’aristocrazia della città Biagio non lo sapeva. Era voluta venire un ora prima e dopo aver attraversato la Security sventolando l’invito, aveva preso possesso dei posti S301 e S302 dove S voleva dire sinistra, a due passi dalla  porta d’ingresso. Da li poteva vedere la sfilata degli invitati e uno ad uno gli spiegava l’importanza e il rango. Lui si sentiva un po' a disagio perché le sue frequentazioni erano di tutt’altra importanza ed andavano da Cocimo Pizzino che era stato dietro le sbarre di tutte le aule bunker dell’isola, oppure la bionda Principessa dal vestito da sera con un lungo spacco e gran un pomo d’adamo, fino a Teresa-Aggratis nota per la generosità con cui rendeva felice gli uomini malgrado i suoi non ancora sessantotto anni. Finita la sfilata degli aristocratici invitati vi fu quasi un ora di attesa fino a che un trambusto sul portone della chiesa e l’apparire della Wedding Planner nemica di San Rocco, non anticipò l’arrivo della sposa. L’organo incominciò a suonare e la sposa, elegante e bellissima entrò accompagnata dal padre che per l’emozione aveva il naso a patata rosso come se si fosse bevuto un litro di nero d’avola. La cerimonia era organizzata in ogni particolare e persino il coro parrocchiale degli Angeli Canterini, dall’età media sopra i sessanta e con un’ampiezza vocale di solo tre note, era stato sostituito da un gruppo di efebi in saio bianco che cantava con una estensione infinita, soave e delicata su cui si adagiava la voce potente e vibrante di un tenore che quando intonò l’Ave Maria d’ingresso fece commuovere Filomena. Il vecchio organo, acciaccato e mal funzionante, era stato sostituito da un nuovo organo spaziale elettronico, con quattro tastiere, degno dei concerti dei grandi cantanti ed era accompagnato da un violinista vestito in frac che qualcuno diceva essere venuto direttamente dal Bellini di Catania. Gli altari laterali erano un tripudio di rose e tuberosa che riempivano la chiesa di un profumo intenso e piacevole. Santu Roccu era avvolto in ghirlande di fiori che coprivano le piaghe e le ferite, lasciando intravedere soltanto suoi occhi sconcertati di sembrare con i capelli lunghi, la lunga barba e tutte quelle ghirlande profumate, un figlio dei fiori di altri tempi. Biagio però, nel mezzo di tutta quella nobiltà, aveva occhi solo per Lauretta che sfilava con le damigelle della sposa, tutte vestite con un delicato rosa. Appena lei lo vide lo salutò con le quattro dita con cui teneva un bouquet di fiori e un largo sorriso, attenta a non farsi vedere dalla Wedding Planner che controllava ogni cosa. La cerimonia incominciò dopo che il padre ebbe affidato la figlia al futuro marito e il vicario del vescovo, parente degli sposi, li accolse felice sorridendo. Filomena aveva fatto comunella con la sua vicina di sedia e commentavano con sguardi compiaciuti o di sorpresa ogni passaggio della cerimonia, dal canto del coro al vibrato del tenore o le vesti eleganti degli invitati. Quando arrivò il momento in cui Laura doveva leggere, la vicina si rivolse a Filomena dicendo sottovoce “Ora ridiamo” Lei le risposte puntuta “No signora, ora vedrà” E si giro verso Biagio facendo una faccia di disapprovazione. Lauretta si aggiustò la pagina ed incominciò a leggere lentamente, seguendo la punteggiatura e colorendo le frasi. Vi fù un movimento di teste lungo tutta la navata perché chi la conosceva diceva al vicino “Sintisti? Parra bonu” e l’altro chiedere “Ma nun era ghecchia?” Quando finì la lettura, Filomena si girò verso la vicina “ha sentito come parla bene? L’ha guarita mio marito” “È logopedista?” “di più, di più…” Rispose con non curanza Filomena fingendosi interessata a quanto avveniva sull’altare per non aggiungere altro. Biagio si era intanto perso nell’osservare Laura tornare al suo posto raggiante per aver letto la lettura evangelica senza fermarsi e con soddisfazione della sorella e dei genitori. Rispose alle congratulazioni delle damigelle sedute vicino a lei e poi cerco nella chiesa finché non incontrò gli occhi di Biagio e gli sorrise felice. Fu in quel momento che, come le aveva spiegato tempo prima, la ragione di Biagio si perse nel labirinto dei desideri e delle voglie e partendo dalla banale constatazione che era bellissima e che aveva un bel sorriso incominciò ad incamminarsi lungo i viali del piacere in cui si chiese se quelle labbra che sorridevano cosi bene fossero morbide e soffici, e se la lingua di una ghecchia fosse più lunga o più corta, più vogliosa o meno di chi non aveva problemi a parlare. Il pensiero passò al collo, alla sua pelle e stava scendendo più giù, verso le stanze sempre più oscure del piacere rinchiuse nei viali più torbidi del labirinto, dove Lauretta non era più la bambina che Biagio aveva in memoria ma una fonte di piacere, da quello di distruggere un fiore appena sbocciato a quello di trasformare l’innocenza in eros lascivio e volgare. A quel punto senti un dolore sul fianco e guardò verso il basso e vide il gomito puntuto di Filomena che aveva colpito il suo fegato “finiu i leggere (ha finito di leggere)” Gli ricordò Filomena che guardava l’altare tutta seria. Biagio sbuffò e si mise a seguire la cerimonia concentrandosi sul candido sedere della sposa perché ormai, una volta entrato nel labirinto, non ne usciva più facilmente. La cerimonia continuò in modo preciso e impeccabile con Filomena che ora piangeva e ora rideva, l’organo che ora suonava solenne ed ora allegro ma non troppo ed il coro dal sesso indefinito che con i vocalizzi ora saliva fino all’eterno ed ora se la sbrigava con un alleluia a tempo di charleston. Finalmente il vicario-parente disse agli sposi di andare in pace e tutto piombò nel caos con gli sposi che dovevano firmare i documenti ed i parenti che volevano farsi un selfie con gli sposi, con i decori floreali o con gli altri parenti impazienti di riempire i social di attimi indimenticabili presto sostituiti da piatti di pasta alla carbonara o gattini amorosi. La prima a partire a caccia di selfie fu Filomena che istigata dalla signora a lato volò spedita verso l’altare maggiore con il cellulare già convertito a porta multimediale per raccontare a tutto il suo parentado e a quelle invidiose delle sue comari, com’era un matrimonio da ricchi. Biagio restò in fondo alla chiesa, vicino alla fonte battesimale con l’enorme borsa e la giacchettina della moglie. Fu li che lo trovò Lauretta “Ciao – disse subito felice – come stai?” “Bene – rispose lui osservandola splendente e felice di una bellezza da donna che non ricordava e che scopriva adesso, intesa e seducente – e tu come stai? “Bene – disse lei solare e golosamente carnale – voglio presentarti Alessandro” E fece venire avanti un ragazzone alto dalle spalle larghe e la testa piena di capelli corvini che diventavano una barba ben tagliata e curata “Signor Biagio è un piacere conoscerla, Laura mi ha parlato tantissimo di lei: se lei è felice e se io lo sono con lei, è grazie alla sua buona volontà” Lo diceva senza enfasi ma con sincerità e il piacere di dirlo, di ringraziare qualcuno che aveva aiutato chi amava “Piacere ….” Disse stupito Biagio “Ci siamo fidanzati – disse felice Laura – l’ho incontrato l’ultima volta che ci siamo visti; quando ti ho lasciato sono andata al bar Irrera. Volevo farmi del male con due cannoli e lui vedendomi con il piatto pieno di dolci mi ha chiesto cosa festeggiavo” “Si è vero, poi li ha fatti mangiare a me ed io ho pensato che per lasciarmi mangiare i suoi cannoli doveva considerarmi tantissimo e l’ho invitata ad uscire. È stato un colpo di fulmine! Da allora non ci siamo più lasciati” “Buonasera signorina Laura, lei a mio marito Biagio lo trova sempre …” Tuonò la voce di Filomena con una forte sottolineatura di “mio marito”. “Filomena guarda c’è il ragazzo di Laura, Alessandro…” Fece pronto Biagio per evitare spargimenti di inutile gelosia e sciabolate di educati insulti “Piacere signora, lei deve essere Filomena, la moglie del signor Biagio. Laura mi ha detto che suo marito l’ama moltissimo” “ davvero? A volte se lo dimentica” Rispose Filomena presa in contropiede “ Io sono Alessandro Franza il fidanzato di Laura” Gli occhi di Filomena si allargarono stupiti “ Parente dei Franza dei traghetti ….?” “Alla lontana” “Oh che bel ragazzo si è scelta signorina Laura, proprio bello, alto e simpatico, come piacciono a me” Disse soddisfatta Filomena divorando con gli occhi Alessandro e tutti i suoi muscoli visibili o meno. Biagio guardò la moglie sconcertato e preoccupato per l’inadeguato primordiale desiderio che brillava nei suoi occhi. Laura si girò a prendere una qualcosa da una sedia dietro di lei. “ecco volevamo ringraziare il sig. Biagio per l’aiuto, che mi ha dato e tutto il tempo che mi ha dedicato. La prego, prenda questa che è la bomboniera che diamo ai nostri parenti più intimi, un modo per dirle grazie da parte mia e un grazie enorme dalla mia famiglia” E passò loro una scatola grande, tutta bianca con un enorme nastro rosa e dei fiori secchi colorati “Ma non c’era bisogno – disse Filomena afferrando al volo la bomboniera – Biagio è stato contento di farlo” E guardò con cupidigia la bomboniera già pensando in quale angolo della casa poteva metterla perché tutti la notassero e soprattutto la vedesse quella “Strammata scassaminchia” che era la suocera di sua figlia. “Amore vieni che devi fare le foto con gli sposi sull’altare” La sollecitò Alessandro Laura salutò Filomena ormai ipnotizzata dalla bomboniera e allungò la mano verso Biagio “Grazie …. Di tutto!” Gli disse sorridendo Lui la guardò e in quel momento la trovò ancora una volta bella come l’illusione di una nuova vita che ormai era persa, perché alla fine nessun caddidu torna indietro quando si apre la porta della sua gabbia e al di la di essa trova l’amore che cercava.
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Tarocco siciliano raffigurante il Sole
Madam Effie e l’uomo che non poteva amare
Quarta parte: il sole
Ora, Signori miei, iniziando questa ultima parte, prima di riassumervi quello che è successo, vengo a chiedervi una cosa tanto banale quanto complicata. Ve lo chiedo perché alla fine se sto raccontandovi cosa mi è capitato, è proprio per rispondere a questa domanda: che cosa è la “normalità”? Per il mio “Io” la normalità vera degli uomini, quella di cui nessuno parlava ma a cui tutti si attenevano, era il picchiare le donne per farne quello che si voleva. Una normalità che non si adattava al mio più intimo sentire, quello racchiuso nel nocciolo di quanto sono, proprio quel mio “Io” interiore che quella normalità cercava attraverso l’osservazione dei grandi, degli esempi che avevo sottomano e che quindi,  non volendo essere né complice né testimone di questa “Normalità”,  aveva bloccato nel mio corpo l’essenza stessa dell’essere maschio. Questo non solo perché riteneva la “Normalità” non giusta e disonesta, ma soprattutto perché mi vedeva troppo debole per rifiutarla, troppo voglioso di dare un morso alla mela dell’onnipotenza come aveva fatto Adamo. Con il maturare la “Normalità” diventò “poter essere come gli altri”, che amavano ed avevano figli e che vivevano sereni perché quel loro pezzo di carne che portavano orgogliosamente tra le gambe, si drizzava a comando, mentre con me viveva in una anarchica indifferenza. “Normale” era inoltre considerare le donne unicamente come stimolatori sessuali vedendone quindi solo l’accattivante esteriorità senza considerarne altre qualità. “Normale” è stato invece amare da subito Angela o Sant’Agata come tra noi camionisti è conosciuta. Amarla anche se lei era già sposata con un figlio ammalato. E la “Normalità” diventò presto vederci regolarmente ogni settimana, per ritagliarci un attimo di pace in cui l’universo era chi stringevamo tra le nostre braccia. Ora Madam Effie mi aveva avvisato che quest’ultima “Normalità” era in pericolo e questo mi aveva fatto capire che non era quella finale, perché per sua natura, la “Normalità” deve essere stabile e continua e ripetersi e confermandosi ogni santo giorno, se no diventa eccezione, anomalia. Questa fu la sensazione che sentivo una volta che capii il messaggio che Madam mi aveva mandato. Subito presi il telefono per sentire Angela, provando che non era così che tutto continuava come prima, che tutto era comunque “normale”. Aperto W-up vedo invece che le centinaia di messaggi che ci eravamo scambiati, erano stati cancellati. Nel chiudere W-up, vedo un messaggio inviato da un numero mai visto. Diceva solo “ti chiamo io” Capì che l’avvertimento di Madam aveva anticipato di poco il Cavallo di Spade e che qualcosa stava succedendo che io non sapevo ne potevo influenzare. Partii di malumore verso casa, con l’impotenza che provavo nel non sapere e poter fare qualcosa, che mi faceva nascere dentro una rabbia terribile. Solo verso sera, quando ero sul traghetto, Angela mi chiamò usando un numero che non avevo mai visto prima. “Prontu, Turi? Jo sugnu…” “Angela, chi succidiu….” “Nenti, nenti…. È che me maritu mpacciu … con il fatto che sono qua più spesso e che vedo quello che fa e come si comporta mi rendo conto che non è più normale. Ieri ha fatto tutta una scena di gelosia perché sono sempre fuori e telefono” “Per questo hai cancellato la chat?” “Si voleva che gli dicessi la password per controllare e ni ‘ncappammu (ci siamo bisticciati) tutta la sera.” “ma ieri non mi avevi chiamato” “ma tu non eri il problema. Il problema era che voleva dare a Sabbucciu un bicchiere di vino dopo che aveva preso le medicine. Io l’ho ripreso e lui per non darmi ragione ha tirato fuori la gelosia. Te l’ho detto è pacciu: PACCIU!” Restò alcuni secondi in silenzio “È che ora che sono a casa di più ,vedo che sta andando sempre più giù perché ora che porto a casa più soldi si sente ancora più inutile e allora fa cose che non faceva prima, forse per attirare l’attenzione, forse perché di nascosto beve di più, forse perché sta perdendo veramente la ragione… Non lo so! Mi da più problemi lui che Sabbuccio. Tre giorni fa voleva prendere il camion per far fare un giro a Sabbuccio ed insegnarli a guidare. Mi sono dovuta mettere davanti al camion per non farlo partire. Non ti dicu a sciarra…” La voce era rotta dalla rabbia e dalla stanchezza “ .. non ce la faccio più …” Disse alla fine e capii che stava piangendo. Capii anche che forse tutte queste cose succedevano magari anche prima ma lei non me ne aveva mai parlato ed ogni volta che ci eravamo incontrati mi aveva sempre mostrato il suo lato felice, quello che rifletteva il mio e che per lei era l’unica cosa che contava dopo Sabbuccio “Senti ora vengo e ti prendo e porto via a te e a Sabbuccio. È inutile che stai li a lazzariarti a vita (a ferirti) Ti prendo e lo lasci a ubbriacarsi come sempre che è l’unica cosa chi sapi fari!” Resto un secondo sorpresa come se non si aspettasse questa proposta. “No … che fai … Sabbuccio ne resterebbe scioccato … no, lascia stare. In qualche modo faccio …” “Angela, non puoi continuare così, io ti voglio bene lo sai, non posso pensare che sei li a soffrire da sola. Vi prendo e venite a stare da me …” “No Turi … ora no …. È troppo presto. Ora vediamo, parlo con il psicologo e vediamo, magari mi scrivono qualche pastiglia da dargli … vediamo. Io voglio stare con te ma ora è troppo presto, c’è troppo casino … lui farebbe chissà quale sciocchezza.” Restammo qualche secondo in silenzio a cercare parole da dirci “Ti vogghiu beni, u sai. Sta cosa nun mi piaci, ti na veniri cu mia.” “puru io ti voggliu beni, si l’unicu beni chi haiu” E nel silenzio che seguì la sentì che chiudeva. Sulla via di casa avevo dentro tutto il fuoco dell’Etna ed eruttavo rabbia come lei sparava contro il cielo fuoco e lapilli. Se avessi avuto sotto mano il marito di Angela gli avrei scippatu (strappato) a testa in due secondi, come il puparo fa con i pupi. Poi incominciai a pensare. Madam come sempre aveva ragione. Il Cavallo di Spade avrebbe fatto morire Angela se non nel corpo di sicuro nell’anima, magari facendo del male a Sabbuccio. Il suo avvertimento non era cosa da prendere sotto gamba, qualcosa, di li a breve, sarebbe successo. Dovevo fare qualcosa, ma cosa? Chiamai il cliente da cui ad inizio della settimana dovevo caricare. Gli dissi che mia madre aveva il Covid e che dovevo stare a casa e promisi di trovare un collega. Nel gruppo di W-up chiesi se qualcuno fosse disponibile e in breve tempo trovai il sostituto che chiamai spiegandogli cosa doveva fare. Passai il week end aspettando e pulendo Cicciuzzo. Quando dissi a mia madre che non sarei partito mi chiese perché allora avevo fatto il pieno. Non le risposi. Mi chiese se per caso centrasse quella che mi scriveva sul telefonino di notte. “Aiu cuffari (ho da fare) sto a casa per un po'” lei mi guardò quasi studiandomi perché non avevo mai saltato un viaggio da quando guidavo Cicciuzzo. “Si nun mu vo diri, non mu dire, ma fa i cosi giusti, nun mi fari viggugnari puri i tia (non mi fare vergognare anche di te” Continuai a fare quello che facevo senza rispondere. Passai il week end facendo la manutenzione di Cucciuzzo e sistemando qualcosa nella casa colonica che avevo comprato fuori città. Lunedì sistemai l’orto e le tegole sul tetto portandomi dietro il cellulare aspettando che Angela si facesse viva. Martedì provai a chiamarla perché doveva fare il suo solito viaggio, ma scattò subito la segreteria. Mi misi a dipingere il bagno e finii la sera sul tardi. Mi ero messo a mangiare molto tardi, e guardavo il televisore mentre mia madre sistemava la cucina e mi parlava dei parenti. Il cellulare squillò improvvisamente. Lo presi immediatamente “Prontu, prontu” “ Turi, Turi sinn’annoi – gridò disperata la voce di Angela – pigghiau u camion e sinni iu (ha preso il camion e se ne è andato)” “Comi u cammion?” “Mi stavo facendo la doccia che ero stanca morta e lui ha preso a Sabbuccio, le chiavi del camion ed è partito. Turi s’ammazziravi perché era ‘mbriacu, faravi moriri puru du nuccenti e jo moru cu iddu.” “Sarà li in paese chiama i carabineri” “ No, mi ha chiamato mio cugino, l’ha visto andare sulla Nazionale, verso l’autostrada, se ne vuole andare al Nord a lavorare li con il camion, lo aveva sempre detto.” “Quando è partito?” “Sarà mezzora … quaranta minuti” A quell’ora doveva aver imboccato l’autostrada ed anche se andava veloce il traffico della tangenziale di Catania lo avrebbe rallentato. Pensai che se fossi partito in quel momento lo avrei potuto raggiungere verso Giarre o Giardini. “Non ti preoccupare, ci penso jo. Tu sta tranquilla, appena lo raggiungo ti chiamo” La salutai e corsi nel magazzino dentro cui tenevo Cicciuzzu, ne staccai la motrice e partii. Raggiunsi l’autostrada e mandai un  messaggio vocale sul gruppo “ sto cercando un renault, con cabina rossa e telo blu targato …. Guidato da uno spiritato con un bambino. Chi lo vedesse mi chiamassi immediatamente: è urgente” “Chi c’è cosa?” Chiese Trombadoro “è pacciu, briacu senza patente e u carusu è malatu” “ U visti jo  Cicciuzzu, na menzurata fa a nCatania: curria comu nu pacciu e quannu mi supiroi ridia comi nu critinu” Mi informò Cammelu “Uora uora mi passoi, mentri stava canciannu na rota: a mumenti puri ammia si puttava i quantu curria“ “Cammelu, a unni si?” “a cubba prima dell’uscita per Fiumefreddo” Doveva correre come un dannato se era già a Fiumefreddo. “Chi c’è a Taormina versu Missina?” “ci sugnu jo Cicciuzzu, chi ti giuva” Rispose Sansone “ c’è nu camiun  ca tila blu e a cabina russa chi curri comi nu pazzu, mettiti davanti a iddu e no fari passari” “ci sugnu puru jo Turi, ora u fimmamu nui” Si aggiunse Pascale u Ranni. “Cicciuzzu, ora tocca a nui” Dissi al mio motore premendo l’acceleratore e lui rispose rombando e accelerando tanto da schiacciarmi contro il sedile. Sansone e u Ranni ne avrebbero rallentato la corsa ma non l’avrebbero fermato, ma mi avrebbero dato il tempo di raggiungerlo prima del casello di Messina, di li scendendo in città e arrivando agli imbarchi, sarebbe stato difficile fermarlo. Superai Taormina e arrivai verso Roccalumera quando mi chiamò Truzzu “È cà davanti ammia, nta sciumara i Sciuminisi” “ Passilu, mettiti davanti e fermalo, sugnu arreti attia!” “C’è Massiminu davanti u sta rallentandu iddu, Ma chistu jè pacciu Cicciù, mi ha fatto un sorpasso che a momenti mi buttava a mari” Finalmente li vidi Truzzu era sulla sinistra e il pazzo davanti a lui che suonava ad un pulmino perché si spostasse per farlo passare. Raggiunsi Truzzu e mentre il pulmino si spostava a destra il pazzo lo sorpassò strombazzando. Davanti al camion, Massimino si spostò a sinistra per non farlo passare e lui rapidamente si infilò a destra cercando di sorpassarlo. Ma Massiminu si era spostato a sinistra anche perché la strada (che dopo Capo d’Alì è un susseguirsi di gallerie e di tratti in manutenzione) era chiusa ed il camion incominciò ad urtare la segnaletica ed i cavalletti mandandola all’aria. Massimino rallentò per non essere investito dai pezzi di metallo che vedevo volare per aria mentre mi ero attaccato al pazzo. La frenata di Massimino lasciò davanti a lui, sul fianco sinistro della strada,  dello spazio in cui il pazzo si infilò senza accennare a frenare, ma la strada era tanto brutta che il camion  incominciò a sobbalzare urtando, verso l’uscita della galleria, il cordolo in cemento con l’ultima ruota. L’urto spinse il mezzo verso la corsia di destra, il guidatore controsterzò per riportarlo a sinistra e nel far questo sbandò vistosamente. La ruota sinistra posteriore, che sopportava la maggior parte del peso e che aveva urtato il cordolo, sfregò contro l’asfalto deformato scoppiando, levando così sostegno  al camion che già inclinato, si coricò sul fianco sinistro,  scontrandosi contro il guardrail che divelse violentemente e finendo contro l’ingresso della galleria successiva dove la cabina si schiantò accartocciandosi mentre il resto del camion si sporgeva per gran parte sul burrone che divideva le due gallerie. Io ero riuscito a fermarmi sul finire della galleria precedente. Scesi dalla cabina ed osservai cosa stava succedendo. Il camion oscillava su burrone con un lamento metallico di animale ferito, mentre dalla cabina saliva un denso fumo che da bianco diventò grigio e quindi nero; sotto il fianco sinistro, dove c’era il serbatoio usciva lentamente gasolio che si allargava sull’asfalto.
Avete mai visto signori miei, nelle notti d’estate una stella cadente la cui luce scivola tanto velocemente nel buio che avete tempo solo di pensare che dovete esprimere un desiderio e già la luce scompare? Nello stesso tempo in me nacquero e morirono mille pensieri. Se il gasolio avesse preso fuoco Sabbuccio e suo padre sarebbero morti, e improvvisamente sarebbero stati eliminati dalla vita di Angela che sarebbe rimasta solo mia. Se, mentre cercavo di salvarli, il camion fosse esploso saremmo morti tutti e tre ed Angela con noi: era questo di cui Madam voleva avvisarmi? Se fossi corso e li avessi salvati, tutto sarebbe poi rincominciato come prima con quel disgraziato di marito che avrebbe voluto essere padre e marito nel modo sbagliato. Cosa dovevo fare? Nascondermi sotto le coperte come quando mio padre picchiava mia madre?  Stare a guardare come quando Biagio violentava Susanna? La nostra vita sono le scelte che facciamo e allora quale è la scelta giusta? Pensai ad Angela e mi risposi che le scelte giuste sono quelle che la ragione pianifica ma che solo l’amore ci spinge a fare. D’improvviso il tempo tornò a scorrere velocemente. Aprii lo sportello di Cicciuzzo e presi l’estintore sotto il sedile incominciando a correre verso il camion rovesciato. Arrivato all’altezza del serbatoio sparai la schiuma sulla fessura da cui usciva il gasolio e quindi all’interno del motore da dove usciva un fumo denso. Quando l’estintore finì mi arrampicai fino al finestrino del passeggero che era oscurato dal fumo che aveva invaso la cabina. Con un colpo secco dell’estintore, ruppi il vetro e poi lo feci ruotare intorno al metallo del finestrino per liberarlo dal vetro. Mentre dal finestrino usciva una colonna di fumo denso e oscuro, feci un respiro profondo e con metà corpo entrai nella cabina cercando con le mani chi era seduto da quel lato. Sentii con le dita un corpo. Era piccolo e tutto ossa, delicatamente lo liberai dalla cintura e tenendomi sul lato alto del finestrino, con una mano lo sollevai facendolo uscire e prendendolo in braccio lo guardai. Il volto di Sabbuccio era piccolo e pallido. Gli occhi si aprirono e mi guardarono e vidi subito che erano gli stessi di Angela. Le labbra si aprirono come a voler dire qualcosa. Gli pulii la faccia ”È tuttu a postu, Sabbucciu, è tuttu a posto” mi guardai attorno e vidi che un signore alto e biondo che con pantaloncini corti e maglietta bianca stava sparando un piccolo estintore sul serbatoio mentre Truzzo si era trascinato dietro un grosso estintore che chissà dove aveva rubato e lo stava sparando verso il motore, ma l’estintore fece un lungo piscio bianco e si fermò tra le bestemmie di Truzzo. “Truzzo … - gli gridai – veni pigghia cà” e delicatamente feci scendere Sabbuccio tra le corte braccia di Truzzo che afferratolo scappo via verso la galleria dove si erano fermati tutti. L’uomo con la maglietta mi gridò “komm weg, komm weg: fuoco , …fuoco..” e scappò anche lui verso la galleria Io mi voltai e mi buttai a pesce nella cabina, per raggiungere il coglione. Non vedevo nulla e scendevo lentamente a tentoni finché non toccai il sedile e sentii qualcosa di viscido che capii essere sangue e subito dopo tastai un braccio. Entrai con tutto il corpo in cabina e cercai di liberare il pazzo, ma era incastrato tra le lamiere. Lo afferrai per come potei, tirai senza delicatamente e dopo qualche resistenza, sentii che riuscivo a farlo salire verso di me. Non avevo più fiato ed incominciai a tossire, con il fumo che ormai mi era arrivato ai polmoni. Appoggiai la schiena contro la cabina e con tutte le mie forze spinsi con i piedi il vetro del cruscotto verso l’esterno. Il vetro andò in mille frantumi facendo uscire il fumo ed entrare un po' di aria. Mi arrampicai verso il finestrino tossendo, trascinandomi il corpo del pazzo ed una volta arrivato salii e mi sedetti sul bordo della cabina tirando con forza il corpo che non dava nessun segno di vita. “Turri, Turri - gridò dalla galleria  Massimino  – curri chi sta pigghiannu a focu” Abbracciai il corpo e saltai verso il marciapiede dove arrivai con troppa forza e quasi andai a sbattere per terra. Provai ad alzarmi, ma era come se le gambe fossero diventate di piombo. Con lentezza mi alzai di quanto bastava ad muovere le gambe ed incominciai a muovermi, quasi zoppicando con gli occhi che mi lacrimavano e da cui vedevo solo ombre mentre nella bocca avevo il gusto del piombo. Si udì un rumore sordo e alle mie spalle sentii il calore di una vampata che illumino di rosso la galleria di fronte a me, senti nella testa una voce che gridava fortissima “buttati” e mi lanciai a pesce sull’asfalto tenendo stretto il corpo che portavo tra le braccia. Vi fu un boato fortissimo e sentii fischiare nell’aria i pezzi di metallo che si andavano a schiantare sul guardrail o sull’asfalto. Restai immobile qualche secondo o forse persi conoscenza, qualcuno mi prese per braccia e mi fece alzare gridando “Veni Turri, amuninni” era Massimino che ci stava trascinando al sicuro verso la galleria dove arrivando mi sdraiarono per terra vicino al furgoncino. Qualcuno mi butto dell’acqua in faccia e aprendo gli occhi vidi Massimino e il tedesco che mi guardavano e quest’ultimo che mi diceva “good … good” e poi non ricordo altro.
Appoggiai la cassetta piena di arance e limoni per terra e cercai sul citofono il nome, trovandolo stavo per suonare quando il portone si aprì. Presi la cassetta con una certa difficoltà dato che avevo le braccia ancora fasciate per i tagli che mi ero fatto nell’incidente in autostrada. Entrai dirigendomi verso la porta di Madam. Quando arrivai qualcuno l’aprì e vidi che era la vecchietta che mi aveva aperto la volta precedente. Le dissi che dovevo portare la cassetta a Madam. Mi guardò seria e severa “Lascia la cassetta qua” mi ordinò repentina “Perché a Madam non piacciono le arance?” Chiesi stupito “A Madam i colori danno fastidio” Rispose puntuta la vecchia e mi fece cenno di entrare Presi un pacco tondo che era appoggiato sulle arance ed entrai. “Allora, come stai?” Mi chiese sorridendo Madam dal suo angolo nell’oscurità indicando con il mento le braccia fasciate. “Bene, Madam, tutto a posto” “ E la Regina di denari?” “Angela? Ora lei e Sabbuccio stanno con me. Mia madre è contenta di avere un bambino da seguire e a loro piace stare nel casolare in campagna, tra l’orto e gli animali. Ho comprato un forno per la ceramica e Angela fa dei lavori che poi vendo al Nord. Ha fatto questo per lei” Scartai dai fogli di giornale una statua in ceramica colorata “Angela ha scolpito a noi tre, a me a lei e a Sabbuccio, tutti insieme, come se fossimo la Sacra Famiglia” Misi la ceramica di fronte a Madam Lei l’osservo senza dire una parola “Oh scusi, forse i colori le danno fastidio… “ Dissi accorgendomi che la ceramica era tutta colorata e che i colori davano fastidio a Madam “No … no - rispose osservando attentamente la scultura e allungò una mano tenendola sospesa sulla scultura - è un talismano con una grande forza: la Regina di denari gli ha lasciato una intensa energia. È molto potente, grazie, ne ho bisogno.” Ritirò la mano contenta “Apollo, mettilo tra i talismani della terra di Saba” Dall’oscurità apparve Apollo con i suoi basettoni e il ghigno ironico di sempre “Sono molto contenta che tutto sia andato bene. E il Cavallo di Spade, come stà?” “È in una clinica, in coma, non si è più ripreso. Con Sabbuccio andiamo a trovarlo ogni mercoledì e domenica. Sabbuccio gli parla ed è convinto che lui lo senta perché se gli tiene la mano, lui gliela stringe” “A volte certe presenze sono più forti nell’assenza perché quest’ultima cancella il dolore che ci è stato dato mostrandoci solo il meglio che ci ha lasciato” “non lo so …. So solo che stava distruggendo tutto perché non aveva il coraggio di lottare” “chi cerca le colpe solo negli altri vuol dire che pensa che quanto lui fa non conta nulla.” Restammo in silenzio qualche secondo, poi Madam continuò “ora puoi farmi la domanda per cui sei venuto” Già sapeva che ero lì non per le arance o per ringraziare.   Mi schiarii la voce “ Ecco Madam … son pensieri miei io sa, non ho studiato, quindi certe cose, non le capisco. Ecco ad esempio, la ruota, quella della sua macchina che ho cambiato: anche se vecchia, non era stata forata da un chiodo o una pietra. Aveva un taglio netto di due centimetri, come se qualcuno gli avesse infilzato la lama di un coltello…” “interessante … in effetti Apollo ha sempre con se un coltello a serramanico ..” “Poi lei non esce mai, i colori la disturbano ma come mai quel giorno era li nel pieno della luce, quando sarebbe potuta salire anche più tardi?” “In effetti la luce mi dà fastidiò” “Ed il sogno in cui lei mi ha parlato…” “… ah, mi hai sognato….” “si ecco, parchè così nitido e perché voleva avvisarmi? Io avevo già incontrato Angela, tutto quello che lei aveva detto si era avverato, perché continuare a seguirmi…?” Mi guardava sorridendo con un angolo della bocca piegata verso l’alto. “poi la voce …” “la voce?” “ si, quando stavo correndo via dal  camion, una voce mi ha gridato “ Buttati” “Sarà stato qualcuno dei tuoi amici …” “No, noi siciliani, nei momenti importanti, parliamo dentro di noi in siciliano, i miei amici avrebbero detto “ iettati”, “ calati”, ma non “ buttati” con una voce che Madam, era uguale alla sua… perché lei Madam, non parla mai in siciliano…” “Davvero?” “Si Madam. Era proprio la sua. Per questo Madam, volevo chiederle: perché?” Madam mi osservava e sorrideva tranquilla, quasi soddisfatta per quella domanda. Mi feci coraggio e continuai “Perché mi ha cercato e perché mi ha aiutato. La ruota era una scusa, lei già sapeva tutto quello che sarebbe successo” Congiunse le mani davanti a se “È normale che io sappia. Io vivo nella linea sottile che divide la luce dal buio, questo da molti privilegi e molto dolore. Uno di questi privilegi è sapere e nel sapere avere coscienza del male e del bene che ne deriva.” Si fermò un secondo a riflettere “ti ho già detto che l’universo è un fluire di energia. Noi ne siamo parte e di essa viviamo e moriamo. Il nostro fluire è come le particelle di polvere che vedi sospese in una stanza quando è attraversata da un raggio di sole. Le particelle spesso si scontrano e cambiano improvvisamente direzione. Ma chi ci ha creato ha voluto che non fosse solo il caso o la fisica a guidare il cammino di queste particelle. Le particelle stesse, noi stessi, siamo dotati di libero arbitrio ed è questo arbitrio che ci privilegia rispetto agli altri animali: noi possiamo scegliere tra il bene e il male. E lo facciamo quotidianamente. Pensa a quando stai attraversando un incrocio. Il semaforo diventa giallo e tu devi decidere se fermarti o meno. Il caso ha legato la tua vita a quella di chi sta arrivando da destra a forte velocità, alla sua famiglia e la vostra vita è legata alla vita del passante che aspetta all’incrocio per attraversare. Il caso ti chiede di scegliere e tu puoi accelerare scontrandoti con chi sta arrivando travolgendo il passante vicino al semaforo o puoi fermarti. In quel momento tu hai tra le tue mani la tua e la vita di altri. Si crea un nodo provvisorio che ti lega a molte altre persone. Di questi nodi nella tua giornata ve ne sono centinaia.” Si fermò diventando seria “Tu un giorno ti troverai in un nodo che ti legherà a moltissime vite perché una di queste in particolare sarà importantissima per migliaia di altre. Per questo ti ho scelto, perché la tua logica è al servizio delle tue scelte, ma quest’ultime vengono fatte alla fine solo per amore. Ed è questa la forza che ho liberato in tè, convertendo l’assoluta razionalità che ti aveva portato a non poter amare, in assoluto amore. Per questo, quando arriverai al nodo, saprai cosa fare, e farai la cosa giusta” L’osservai stupito “Ma io sono un semplice camionista,” “tu sei un uomo e gli uomini, con la loro determinazione possono fare grandi cose solo volendolo: in ogni incrocio della vita, nel momento di decidere se passare o fermarsi, se osare o rinunciare, tutti sono solo uomini con il loro bagaglio di certezze, insicurezze, paure e volontà. Non sanno cosa il caso ha preparato per loro e devono decidere di fare la cosa giusta e da questa decisione dipende la loro vita e quella di molti altri che neppure conosce” Restai in silenzio, pensando alle sue parole, un po' spaventato da quanto aveva detto “tu hai una grande forza – aggiunse percependo il mio stato d’animo – e questa forza non è solo la Regina di Denari, ma anche quello che hai sofferto che per te non è stato un prezzo da pagare, ma un cibo per fortificarti. Per questo i Demoni Oscuri potranno ferirti e le Ombre Nere degli stregoni morti potranno soffocarti, ma tu saprai vincerli: il sole che porti nel cuore ha una grande forza, ne ho percepito la piccola parte racchiusa nel talismano che mi hai donato. Ma benché piccola, la sua forza era grandissima: ricorda l’amore è la forza dei giusti. Arriverà il momento in cui avrai bisogno di tutta la forza che potrai avere perché il compito che ti darò sarà molto difficile” La guardai. Signori miei, io non è che la capivo del tutto quando parlava così, ma tutto quello che avevo desiderato ora era mio grazie a lei.  Ma non era quello che mi aveva dato, ma quello che mi aveva fatto capire di me e degli altri a meritare il mio rispetto e la mia fiducia. Con lei avevo capito che la normalità di cui signori miei vi ho parlato all’inizio di questo capitolo, non esiste. Ognuno ha la sua normalità frutto della sua storia e che è la nostra coscienza del bene e del male, quella che apprendiamo e che dentro di noi elaboriamo per rendere questa “normalità” qualcosa di concreto, che ci permette di convivere con gli altri senza offendere o far del male, avendo il coraggio di fare cose giuste. “Madam – le dissi alla fine – jo sugnu cosa soi e poi pu restu … - conclusi sorridendo  -  … comi veni si cunta”
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Madam Effie e l’uomo che non poteva amare
Terza parte: Una semplice caramella
Ora Signori miei, iniziando questa terza parte, e dovendo riassumere le parti precedenti, voglio solo dire che per risolvere il mio problema, Madam Effie mi aveva fatto parlare con il mio “Io” nascosto e da li ho capito che se con le donne non riuscivo a fare niente era per la paura di far loro del male a causa degli esempi che da bambino avevo avuto. Madam mi ha fatto prendere due pozioni ed io sul momento non ho neanche realizzato a che servivano. La prima pozione “Fuoco dell’Assenza”, che io ho ribattezzato la “Forma dell’Assenza”, fece effetto subito e da quel momento non ho visto più le donne. Vedevo sagome trasparenti e sentivo la loro voce, il loro profumo, ma non le vedevo. Quando scoprii la cosa in un bar sulla strada di casa, non ne afferrai l’effetto devastante che avrebbe avuto su di me. Il giorno dopo andai al mercato per comprare le cose che in settimana servivano a mia madre. Fu li al mercato, nel mezzo di voci e rumori nati per le donne e da esse arricchite con i loro colori e le loro forme, che l’assenza delle donne si rivelò in tutto il suo drammatico effetto. Mi guardavo intorno vedendo tutte quelle forme gelatinose ma non i loro occhi, i capelli, la pelle, i sorrisi, le labbra. Fu come se d’improvviso ad agosto vi fosse una grigia giornata d’inverno, piovosa e nebbiosa, senza sole e calore. Questa sensazione Signori miei fu fortissima.! Non era neanche una … come dire … questione poetica, dove l’assenza delle donne equivaleva all’assenza di sensibilità, di forza creativa, di sentimenti elevati perché io sto a queste sensazioni poetiche come un vegano sta ad una macelleria! Ecco, era che d’improvviso capii che mi mancava qualcosa di fondamentale, un riferimento esistenziale, una parte delle mie sensazioni, della mia prospettiva, del panorama che mi circondava. Non so come spiegarvelo, ma noi finché siamo soli, siamo incompleti, ci manca il vento che muove la vita, ci manca la misura della bellezza, ci manca quell’ingranaggio che unito con noi, ci trasmette il senso dei giorni, il loro gusto, le loro emozioni più forti ed autentiche! Non importa se a voi piacciono gli uomini o le donne, vi piace sempre qualcuno con cui vi sentite completi, con cui riuscite ad aggiungere alle bellezze sensoriali intorno voi, una bellezza dell’animo, per cui, quando siete con una donna o un uomo, vedete il mondo per come deve essere, nella sua completezza. Per questo motivo ogni persona che guardate è una stagione nuova che vi si offre, un domani diverso, una golosità carnale che vi allarga il respiro dell’anima. Insomma è il motivo per cui la vita vi sorride perché vi offre una o più opportunità di gioia mostrandovi chi ne riassume la bellezza, chi è la tavolozza dei colori con cui dipinge il piacere di essere. Ma se questo non succede, se questa opportunità non vi viene offerta, se lo spirito vitale che dovrebbe innalzarvi fino al paradiso viene a mancare, se l’arcobaleno della gioia non può mostrarsi, che minchia di vita diventa quella che ogni giorno consumate senza la speranza di averne alcun piacere? Sarebbe come arrivare su una spiaggia e non vedere il mare, guardare il cielo di notte senza vedere le stelle o dormire senza mai sognare.
Io Signori miei lo ammetto: guardavo ogni donna nella speranza che il mio problema si risolvesse ed io potessi dare sfogo con la mia carne, ad anni di desideri. Invece, nella piazza del mercato mi sentii come se mi avessero rubato metà della mia vita, perché questo sono le donne per me: metà della vita. Ero come un’ostrica a cui avevano diviso le due conchiglie: in che modo una delle due conchiglie può vivere senza l’altra? D’ improvviso tutte le donne, con le loro forme, voci e colori erano scomparse e il non vederle era peggio che non poter fare l‘amore con qualcuna di loro. Mancava l’aria fresca, il sale della vita, perché ogni donna è un paradiso che indipendentemente dall’età e dalla forma, ogni uomo dovrebbe vivere. D’improvviso mi accorsi che il cielo aveva perso la sua luce ed il suo azzurro. La bellezza pura, non esisteva più. Se in quel momento mi fossi trovato in un deserto, mi sarei sentito meno solo. Ora, se invece delle donne vi piacciono gli uomini, immaginate un mondo senza uomini o se non vi interessano ne gli uomini ne le donne ma solo la cioccolata, immaginate un mondo senza cioccolata e nella disperazione che vi scoppierà nell’anima a concepire che non potrete mai essere felici perché chi vi dona la felicità che cercate non esiste, sentirete quello che io provai quel giorno a trovarmi nell’enorme mercato in mezzo ad una massa trasparente, quasi gelatinosa che con il suo essere nulla mi soffocava. Pensai che dovevo tornare da Madam per dirle che aveva sbagliato, che in quel modo, a non veder più le donne, non sarei mai guarito perché se dovevo risolvere il mio problema e riuscire a fare con una donna quello che tutti gli altri uomini facevano, allora dovevo almeno vederle, se no come potevo raggiungere quella normalità che cercavo. Fermai un minuto il mio ragionamento. Ma allora, la Regina di denari? Quella donna che mi avrebbe cambiato la vita e fatto di me un uomo? Madam l’aveva vista e se lei l’aveva vista voleva dire che sicuramente l’avrei incontrata: Madam non sbagliava mai! Allora perché questa tortura: privarmi della visione di chi poteva risvegliare la mia virilità? Pensai a Casanova che per primo aveva testato la pozione datami da Madam e al fatto, che privato anche lui di vedere le donne, fosse tornato ad amarle ancora di più, tanto da diventare famoso per il “di più” con cui le amava. Mi dissi che per mangiare devi avere fame, e più il cibo lo desideravi e sognavi, più avevi fame. Poi ci ripensai, Non poteva essere così. Io avevo già fame e allora? Mi ero messo in fila al banco della frutta e verdura e una signora, o meglio la sua forma trasparente chiese alla forma gelatinosa della venditrice se le zucchine fossero locali o meno perché le ultime che aveva comprato sembravano buone ma una volta cotte non sapevano di niente: erano tutte apparenza e nessuna sostanza. Fu allora che capii, capii veramente! Io in quel momento, anche se trasparente, delle donne vedevo la sostanza e non l’apparenza! Il “Fuoco dell’assenza” non era la mancanza di quell’immagine che io cercavo per vincere la mia castrazione psicologica, ma era l’assenza di quella sostanza, di quella anima interiore, che io nelle donne non consideravo. Da me le donne, a causa del mio problema, erano considerate solo come uno stimolo visivo, un innesco che la loro apparenza, il guscio di cui io vedevo adesso il contenuto, doveva far scattare. Così considerandole però, ne negavo l’essenza, l’identità, l’unicità. Era questo che Madam Effie voleva farmi comprendere: per vedere la Regina di Denari, dovevo prima guardare le donne in modo diverso. Basandomi su quanto avevano dentro e non stimolato solo dalla forma esteriore. Ma in che modo si poteva osservare quanto non si vedeva perché era solo vagamente accennato?
Stavo ragionando su tutte queste cose che mi sentii chiamare “Turi, Turi, come stai” Era Ernestina, una mia ex che non vedevo da tanto tempo. L’osservai stupito perché mentre le altre donne erano come meduse trasparenti, lei riuscivo a vederla anche se in modo parziale. Ne intravedevo i capelli, gli occhi, parte del volto e del corpo. In effetti ad Ernestina, avevo voluto bene veramente e se non avessi avuto il problema del mio apparato virile, che era anche lui solo apparenza e niente sostanza, l’avrei sposata. Vedevo solo metà del volto e già quello mi appariva bellissimo, ma malgrado gli anni passati assieme, le discussioni, l’amore platonico e i viaggi all’estero che avevamo fatto, ne vedevo solo una parte. Segno che per conoscere veramente qualcuno, oltre la sua apparenza esteriore, occorreva di più, molto di più. Chiesi di suo marito e di quella peste del figlio, e lei prendendomi sotto braccio, mi raccontò le ultime malefatte del piccolo mostro. Io ridevo di gusto mentre lei mi raccontava le sue vicende e d’improvviso si fermò ed osservandomi disse “Sono contenta di averti incontrato, ti vedo più sereno, più … sicuro” E nel dirlo la sua faccia mi apparve completa, come se in quel momento, di lei io sapessi tutto “Sto facendo una cura … per il mio problema e mi sento meglio” “Davvero? Sono contenta! Spero che guarisci e trovi qualcuno. Tu sei una bella persona!” Lo disse convinta e per un attimo pensai che lei potesse essere la Regina di Denari “Si, spero di risolvere il mio problema: ho già perso molte buone occasioni…” Mi guardò intensamente, quasi a volersi gustare quello che volevo dire. “non guardare al passato – mi disse alla fine sorridendo – quello non può tornare più! Bisogna guardare sempre avanti e non arrendersi mai” Sorrise ancora una volta e guardando l’orologio si stupì del tempo che avevamo consumato per parlarci. Mi diede un bacio sulla guancia e mi promise di chiamarmi per il prossimo compleanno del figlio. L’osservai andare via e nel vederla quasi completamente, capì che era la sua anima, la sua intima entità che stavo osservando e che come io vedevo lei in maniera completa, allo stesso modo lei vedeva me e che era questa unicità di vedute, questo osservare vedendo dell’altro ogni dettaglio dell’anima, che ci univa, che tra  noi ci faceva comprendere e capire. In tutti gli anni che la conoscevo quella era la prima volta che la vedevo e questo mi fece pensare che per anni lei era stata per me solo fonte di imbarazzo perché aveva certificato i miei fallimenti sessuali.  Da quanto mi aveva detto forse io non ero stato solo un fallimento, ma qualcuno, per qualche motivo importante e se non avessi perso tempo a voler risolvere ad ogni costo il mio problema erettivo, forse con lei avrei già trovato la soluzione. Mi sentii un coglione perché alla fine non avevo mai considerato ogni donna che amavo come la donna che era , ma solo come un rimedio e che quell’erezione “ad ogni costo” la stavo cercando solo per sentirmi normale, non per far felice o per amare qualcuno. Fu questa considerazione a farmi capire che la cura di Madam, stava dando qualche effetto perché capivo che avevo sempre cercato un solo lato delle donne, quello che mi era più utile o necessario ma che semplificava troppo chi avevo davanti fino a renderla una banale apparenza. Da allora incominciai a cercar di dare una personalità, un valore originale ed unico alle forme trasparenti che mi apparivano di fronte.  Con qualsiasi figura gelatinosa con cui mi relazionavo, incominciavo a parlare, a chiedere, ad osservare, sia che fosse una casellante, la cameriera di un autogrill o la magazziniera di una ditta dove dovevo caricare o scaricare. Avevo capito che nel momento in cui avrei visto una donna completamente, quella per me sarebbe stata speciale e che quanto la rendeva speciale avrebbe reso superfluo il mio problema. Non lo avrei risolto io da solo, ma quello che avrei provato per lei. Avevo quindi fame di comprendere ogni donna che incontravo, di cercare in ogni forma gelatinosa quanto la rendeva particolare, diversa dalle altre tanto da donarmi emozioni uniche. E questa mia curiosità e ricerca, le donne lo capivano e sorprese dall’interesse che mostravo, erano tutte disposte a rivelarsi così come a conoscermi perché alla fine quello che io cercavo, anche loro lo cercavano.
Ora Signori miei voi penserete che tutto era a posto, che prima ci parli e poi fai fiche-facche, no? Non era così. Io ci parlavo,  ma alla fine … niente. Loro erano contente di avere un nuovo amico, io era contento di avere delle nuove amiche, ma laggiù, nel luogo deputato a riprodursi, non c’era niente di nuovo, tutto era immobile e inerte, come già era prima. In più questa assenza delle donne, del loro bellissimo apparire, incominciava ad angosciarmi. Tutto il mondo infatti mi appariva ingrigito. Tutto quello che vedevo sembrava coperto da una patina di polvere che lo spegneva. Le donne e il desiderio di normalità che per me significano, avevano riassunto per me la vita, non vederle, era come se il mondo restasse sospeso, noiosamente immutabile, come quelle autostrade con nulla intorno, che percorri senza avere un punto di riferimento e ovunque sei, sei dove eri già stato qualche chilometro prima. Così mi capitava sempre più spesso di pensare di tornare da Madam per dirle di darmi un'altra porzione. Che c’era qualcosa ancora da aggiustare. Mi ero fatto tante amiche, ma la mia vita era come sempre una lunga autostrada dove correva solo il mio camion.
Arrivò il caldo e con la buona stagione le strade si riempirono di macchine e di lunghe file di  automobili e di autisti incazzati. Ero dopo Lagonegro, con tutto il traffico imbottigliato su un'unica corsia. Ero messo dietro un camper con una fila infinita di mezzi davanti a me. Molti avevano spento le macchine ed erano usciti dalle lamiere arroventate dal caldo per guardare cosa era successo. Seduto al volante di Cicciuzzo stavo lucidando il cruscotto, cosa che facevo ogni volta che mi fermavo per strada. Ad un certo punto vedo sulla sinistra, dietro il guardrail, una cagna magra che cammina seguendo il fossato a lato del guard-rail. L’osservo perché non c’è nulla da fare e seguo lei con lo sguardo come un marinaio segue le onde del mare. La vedo che, sorpassato il camper, si ferma all’altezza della cabina del camion che lo precede e guarda verso l’alto. Qualcuno le lancia un pezzo di pane che lei prende al volo masticandolo con forza. Le arriva un altro pezzo di pane e poi un altro ancora. Ad un certo punto, lo sportello del camion si apre e qualcuno scende. Ha in mano una vaschetta trasparente piena d’acqua che appoggia delicatamente vicino alla cagna che subito si precipita a bere. Io guardo la figura e penso “Bravo collega, bonu facisti!” Poi guardo meglio. Il sedere era troppo tondo ed i fianchi erano troppo stretti per essere quelli di un camionista. Quando la figura si mette di profilo capisco che sto guardando una donna e solo in quel momento realizzo che la sto vedendo interamente. Resto sorpreso e impiego alcuni secondi a comprendere che forse era lei la Regina di Denari che aveva visto Madam. Penso di scendere e di raggiungerla per vederla meglio, ma il tempo di levarmi la cintura, spegnere il camion e aprire la porta, che lei velocemente sale sul camion perché come spesso succede nelle code, le macchine avevano ripreso a camminare e tutti stavano riaccendendo i motori per ripartire. Si riparte velocemente ed io cerco di non perdere di vista  il camion della donna. Il camper che ho davanti mi fa vedere solo la cima del suo camion e non riesco a vedere nessun segno particolare per poterlo ritrovare nel caso lo perdessi. Piano piano tutta la fila di mezzi prende velocita ma restando tutti su una corsia unica non riesco a raggiungere il camion della donna. Finalmente la seconda corsia si libera ed il camion si sposta verso destra seguito dal camper. Per un secondo penso di sorpassali entrambi ma poi pensandoci mi accodo stando ben attento a non perdere di vista il portellone del camion. Andiamo avanti per diversi chilometri fino a quando ad un certo punto il camper mette la freccia a sinistra e sorpassa il camion. Io rallento per vedere bene di che camion si tratta. Vedo però che con la freccia sta accostando a destra verso una stazione di servizio con ristorante. Avevo già  perso molto tempo in coda e sarei arrivato in gran ritardo dove devo scaricare per cui dovrei tirare dritto a gran velocità. Invece metto la freccia e seguo il camion. Essendo più piccolo del mio trova subito parcheggio nella stazione congestionata dai turisti. Mi fermo osservando cosa fa la donna sperando che scenda per mangiare e non per andare in bagno. Si dirige verso il ristorante e quindi cerco disperatamente parcheggio trovandolo solo perché un collega riparte. Scendo di corsa ed arrivo al ristorante cercando tra gli avventori la donna. La vedo da parte ad un tavolo che per via del Covid, oltre al suo ha solo un posto disponibile. Non voglio che noti che vado direttamente da lei, voglio che pensi ad un incontro casuale. Una forma gelatinosa che dovrebbe essere la cameriera mi indica un posto dal lato opposto del salone. Io faccio passare avanti altre forme gelatinose e quando la cameriera torna le dico che vado nell’unico posto rimasto libero che è quello dove c’è la donna del camion. Quando mi siedo lei mi osserva stupita. Io guardo curioso il suo volto come se fossero anni che non ne vedevo uno. Signori miei, lo ammetto: se non fossi stato sotto la cura di Madam, io a quella donna, non avrei mai fatto caso. Era troppo banale, troppo semplice, una già vista e saputa! Non è come quelle donne che cercavo io con la gonna corta, la coscia forte e il seno danzante o con un posteriore da far resuscitare i morti. È una madre di famiglia, come tante che in passato ignoravo ma che ora li, in quello squallido ristorante sul bordo di una anonima autostrada, per me risaltava come la luna piena in una notte d’agosto. Ogni donna  che avevo incontrato fino ad allora, era una donna, aveva quello che gli uomini non hanno, lei invece “fimmina vera”, ha tutte quelle bellezze, quelle amorevoli passioni, quelle infinite tenerezze, quelle intime complicità, quel profumo di vita che ogni uomo desidera e cerca in una donna. Ogni sua più piccola cosa mi piace, ogni ciglio dei suoi occhi è un inno alla perfezione, le sue labbra sono belle come un’alba d’estate sulla Salerno-Reggio Calabria e la sua pelle è così chiara e perfetta che sembra debba essere vestita solo di baci e carezze. I suoi occhi emanavano una luce che mi abbaglia l’anima, sono due lame che mi entrano nella carne, due fontane a cui i miei occhi non smettono di  bere assetati. Ha lo stesso profumo dei primi giorni di primavera ed è come se lo avessi sempre sentito. Mi dico che ogni sua cosa, il gusto della sua saliva, il suo sorriso,  il profumo dei suoi capelli, la tenerezza dei suoi capezzoli, come si aggiusta i capelli mentre parla,  l’odore dei suoi fianchi, ogni sua cosa, anche la più intima e segreta,  era come se l’avessi già sentita, conosciuta, provata, baciata, leccata e adorata. Qualcosa dentro di me vibra, scende lungo la mia spina dorsale e arriva fino a quella cosa morta che ho sul davanti facendola muovere lentamente come un serpente che si sveglia dal letargo. Ormai ne ero sicuro, era lei la Regina di Denari
Aveva finito l’insalatona ed aveva chiesto un dolce. Mentre lo mangiava era pensosa. Alzò la testa dal gelato che stava mangiando. “Devi darmi il numero di telefono del tuo amico” “Ah si – feci prendendo il cellulare – dammi il tuo numero che ti invio le sue coordinate” Lei mi guardò sospettosa “Ti do il numero del lavoro” E me lo dettò. Le inviai il numero e l’indirizzo e le dissi che l’avrei chiamato chiedendolo di contattarla. Lei mi mandò il suo contatto Whats-Up e nell’Avatar che si aggiunse al numero vidi lei sorridente con un bambino che l’abbracciava intensamente con due piccole braccini magre e apparentemente fragili “È tuo figlio? – le chiesi ed aggiunsi senza aspettare la risposta – ti assomiglia” Sorrise. “Mi raccomando chiamalo il tuo amico – mi fece improvvisamente seria – è importante!” “Non ti preoccupare. Al mattino è preso all’ortomercato. Lo chiamerò verso le dieci quando va al bar per il terzo caffè” Teoricamente non avevamo motivo per continuare a parlare: avevamo finito il pranzo e il ristorante si era svuotato. Fuori, sul piazzale della stazione di servizio, illuminato dalla luce bianca spettrale dei grandi lampioni, non vi era più nessuno e la fila di Tir che erano nel piazzale avevano tutti i vetri coperti perché gli autisti erano tutti andati a dormire per riposare qualche ora prima di partire all’alba. L’accompagnai al suo camion che, come aveva detto era vecchio e scassato. Si accese una sigaretta e si sedette su un muretto che delimitava la zona del parcheggio. Mi disse che non aveva sonno e così mi sedetti anch’io e le chiesi cosa faceva prima di diventare camionista per necessità. Rispose che lavorava in un laboratorio di ceramica dove disegnava e colorava vasi e piatti. Iniziammo di nuovo a parlare, non ricordo neanch’io di cosa. Mi chiese se ero impegnato e le risposi che mi sarebbe piaciuto esserlo. Continuammo così, fino all’alba, quando i grossi camion incominciarono a rombare e per tutti iniziava un'altra giornata di lavoro. Lei salì sul suo e lo accese poi scese a salutarmi mentre il motore borbottava come se fosse già stanco “ Devi farlo vedere, ha gli iniettori che  non funzionano bene” Sorrise ancora una volta “ Se il tuo amico paga, li rifaccio d’oro – mi guardò felice – grazie: è stata  una bella serata. Vorrei rivederti …” Aggiunse tutto di un fiato quasi vergognandosi di quanto diceva. Mi aveva anticipato di poco perché anch’io volevo farle la stessa richiesta “Non ti preoccupare, ti rivedrò. Tra salire e scendere puoi fermati in questa o nella stazione di fronte e lo stesso posso fare io” Le risposi sicuro, anzi, sicurissimo che l’avrei rivista. Lei sorrise. Vedersi in quel luogo comune e transitorio era quasi non vedersi, ma per il momento le bastava, ed io lo capii solo osservando il suo sorriso. Per questo non era come le altre , trasparente ed invisibile, perché ne capivo ogni pensiero solo guardandola. E probabilmente lei faceva lo stesso, per questo era la Regina di Denari. Partì qualche minuto dopo ed io sul piazzale già illuminato dalla luce insicura dell’alba, l’osservai andare via dispiaciuto e felice. Non ero più solo. Non ero più solo sulle lunghe corsie dell’autostrada, non ero più solo in quei paesi stranieri cupi e tristi in cui portavo il sole della mia terra, non ero più solo nelle notti chiuso in cabina o nei ristoranti da camionisti. C’era sempre lei. Volava nei miei pensieri, accendeva i miei desideri, scompariva e ricompariva di minuto  in minuto. E se non era nei pensieri, era nei messaggi del telefono dove chiedeva se avessi chiamato l’amico, in che paese ero, dove bisognava andare per raggiungere questo o quel posto o questo o quel ristorante. Oppure avevamo telefonate con il vivavoce lunghe centinaia di chilometri o per quanto dovevamo fermarci per riposare. Quando trovavo un WiFi decente facevamo lunghe chiamate per vederci e raccontarci che cosa avevamo visto o di suo figlio o dei miei nipoti, ma sapevamo benissimo anche se non lo ammetavamo, che avevamo chiamato solo per vederci, per guardarci e inconsciamente desiderarci. Fu nel parcheggio di Sasso Marconi che feci una scoperta straordinaria. La notte avevo sognato Angela e al mattino mi ero svegliato con qualcosa di enorme e rigido tra le gambe: la mia prima erezione da anni ed anni. Ne fui sorpreso e disorientato ma immediatamente capii che dovevo vederla, così in discesa le chiesi se potevamo incontrarci che le avevo preso un bel pezzo di Parmigiano Reggiano di cui il figlio era goloso.  Nel frattempo lei aveva incominciato a lavorare con il mio amico già da diverse settimane, per cui poté fermarsi senza problemi alla stazione di servizio che avevamo concordato. Quando mi vide arrivare lungo la strada che immetteva al parcheggio, mi salutò alzando la mano felice. Andammo a bere un caffè e mi raccontò del nuovo lavoro di cui era molto contenta: poteva stare di più con il figlio e veniva pagata regolarmente. Tornando al parcheggio guardò con ammirazione Cicciuzzo che, modestia a parte, rispetto al suo vecchio camion, è come un’astronave con tutte le sue luci, il computer, il forno a microonde, lo stereo e tutti gli altri accessori che avevo messo. Mi chiese se poteva sedersi al volante. Le aprii la portiera facendola salire e una volta seduta si mise a ridere perché non riusciva a toccare i pedali tanto il sedile era spostato indietro. Mi appoggiai sul gradino e le spiegai come doveva portarlo avanti. Mi misi tra lei e il volante cercando la leva per spostare il sedile. Nel far questo ero con il volto a pochi centimetri dal suo, e per caso, i miei occhi furono nei suoi e a sentirla così vicina a tutto il mio corpo pensai “ora la bacio” Invece lei prese d’improvviso il mio volto tra le sue mani, e mi baciò con tanta voglia e intensità che il bacio che avrei voluto darle era al confronto il bacio di una suora ad un bambino. Signori miei, che vi devo dire? Ho pensato per anni ad un momento come quello, in cui il corpo traduceva in sensazioni reali, concrete quello che l’animo provava e per anni mi ero bloccato pensando che cosi avrei usato violenza verso qualcuno. Invece Signori miei, d’improvviso scoprivo che non dovevo usare nessuna violenza, che quello che si desidera quando si vuole bene a qualcuno, è cosa comune, ognuno dei due nel suo intimo lo vuole e desidera, perché è questa minchia di cosa che chiamano amore che uccide ogni violenza, che  ragiona al posto tuo quando non sai o non puoi ragionare. Fu come tuffarsi dentro a un cavallone che si infrange contro gli scogli ed ora eravamo dei corpi dominati dalla tenerezza della  schiuma e dalla potenza dall’acqua ed ora eravamo l’uno per l’altra la forza dell’acqua e la leggerezza della schiuma e dei nostri corpi facevamo quello che i nostri più intimi desideri  volevamo. Eravamo assetati, affamati, da quel tipo di sesso che chiamano amore o dall’amore diventato sesso e da esso bruciati, consumati, distrutti e rinati, da esso giustificati e chiamati alla vita. Si Signori miei, perché era questo che mi era venuto da pensare in quei momenti: che di tutti i miei giorni passati a cercar di far resuscitare un pezzo di carne che non voleva saperne di fare quello per cui era stato creato, di tutti quei giorni vissuti nel corpo e nei modi a minchia morta, osservando donne senza vederle, ascoltando donne senza sentirle, desiderando donne senza saper far nascere in loro alcun desiderio, l’unico giorno che stavo vivendo completamente era questo in cui ero nella brandina di Cicciuzzo a saziare semplicemente, intensamente, amorevolmente la mia e la sua carne. Senza pensare neanche se la mia proboscide riproduttiva si alzava o meno, perché ormai quella ragione di vergogna e amarezza, non era più un mio problema, quel chiodo fisso che mi aveva avvelenato la vita, quell’infinito disagio e amara pena, ormai reagiva naturalmente e prontamente ai desideri di lei, era ormai la  dominante schiava, la servizievole padrona della Regina di Denari. Tutto quello che provavo, era un rovente sole che brillava dentro il mio animo, dove viveva il mio cinico ed immaturo “Io” che aveva sentenziato l’abiura di quel piacere che provavo. Era un sole che finalmente splendeva bruciando, distruggendo quel silenzioso signore e nascosto padrone, quel burattinaio della psiche che aveva regnato nel buio dei miei pensieri. Ma nell’immaginarlo bruciare nell’intensità di quanto provavo penso, che ne provasse piacere perché il peso che portava dentro lo poteva finalmente dimenticare e finalmente poteva tornare ad essere quello che per anni, tra sensi di colpa e doveri morali,  non era mai potuto essere: felice! Quando tutto finì e lei era li tra le mie braccia seminuda ed io ero accanto a lei con poco addosso, c’era solo silenzio nella penombra creata dalle tendine che coprivano i vetri. Malgrado il rumore dei camion, delle macchine che sfrecciavano sulla vicina autostrada, noi sentivamo solo i nostri respiri, la quiete che nasceva dall’aver consumato ogni forza, la calma che ci restava dopo aver liberato nel caos della nostra carne, l’universo delle nostre anime. “Ho un fatto peccato mortale” Disse lei ad un certo punto “Amare non è mai un peccato se sei onesto con te stesso e con chi ami” “e tu lo sei?” “con te lo sono e lo sarò per sempre…” Lei sorrise e si strinse a me “Anch’io” Rispose e fu cosi che, nella buona e nella cattiva sorte, nel dolore e nell’allegria, nel bene e nel male, ci siamo scelti e sposati. Si voi, Signori miei, potrete dirmi che era già sposata, che ci sono le  convenzioni, che c’era il figlio, il marito distrutto dall’incapacità di affrontare la vita e tutto quello che volete. Ma per noi tutte queste cose erano e sono, con rispettu parrannu, strunzati. Noi due eravamo noi, i due gusci dell’ostrica che si erano trovati e uniti per sempre. Eravamo il Folle e la Regina di Denari che l’universo parallelo dei Tarocchi, avevano scritto che non si sarebbero più lasciati e che dopo essersi cercati tra sensi di colpa e solitudine, si erano trovati. Da quel momento, la vita rincominciò. Incominciai a rivedere le donne in tutte le loro forme, a riscoprire i colori nel cielo e neile loro emozioni. Ogni giorno appena sveglio le scrivevo, ogni notte prima di dormire leggevo i suoi pensieri per me e questo rendeva meraviglioso quel deserto fatto di  chilometri e chilometri macinati parlandoci, desiderandoci, ascoltandoci e vivendoci virtualmente. Con regolarità, c’era sempre un giorno della settimana che dedicavamo a noi stessi, trovandoci in qualche albergo, o in qualche piazzola di sosta fuori mano per sfogare, per dimenticare i tanti minuti in cui non ci eravamo guardati e toccati, il cui non avevo sentito il profumo del suo seno o lei non aveva sulla sua bocca il sapore della mia. Quando ci lasciavamo era solo il vuoto, un assenza che correvamo a riempire con telefonate e messaggi. La felicità assoluta Signori miei, non esiste. Per questo quella felicità che provavamo tra le immense distanze che ci separavano, era tutto quello che mi bastava a vivere. Lei aveva una vita più regolare, guadagnava e stava vicino a Sabbuccio. Io avevo un riferimento, una stella polare con la quale regolavo i miei giorni e le rotte sulle strade del mondo. Avevamo un momento in cui poter fare un gran respiro e riempirci i polmoni di vita prima di tornare immersi sott’acqua nel mare di quel tempo che dovevamo subire e non vivere. Non avevamo bisogno di altro, non potevamo desiderare altro e chiusi nella nostra piccola storia, vivevamo, ripeto ancora questa parola da niente che vuol dire tutto: felici.
Poi arrivò il sogno.
Ero in un paese del nord e per via della neve ero arrivato al magazzino quando era già chiuso. Mi mangiai qualcosa e mi parcheggiai nel piazzale davanti al alla ditta dove dovevo scaricare pronto di primo mattino e a partire subito dopo. Sognai che guidavo Cicciuzzu su una strada dritta e lunghissima, in un giorno assolato con un cielo dal colore blu elettrico. Morivo di caldo come se l’aria condizionata di Cicciuzzu non funzionasse. D’improvviso su lato della strada vedo una macchia nera e avvicinandomi distinguo una limousine nera, di quelle americane lunghe dieci metri. A lato della macchina stava una figura dritta e immobile come una statua. Io fermo Cicciuzzu e scendo avvicinandomi con qualche esitazione. Nella figura con il vestito nero riconosco Apollo con i suoi basettoni ed orecchie da scimpanzé. Sollevato, sorrido e mi avvicino allungando la mano per salutarlo. “Autista, ti nzignasti a canciare i roti?” Gli dico contento di vederlo e mi avvicino con la mano tesa per stringere la sua. Lui allunga la mano e nel palmo della mamo che avevo steso verso di lui mi mette una caramella. Una di quelle tonde di zucchero che si danno ai bambini. “ti sta aspettando” Mi dice con una voce bassa e profonda ed apre una portiera della macchina. Io entro guardandolo stupito, mettendomi la caramella in tasca e mi siedo dentro la macchina trovandomi nella stanza buia di Madam, nella sedia che occupavo di fronte alla sua scrivania quando ero andato a trovarla. Lei è li, seduta alla scrivania e ne vedo solo gli occhi dal taglio orientale ma, anche se non vedo la sua bocca, penso che stia sorridendo “Come stai?” Chiede “Bene” E le racconto tutto felice di Angela Lei mi ferma con una mano “Non abbiamo molto tempo. Devi ascoltarmi e agire. Per essere felice c’è sempre un prezzo da pagare, se è grande o piccolo dipende solo da quanto eri infelice o da chi è la ragione della tua felicità. Tu, il prezzo per la tua felicità, l’hai già pagato. Ma la Regina di Denari non ha pagato nulla e questo potrebbe ritorcersi contro di lei” “che vuol dire – reagì quasi incazzato – lei ha già pagato con suo figlio e suo marito, la felicità se l’è guadagnata!” Scosse la testa “Non è così. L’universo è un insieme di energie che si muovono dalla più grande alla più piccola o da una energia negativa ad una positiva, o da quella più ingiusta a quella più giusta. Questo fluire domina la nostra esistenza, e vive degli effetti che su di noi crea. Tu eri in un avvallamento energetico, una prigione fatta di energie negative; non potevi muoverti, chiuso tra energie più forti di te. Io ho aperto una breccia, una piccolissima fessura e tu sei scivolato verso la Regina di Denari, uscendo dalla tua prigione. Lei però è ancora chiusa in una prigione simile alla tua e questa sua felicità influisce sulle energie negative che la circondano e che per reazione possono solo distruggerla: devi evitare la rabbia del Cavallo di Spade … “ “Il cavallo di Spade?” ”Si, qualcuno molto vicino alla Regina di Denari, che può fare molto male a lei  e a suo figlio. Devi farla uscire dalla sua prigione, devi essere tu a creare la fessura attraverso cui lei possa fuggire. La felicità che provate è meravigliosa, ma la bellezza della felicità sta nella sua intrinseca fragilità. Devi evitare che questa fragilità la uccida, … la uccida … la uccida ….” Mi svegliai di soprassalto, sudato e con il cuore in gola. Non riuscii più a dormire e mi agitai senza pace fino all’alba. Appena il cancello del magazzino si aprì mi presentai con la bolla di carico. Il magazziniere l’osservò e mi suggerì di prendermi un caffè mentre cercava il muletto per lo scarico. Mi avvicinai alla macchinetta del caffè e misi le mani in tasca cercando due spiccioli. In tasca avevo però solo qualcosa che non capivo cos’era. Tirai fuori la mano e l’aprii:  nel mio palmo c’era la caramella tonda che nel sogno mi aveva dato Apollo. Capii che Madam mi aveva mandato un messaggio che non potevo ignorare.
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sciatu · 2 years
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Pasta Spaccatella con i funghi, cipolle in agrodolce, costardelle alla brace.
COSTARDELLE
Voleva morire! non gli restava più nient’altro da fare. Dopo anni dedicati a lei, vissuti solo con lei e per lei, ecco che da un minuto con l’atro scompariva lasciando solo due parole “sei solo una pena!”. Come era possibile? Le aveva dedicato tutta la vita, comprandole una casa dove voleva lei, arredandola come diceva lei, invitando le persone che lei sceglieva, facendo tutto quello che la potesse renderla felice ... E ora? un benservito di due parole e addio! Era questa la fine di un amore? Ma era stato amore se finiva così?  a metà settimana poi, come si finiscono le cose banali ed inutili, fatte finire prima di sabato per non rovinarsi il week end da passare magari con un nuovo mandrillo? E lui, che doveva fare? Inseguirla e ammazzarla? Spiegare agli amici che “finalmente” era libero? e a quali amici visto che ormai frequentava solo gli amici di lei dato che i suoi erano solo “cafoni” o “volgari” o “banali”! Non era più semplice ammazzarsi, così senza starci tanto a pensare perché il pensiero è un tarlo degradante dell’anima e castra ogni forza passionale? Lei ad esempio non ci aveva pensato: l’aveva fatto. Da un minuto con l’altro via, scomparsa. Lasciandogli la casa (la sua casa) piena di vestiti e mutande sporche e il cuore (il suo cuore) vuoto come se d’improvviso il mondo fosse finito e lui non se ne fosse accorto, nessuno lo avesse avvisato che lui non esisteva più perché ormai da anni lui era vissuto solo per lei, per il suo amore, perché l’amore, gli avevano insegnato a scuola, in chiesa, nelle canzoni e negli sceneggiati, era il fine della vita. E ora che aveva scoperto che non era vero, che era solo uno stimolo corporale come la diarrea, cosa doveva fare? Ora che dell’amore scopriva l’ipocrisia e l’assurdità, come poteva riscattare tutta la sua vita se non morendo? Se doveva essere così, così sarebbe stato. Voleva però un’uscita di scena da protagonista. Ecco, avrebbe fatto un grande pranzo e poi, ubriaco, avrebbe preso la macchina (una macchina che lui aveva sempre odiato e che lei gli aveva imposto di comprare con il cambio automatico e un osceno color verde pisello) e sarebbe corso a schiantarsi contro un muro o in un precipizio, dopo un epico volo nel nulla. Una uscita di scena alla James Dean! Già s’immaginava la sua storia su tutti i social e il migliaio di follower di sua moglie ( lui sul suo aveva solo due follower, sua madre e quello sfigato di Dario che sul suo facebook postava solo foto di vermi e lepidotteri) leggere attentamente la sua fine, postare le foto dello schianto con magari un rivolo di sangue che usciva dalla portiera. Pensava orgoglioso al gran numero dei like dei follower della moglie e i loro commenti: “lo hai fatto morire …. sei una malvagia … era un santo, … non lo dimenticheremo mai … è morto per come ha vissuto: da cretino!” No forse quest’ultimo commento non lo avrebbero fatto, ma conoscendo gli amici di sua moglie, non poteva illudersi che tutti loro, proprio per la lunga frequentazione con la moglie, potessero capire e ammirare il suo virile gesto!  Anche se, a ben pensarci, un po' gli giravano le palle al pensiero che a qualcuno quel gesto avrebbe fatto un favore. Ma bisognava fare le cose giuste, per bene e soprattutto doveva morire a pancia piena, come a dire che lui la vita se l’era goduta fino in fondo anche senza di lei. Così che, tutti sapendolo satollo e pasciuto fino a morirne, capissero che di lei non gliene fregava niente e che era stata solo una delle tante, anche se era stata purtroppo l’unica. Si alzò quindi e guardò nel frigo per vedere cosa c’era da mangiare. Trovò dei vecchi funghi e un’insalatiera piena di Custaddeddi, il pesce affusolato che la stronza gli aveva imposto di comprare per quella rannissima bottana della di lei madre. Sorrise come un diavolo che vede un’anima pia peccare. Uscì i funghi e incominciò a farli rosolare con aglio e prezzemolo e li lasciò andare a fuoco lento. Aprì una bottiglia di Grillo pensando che fosse necessario per sfumare i funghi, ma non essendone sicuro, si bevve il bicchiere che aveva preparato. Intanto sulla piastra incominciò a far andare le costardelle che si rosolavano per bene. In un piatto mise un po' d’olio, di limone acqua, una pioggia di origano e sale e lentamente mentre il pesce si cuoceva, lo adagiava nel salmurigghio badando ad inumidirlo per bene. Intanto mentre finiva il secondo (o il terzo?) bicchiere di vino, incominciò a mangiarsi la pasta con i funghi, gustandosi sia la spaccatella (pasta di grano duro) che i funghi dal sapore intenso. Finita la pasta incominciò con le costardelle e con fare metodico morse un lato del pesce poi prese una forchettata di cipolla in agrodolce, ed iniziò il secondo lato del pesce, finendo con un sorso di vino e via di nuovo: pesce, cipolla in agrodolce, pesce, sorso di vino. Ed ogni volta che iniziava si diceva che le costardelle erano buone e che meritavano di essere mangiate, come la vita meritava di essere vissuta, ed il suo atto estremo voleva dire proprio questo, che la vita deve essere divorata con gusto e che quando si incontra qualcuno che te la rovina con tutti i suoi cicici-ciociociù che ti riempiono la testa e ti rincoglioniscono, allora voleva dire che lei era la strega, l’alito del diavolo, la gelida salma che si ritrovava ogni sera nel letto e che gelava ogni passione e desiderio, ogni soffio di vita che la carne gli dava, era lei la mala-anima che lo torturava, la forza di gravità negativa che invece di attrarti ti respinge (pesce-cipolla-pesce-vino) e quindi era colpa sua se il mondo andava come andava e c’era il covid ed i ghiacciai si ritiravano, perché era lei che creava il male (pesce-cipolla-pesce-vino) che lo spargeva per casa blaterando continuamente e che non gli faceva vedere le partite e lo portava sempre da quella jarrusa (grande meretrice) sucaminchia (esperta nel sesso orale) della suocera (pesce-cipolla-pesce-vino) e quindi tutti la dovevano biasimare, maledire interdire perché aveva spinto lui, lui che non aveva nessuna colpa e alcun merito, a morire, così, da un giorno all’altro, lui innocente e benvoluto da tutti perché, pesce-cipolla-pesce-vino, tutti in fondo lo amavano e lo avrebbero sempre amato perché non si poteva non amarlo, perché lui era un santo, pesce-cipolla-pesce-vino, ecco lo avrebbe fatto vedere a tutti e quando  tutti lo avrebbero saputo, pesce, cipolla, pesce, vino, non se lo sarebbero dimenticato! Anche da morto, anche sacrificato sull’altare del matrimonio, castrato dall’amore coniugale, ucciso dalla soffocante convivenza, lui era innocente e puro come ogni santo! Amen e così sia e dunque sia! Si alzò con fare melodrammatico e osservando l’insalatiera delle costardelle vuota, esclamo rivolto a tutti i fantasmi che lo circondavano “Ho Finito! …  vado”
Si girò lentamente con la stanza che ondeggiava e le orecchie che fischiavano rabbiose e con passo solenne si avviò in direzione della porta verso l’estremo atto di fede nella vita che si era ripromesso di fare uccidendosi. Fece un primo passo, ma il pavimento doveva essere stato sistemato in pendenza perché la testa, invece di andare in avanti andava di lato e lui per obbedienza la seguì con tutto il corpo e camminando di sbieco, arrivò malamente sul divano. Poiché si sentiva stanco, si disse che avrebbe riposato cinque minuti perché era una cosa da bastasi (maleducati) morire stanchi. Molto tempo dopo, qualcosa più grande di mezz’ora, ma poco meno di una eternità, qualcuno lo scosse violentemente e lui si sveglio biascicando, pulendosi dal filo di bava che gli scendeva a lato della bocca, con la testa pesante e la pancia che gli sembrava di essere Babbo Natale. Si vide davanti la moglie che urlava come na paccia (una Pazza) camminando per casa e raccogliendo le cose che lui, in disprezzo alla sua folle mania di ordine assoluto, aveva sparso per terra disordinatamente. Con il coletto della camicia aperto, i capelli scomposti tutti in aria, lo sguardo da vecchio rincoglionito, l’osservava girare per casa gridando contro di lui per come aveva trasformato la cucina in una stalla, che non  poteva andare da sua sorella Rossella che lui si metteva a distruggere la casa, si coricava con le  scarpe sul divano, pisciava senza alzare la tazza, buttava le chiavi sul tavolo del salotto rigandolo, creava il caos e l’inferno perché tanto c’era lei che puliva, lei che gli aveva sacrificato anni, speranze e desideri e che era l’ora di finirla, perché si sarebbe buttata dalla finestra così che tutti sapessero della sua vita di sacrifici, da reclusa in casa, mentre lui se la spassava giustificando tutto con un lavoro dove prendeva due lire e lo trattavano da fallito qual era! Eppure glielo aveva scritto che avrebbero mangiato con lui, prese il bigliettino e glielo mise dotto il naso leggendolo ad alta voce e lentamente come si fa con i bambini: “Ci-so-no-per-ce-na”! e gli porse gli occhiali perché lui lo vedesse bene perché era orbu comi na taddarita ( Pipistrello) ma per vanità non usava mai gli occhiali!!! Invece lui senza aspettarla, si era abbuffato pensando solo per se stesso come sempre faceva anche a letto dove lei era all’antipasto e lui si era gìà bevuto il digestivo, così come si era divorato tutte le costardelle che aveva comprato per quella santa donna che era sua madre che glielo diceva sempre che doveva sposare il figlio del cavaliere Papaleo e non questa cosa inutile, questa minchia morta. Lui l’ascoltava imbronciato, deluso che la sua speranza che lei non tornasse più, fosse solo una pura illusione, quasi seccato che anche per oggi non si sarebbe potuto ammazzare!
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sciatu · 2 years
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Tarocco Siciliano raffigurante l’imperatrice
Madam Effie e l’uomo che non poteva amare 
Prima parte: il senso dei sogni.
“Scusa, posso sedermi?” Lei alzò gli occhi dalla sua insalata e mi guardò stupita. Anch’io mi guardai stupito: stavo facendo una cosa che non solo non avrei mai pensato di fare, ma neanche immaginato che potesse succedere!! io che mi avvicinavo ad una donna che non conoscevo chiedendole di sedermi al tavolo dove mangiava. Era assurdo! Io che importunavo una donna. E una donna camionista per giunta! Una di quelle che appena le guardi male ti davano il crick in testa. “Ma cosa stai facendo? - mi chiesi – quello che Madam Effie mi ha detto di fare” mi risposi e subito mi sentii un coglione.
Era successo qualche mese prima che portavo Cicciuzzu, il mio camion, a Montalbano Eliconda per lasciare un carico di sedie e tavoli e prendere delle scatole piene di caciocavallo, salsicce e pane, quel pane famoso che a Messina appena lo mettevano in esposizione già spariva. Ad un certo punto sul lato della strada vidi una sagoma nera. Era una macchina, una vecchia lancia Kappa ancora ben tenuta. D’improvviso, quando ero ad una cinquantina di metri dalla Lancia, dal davanti della macchina saltò in mezzo alla strada una sagoma scura che senza esitare si mise dritto a mano aperte di fronte al camion. Cicciuzzu fece uno scarto di lato per evitarlo e quasi si stava ribaltando dall’altra parte della strada. Lo ripresi con il controsterzo, mi affiancai sul lato della strada dove era parcheggiata la macchina e fermandomi guardai se avevo urtato qualcuno. Vidi la figura oscura, che riconobbi essere un uomo con un vestito nero attillato, ancora in mezzo la strada a braccia aperte. Abbassai il finestrino e gli gridai “Ma chi si critinu? Ti putia ‘mazzari!!” La figura restò ferma qualche secondo poi incominciò a venire verso di me saltellando. Io ero già incazzato perché mi stava facendo ribaltare Cicciuzzu e a vederlo venire incontro che magari vulia fari na sciarra (guerra), mi slacciai velocemente la cintura e mi tirai su le maniche “Stu jarrusu figghiu i buttana pensa chi mi scantu (spavento). “ E scesi da Ciucciuzzu pronto a fare a pugni con quello stronzo che era, si e no, alto la metà di me e pesava quanto una mia coscia Lui, quasi indifferente al fatto che il suo corpo era la radice quadrata del mio, veniva verso di me saltellando con le gambe larghe e le braccia che sembravano più lunghe del normale, come se fosse uno scimpanzè. Quando fu vicino l’impressione che fosse una scimmia fu più forte perché aveva dei basettoni spelacchiati sulle gote e due orecchie a sventola che sembravano proprio quelle di un scimpanzè. Arrivato a qualche metro da me si fermò. Indicò con il lungo braccio la vecchia macchina e disse “Uhh uhh” Io lo guardai stupito “Comu?” Ma lui si girò e con la sua andatura dondolate e le gambe larghe che ci poteva passare nel mezzo un cane con una scopa in bocca, si avviò verso la macchina. Si fermo dopo qualche metro e voltandosi a guardarmi ripeté “Uhh uhh” e aspettò che facessi qualcosa. Toccai la chiave di Ciucciu in tasca e rassicurato che non me lo potessero rubare lo seguii. Lui riprese la sua andatura saltellante e arrivò vicino alla macchina fermandosi all’altezza della ruota e ripetendo il suo verso “Uhh uhh” La ruota era a terra ed io stupito l’osservai “Chi c’è? Na sai canciari?” “No non la sa cambiare” Disse la voce ferma di una donna seduta nei sedili posteriori della macchina Dal finestrino mezzo abbassato vidi la sagoma di un corpo coperto da una veste traslucida che mi sembrava seta. Anche il volto era ricoperto da una mascherina dai riflessi simili a quelli delle macchie di petrolio sull’acqua. Solo gli occhi sembravano muoversi nella figura immobile. Erano due occhi dal taglio orientale, magnetici e scurissimi, di quelli che ti tagliano l’anima e vedono cosa c’è dentro. “E chi minchia di autista è se non la sa cambiare?” “uno di quelli che non lo hanno mai fatto” rispose freddamente la donna evidenziando il suo accento straniero “va bhe – dissi scuotendo la testa – ora l’aiuto io, aprimi d’arreti” e aprendo il bagagliaio incominciai a prendere il crick e la ruota di scorta. “incredibile - commentai mentre lavoravo – come non si può sapere cambiare una ruota” È scossi la testa “Apollo guida raramente, generalmente non ci muoviamo da Messina” Mi rispose la signora “E ora come mai vi avventurate verso Montalbano?” “Andiamo sull’altopiano di Agrimusco per il solstizio d’inverno, “ “Ma li sarete in alto e farà freddo…” “c’è chi ci aspetta” “poi dicono che è pieno di cose brutte o strane, come pietre dalla forma umana o… mavari maligni (maghi cattivi)” “non ci fanno paura” Rispose con naturalezza la signora guardando i monti mentre lo scimmione-autista si mise a ridere come se quello che aveva detto la donna, fosse stata una battuta di cui solo lui poteva capirne il senso. “Ma su “sustizziu” chi boli dire, è una sagra?” Chiesi mentre cambiavo la ruota e solo per gentilezza, perché mi sembrava maleducato lavorare in silenzio con quella signora. “È il giorno in cui vi è la notte più lunga prima che il sole ritorni a splendere ogni giorno di più. Nella notte più lunga si possono vedere cose che negli altri giorni mancano ed i morti possono stare di più sulla terra ed è più facile incontrarli e parlargli” “Sarà – dissi scettico, riponendo la ruota bucata nel bagagliaio - deve cambiarle queste ruote, sono ormai vecchie. A Montalbano, c’è un gommista, dica che la manda Gaetano, il padrone di Cicciuzzo, le farà un buon sconto cambiandole tutte le ruote” “Lei è molto gentile: Apollo, ringrazia il signore” Lo scimpanzè vestito da autista sorrise e d’improvviso allungò verso di me un braccio nella cui mano, tenuto tra l’indice e il medio, apparve un biglietto di cinquanta euro. L’ osservai stupito per la rapidità del gesto “No grazie, certe cose bisogna farle perché si è uomini” “È solo un modo di ringraziarla” “Un grazie basta e avanza” E mi girai per andare verso Cicciuzzo. Avevo fatto un paio di passi che la donna parlo ancora “Mi scusi, non volevo offenderla” “non mi sono offeso – le dissi girandomi verso la macchina - ma la gratitudine per un aiuto non può essere accompagnata dal denaro, se no non è gesto d’ aiuto nato dalla buona volontà, ma un lavoro” “Ha ragione, mi scusi ancora. Allora prenda un mio biglietto da visita e mi venga a trovare; ripagherò un aiuto con un altro aiuto” Sotto il naso mi apparve, tenuto da due dita pelose di Apollo, un biglietto da visita color Lavanda con una scritta rossa purpureo che diceva: Madam Effie Veggente via Palermo 1317 Messina Mi venne da ridere. “Vaddassi che io, a queste cose di mavare e streghe, non ci credo.” Le dissi sorridendo “Non si preoccupi, mavare e streghe esistono dovunque c’è il male e il bene anche se lei non ci crede; venga pure a trovarmi e parleremo del suo problema” “Problema, quale problema? Io non ho nessun problema!” Gli occhi di lei mi guardarono e già mi immaginai la sua bocca sorridere. “non si preoccupi – fece Madam e velocemente i suoi occhi si abbassarono quasi a indicare dove le mie gambe finivano e tornarono a fissare i miei occhi - nessuno saprà del suo problema, ma se viene a discuterne, magari lo risolveremo” La Lancia mise in moto e si mosse verso la careggiata velocemente, allontanandosi aumentando sempre di più la velocità, lasciandomi sul bordo della strada con il biglietto in mano.
Ora voi signori miei vi chiederete: perché non hai stracciato il biglietto, buttandolo via e facendoti due risate? La risposta è semplice: perché io un problema, di cui non avevo mai parlato a nessuno, e che Madam aveva indicato con lo sguardo, lo avevo veramente! Una serpe qui dentro di me che si tucciuniava (contorceva) e mi mordeva il cuore, avvelenando la mia anima e i miei giorni. Che quella donna me lo rinfacciasse in maniera superficiale e quasi banale, voleva dire che magari lei lo conosceva molto meglio dei dottori dove ero andato perdendo tempo e speranza. Sembrava che ne sapesse i dettagli e che ben conosceva l’amaro che donava ai miei giorni rendendo il mio sangue aceto. Quale è il mio problema? È un problema da maschio, che è un doppio problema perché a me i fimmini mi piacciono e assai e io, se potessi, le vorrei fare felici tutte, ma non per un minuto, per tutta una vita. E invece… Invece, quando arriviamo al dunque … niente! Non c’è cosa. Non si duma, non si isa, non si drizza, resta li annoiato e monchiu (mollaccio) come se la cosa a lui non lo interessasse e DomineIddiu lo avesse fatto solo per stare sudato e appiccicaticcio incollato alle paĺle e nulla più. Un uomo è uomo, non solo se ne ha gli attributi ma soprattutto se li usa e quindi, signori miei, se questo uso non c’è, allora che uomo è. Ma a parte questo, voi sicuramente vedete a primavera sul viale quelle ragazze con quei vestitini leggeri, con il seno che danza su e giù ed il sedere che ad ogni passo si tende, si gonfia, mostra i muscoli che lo formano e poi ridiventa morbido, soffice, delicato;  quelle ragazze  che lasciano una striscia di profumo delicato come la loro pelle che sarebbe da accarezzare, leccare, baciare... quelle ragazze o quelle donne esperte, che dovrebbero essere adorate, esplorate, amate, saziate, nella penombra di una stanza, sull’altare di un letto disfatto … Ed invece io potevo solo immaginarle, desiderarle, sognarle forse, ma nulla più! Nulla …di più. Per questo ero felice di essere camionista, sempre in viaggio, da solo, sulle autostrade, lontano da ogni tentazione e dal sapore della vita che le tentazioni stesse sanno dare! A volte però mi chiedevo che vita era la mia? Che senso aveva, che piacere o sapore mi poteva dare questa maledetta vita che facevo, se io stesso ero incapace di gustarla? Mi misi il bigliettino in tasca, pensando che magari quella signora diceva la stessa cosa a tutti per procacciarsi un cliente, Ma il tono con cui l’aveva detto e lo stesso momento e modo in cui ne aveva parlato, non mi sembravano quelle parole e quei modi in cui un imbonitore che va a caccia di qualche bonaccione da truffare, lanciava la sua esca. Tornai da Cicciuzzo pensando e ripesando a cosa era successo. Inconsciamente mi misi il bigliettino in tasca indeciso su cosa fare. Qualche giorno dopo, in un Autogrill nelle Calabrie incontrai U Principi, un camionista messinese mio amico Dopo aver mangiato allo stesso tavolo gli mostrai il biglietto “Guarda, l’altro giorno ho incontrato una tua compaesana” E gli passai il bigliettino. Nel vederlo lui sbiancò e tenendolo a distanza si fece il segno della croce “Cu tu desi?” “Madam in persona” “Propriu idda?” Chiese sottovoce stupito. “Si me lo ha dato lei di persona” Me lo restituì tenendolo delicatamente con due dita e continuò con un filo di voce “È na Mavara Janca putenti. Se te lo ha dato lei, vuol dire che ti protegge. Se hai bisogno vai da lei. Fidati.” “Na Mavara Janca?” “Si. Ci su i Mavari Nivuri (nere), che servono u Malignu, chiddi Janchi, chi ci vannu contru e i Lamii, chi servunu a natura! Idda è Janca, non fa u mali, ma aiuta” L’osservai stupito “ma tu comi sai sti cosi?” “A Missina ci su chiù sette sataniche che in ogni altra città italiana. Sti cosi si sannu. Idda aiuta a genti onesta, i dispirati, i puvirazzi, cu nun avi chiù spiranza …” “Mah ...” “Non spiari – mi fermò U Principi – non su cosi pi nui. È meglio non parlarne: u Mali avi i ricchi longhi” E restò in silenzio guardandosi alle spalle. Per il resto della pausa che ci eravamo presi in Autogrill parlo di tutt’altro, alla fine mi salutò abbracciandomi e guardandomi seriamente negli occhi, mi disse solo “stà a cura (stai attento)! Cu si vaddoi si sabboi (chi si riguarda si salva)” U Principi è una persona onesta e affidabile che da sempre ha viaggiato sulle strade del mondo, tanto da conoscerne ogni bellezza ed angolo oscuro, se uno “espettu” come lui le riconosceva un potere che altri non avevano allora voleva dire che dovevo andare a trovare Madam Effie.
Mi guardò sorpresa con quei suoi due occhi che facevano più rumore di tutti i clienti del ristorante, poi seria chiese “E se io ti dirria di no?” La guardai anch’io, sprofondando nel rosso delle sue labbra immense come l’orizzonte del mare. Non poteva dirmi di no, dopo tutto quel tempo che l’avevo cercata. Non potevo fermarmi, dovevo ingranare la marcia e accelerare. Mi sedetti e sorridendo aggiunsi “Ti chiederei perché non mi vuoi seduto qui con te” Lei ingoiò il boccone e rispose tenendo i suoi occhi fissi nei miei a sfidarmi altera come una regina “Perché hai fatto passare avanti due clienti per fargli occupare i tavoli liberi e poi sei venuto qui a chiedermi se potevi sederti. Ecco perché! Ammia chiddi troppu scattri nun mi quagghiunu (a me i troppo furbi non mi piacciono)” Sorrisi “Se lo hai notato allora non sono abbastanza scattru! quindi posso restare – e senza darle tempo di rispondere alzai la mano e chiamai – cammireri!” Lei sorrise “Hai a testa dura!!!” “Solo quando serve. Tu bevi vino?” “Chi c’è? mi voi fari mbriacari?” “ti voglio offrire un buon vino per fare la pace” “Astemia sugnu” “E fai bene – e al cameriere che era arrivato – Portami quello che hai portato alla signora e una bottiglia di vino, la migliore” Appena il cameriere si allontanò allungai la mano “Mi presento, sono Gaetano, ma i nostri colleghi camionisti, mi chiamano Cicciuzzu ” Lei mi guardò “Ah Cicciuzzo sei… e picchi non lo dicevi prima?” “Picchì, mi canusci?” lasciò la forchetta e mi strinse la mano “Piacere sono Angela detta Sant’Agata. Mio marito mi ha parlato di te. A Sansone, uno del paese nostro, si era bloccato il camion sul valico del Sempione e tu ti sei fermato per aiutarlo. Sei riuscito a far partire il camion e gli hai evitato una notte in mezzo alla neve” “E’ un vizio che non riesco a perdere quello di aiutare gli altri – dissi seccato perché avevo scoperto che aveva un marito – ma non ne posso fare a meno” Non ne potevo fare a meno, non poteva lasciarla. Anche se aveva marito non potevo assolutamente lasciarla. Lei era finalmente chi stavo cercando Mangiai un boccone di pane mentre il cameriere apriva la bottiglia di vino e ne versava ad entrambi un sorso. Non potevo lasciarla andare, mi ripetei mentre facevamo un brindisi con il vino e la guardavo negli occhi. Bevvi lentamente pensando e raccogliendo le idee, mentre lei non toccò il vino e continuò a mangiare. L’osservai e mi sembrava perfetta. I capelli ondulati di un nero brillante, la carnagione abbronzata su cui affioravano le lentiggini, gli occhi scuri come i capelli, vivaci e dallo sguardo intenso, il volto tondo come quello delle bambine, il seno grosso da madre, il corpo proporzionato. Era lei, quella che cercavo, la sola che in quella sala del ristorante vedevo, l’unica di cui ero curioso. Era lei che cercavo. Non potevo lasciarla andare.
Salutato U Principi, scesi a Villa e di li traghettai per Messina. Una volta in città lasciai Cicciuzzo in un posto tranquillo e sicuro e andai in via Palermo, da Madam Effie. Quando entrai nella sala d’attesa, vi era solo una vecchietta e una coppia di ragazzi che sembravano fidanzati. La vecchia li fece entrare da Madam,  si avvicinò a me e tutta seria mi chiese “Tu si Gaetanu u camionista?” “Si signora” “Madam ti aspettava. Devi entrate per ultimo. Se arriva qualcuno lo faccio passare avanti, poi entri tu” “Va bene signora, comi dici lei” La vecchia fece un segno di assenso e poi si andò a sedere vicino alla porta da cui si andava verso Madam e prendendo un rosario, incominciò a sgranarlo muovendo in silenzio le labbra. Arrivò una signora vestita di nero che dopo poco entrò da Madam, Arrivò quindi un signore che sembrava un direttore di banca ed entrò anche lui dopo qualche minuto d’attesa. Dopo quasi un’oretta, la vecchia si alzo e aprì la porta che portava da Madam. “Ora puoi entrare” Arrivai, attraverso un corridoio buio in uno studio fiocamente illuminato, in un angolo dietro un enorme scrivania, c’era Madam Quando entrai si alzò e mi invitò a sedermi su una poltrona messa di fronte la scrivania. “Sei venuto. Mi fa piacere. Posso restituirti l’aiuto che ci hai dato” “E comi sta l’autista chi non sapi canciari i roti?” “Apollo Sta riposando, lui non vive per come viviamo noi” Quella frase, non so perché mi fece venire i brividi. “Ecco Madam – dissi senza ulteriori convenevoli – sono venuto per quel problema che lei forse sa” Lei si fece seria “Non ne conosco i dettagli: so che c’è! La tua Aura Vitale è inquieta, sembra quasi che si rivolti su sé stessa, ma non ho bisogno che me ne parli, troverò le informazioni con i miei mezzi. Probabilmente hai già provato le strade “normali” dove occorrono dati “tangibili” per diagnosticare un male.  Io non ho bisogno di questo tipo di informazioni perché i miei mezzi non sono “normali” e spesso quello che si percepisce è più esatto di quello che si comprende con numeri e analisi. Dimmi prima di tutto quando sei nato.” Una volta saputa la mia data di nascita dispose cinque carte a croce e da un altro mazzo, con la mano sinistra, mi fece mettere tre carte su ogni carta della croce. Alla fine, alzandole lentamente una ad una le studiò a lungo. “Nella tua vita, quando eri molto giovane, è successo qualcosa … di grave … di molto grave….” improvvisamente mi sentii debole, privo di ogni forza e volontà, provavo un senso di ansia che fino a poco prima non avevo e che mi soffocava. Forse era l’agitazione, la fretta di arrivare … Girò un tarocco “Questo fatto ti ha segnato, profondamente …  ti ha segnato, … ti ha levato il desiderio … l’amare …. “ Si, sentivo freddo, e sudavo freddo, le mani, la fronte… perché sudavo? prima stavo bene? … forse era il Covid… “Tu non riesci più ad amare… non ne sei più capace … anche se vorresti ma non puoi … “ Stavo male, dovevo andar via, magari qualcuno mi aveva sicuramente infettato sul traghetto. Dovevo dirlo a Madam, che non era il caso che … sentivo freddo, … tanto… “anche se non puoi più vivere così … hai bisogno d’amare … fortemente” Non riuscivo a respirare, sudavo, mi veniva da vomitare … dovevo dirle di smetterla, che ne avremmo parlato domani, … mi sarei alzato e avrei detto…. Diventò tutto buio.
Sentì un odore fortissimo penetrarmi dalle narici ed arrivare fino al cervello come uno schiaffo. Aprii gli occhi e vidi le rughe della vecchia guardarmi “Comu stai? Mi senti?” E mi diede uno schiaffetto sulla guancia, per farmi rinvenire “cosa è successo?” Chiesi biascicando “Sei fuggito. – rispose Madam seduta dietro la scrivania - Il tuo subconscio ha chiuso tutto per evitarti di rivedere quanto hai visto, quello da cui nasce il tuo problema” “Mi capitava lo stesso quando andavo dallo psicologo. Mi veniva l’ansia e dovevo andare via. Una volta che mi sono imposto di restare ho incominciato a spaccare tutto” La vecchia mi porse un bicchiere dalla forma strana, sembrava un cristallo di rocca racchiuso tra due serpenti che si avvolgevano attorno a esso e che attorcigliandosi formavano il gambo. “Bevi, è una bevanda che gli indigeni delle amazzoni chiamano Sangue di Giaguaro, ti fortificherà; vi è anche del curaro verde, bloccherà temporaneamente la tua emotività e le armi del tuo subconscio” Qualcuno mi prese dalle ascelle e mi alzò e malgrado i miei novanta chili, lo fece come se fossi un fuscello senza peso. Questo qualcuno mi mise a sedere sulla poltrona e si spostò dietro a Madam Effie diventando un’ombra nascosta dal buio alle sue spalle. La vecchia, una volta che finii di bere quell’intruglio che sapeva di mango e liquirizia, prese il bicchiere e scomparve nella penombra della stanza verso la sala d’attesa. “Va meglio ora?” Feci cenno di si con la testa, cercando di riordinare le idee. “Perché fuggo sempre?” Le chiesi stupito “Perché noi uomini vogliamo dimenticare il dolore. Ricordiamo appena le felicità passate, ma tendiamo a cancellare la sofferenza. La tua anima non vuole più soffrire, non vuole più riprovare il dolore che ha avuto e per questo è disposta a tutto: a non farti sapere, a non farti amare a non farti provare una possibile felicità” “Vuoi dire che ho avuto una esperienza, un trauma che mi blocca con le donne?” “È molto probabile. Ma tu stesso pensi di non ricordarlo tanto profondamente lo hai nascosto dentro di te” “non capisco, da una parte tu dici che dimentichiamo il dolore, dall’altra che non voglio ricordare come se dentro di me quel ricordo fosse ancora vivo” “Noi siamo il nostro passato. Siamo quello che abbiamo vissuto. Possiamo dimenticare il dolore provato in un certo istante, ma tutte le azioni che sono il risultato di quel dolore, diventano la nostra vita. Quindi, anche se vogliamo cancellarlo, ce lo portiamo dentro nei gesti di ogni giorno” Restò in silenzio per qualche secondo “Hai detto che hai già provato ad andare da uno psicologo” “Si, qualche hanno fa volevo capire cosa avevo e sono andato da un dottore. Ha incominciato ha parlare di disfunzione erettile, di blocco psicologico dovuto ai rapporti tra mio padre e mia madre… tutte cose che io non capivo cosa c’entrassero col fatto che non si isa” “Tuo padre e tua madre non andavano d’accordo?” “Mio padre era uno che portava i panari i cesti per raccogliere i limoni, il mestiere più povero che fa chi non sapeva fare nulla. Passava la maggior parte del tempo a cercare lavoro in piazza e quei pochi soldi che trovava se li beveva. A volte tornava a casa e sfogava la rabbia della sua condizione su mia madre. Una volta tornò a casa pieno di vino e con la voglia di fare ma mia madre lo cacciò dal letto allora lui la prese a cinghiate e cercò di usarle violenza, si fermò solo perché mi misi a piangere. Allora dormivamo tutti nella stessa stanza ed io vedevo tutto quello che faceva a mia madre. Così è stato fino a che non ho avuto l’età per arruolarmi e a militare ho preso la patente dei camion. Mi sono fatto la mia strada e appena ho potuto ho preso mia madre per farla stare con me in un'altra casa lontano da suo marito. Mio padre rimase solo a vagare di bar in bar a beversi la vita che non aveva avuto.” “E questo non basta per giustificare il tuo problema?” “Non lo so. I dottori dicono di si, ma a me la cosa non convince. Da piccolo mi chiudevo nel mio mondo cercando di non vedere o sentire perché se intervenivo avevo più botte di mia madre. Dopo le botte dovevo stare a casa perché mia madre diceva che a vedermi le maestre avrebbero denunciato mio padre. Insomma, sopravvivevo e non ho un ricordo orribile della mia infanzia anche se di notte avevo incubi strani dove sentivo gridare delle ragazze e che dovevo fuggire”. Mi fermai un minuto a pensare “mio padre alla fine non era cattivo, o meglio, la sua cattiveria nasceva dalla sua disperazione. Quando ormai vecchio e solo lo portai dal dottore e gli dovetti dire che aveva un brutto male lui mi disse solo “mu meritu” e tutte le cure che dovette fare le subiva come una punizione per quello che aveva fatto a me e mia madre. L’ultima volta che portai mia madre a vederlo prima che morisse, le disse solo “scusami, la vita che ti ho fatto fare non te la meritavi” e non le disse più niente, la sera stessa entrò in coma e dopo qualche giorno mori. Io ho giudicato mille volte mio padre, come fa ogni figlio e non riesco a credere che quello che faceva mi abbia fatto così male” Vi un lungo silenzio in cui Madam osservò a lungo le carte, finchè non ne prese una mostrandomi la carta dell’imperatrice “Ad un certo punto hai incontrato qualcuno. Una donna che ha cambiato la tua vita. Ricordi? Non hai avuto nessun tipo di rapporto con lei o con le donne in generale?” “Ma si, curiosità toccatine, anche li tra la gelosia dei compagni e la guardia dei genitori, ma niente di importante, niente che non fossero esplorazioni innocenti e improduttive” Lei mi guardò studiandomi e sentii i suoi occhi entrarmi dentro quasi a scavare nella mia anima “Tu non vuoi guarire – mi disse infine – stai cercando solo di giustificarti che stai provandole a guarire” Resto ancora in silenzio “La tua anima è come questa stanza: Tu ne vedi i dettagli?” “No è buia e mi sembra vuota” “Eppure è piena di oggetti ed entità che non percepisci ma che la rendono affollata. Lo stesso è la tua anima: quello che vedi di giorno è solo quello che vuoi vedere e che ti rassicura; di notte invece il tuo subconscio ti racconta una realtà diversa che ti rende inquieto, perché i nostri sogni sono la voce del nostro vero io e con sincerità ci parlano di noi stessi: è questo il senso dei sogni. A chi credere quindi, alla rassicurante normalità del giorno, o all’angoscia della notte che ti ha spinto qua per farti amare come è giusto amare? Io penso che dobbiamo chiedere a questa tua parte primitiva e inquieta il perché del tuo impedimento e quindi tirare le somme. Tu, come testimone di te stesso, non sei attendibile” “Non capisco “ Madam prese una carta e la mise di taglio in piedi sulla scrivania e questa rimase come era stata messa senza cadere “Questo tarocco siamo noi” Prese un'altra carta e la mise di piatto sul lato alto della prima appoggiandola a metà “Questa e la nostra anima, che oscilla tra odio e amore – il tarocco incominciò a dondolare scendendo prima su un lato ora sull’altro. Madam riprese a parlare – ora è più alto l’uno ora è più alto l’altro lato. L’equilibrio è regolato dal nostro cuore, dal saper distinguere quando è necessario l’odio o è giusto l’amore – il tarocco si fermo restando piatto e orizzontale sopra l’altro tarocco che restava sempre in piedi. – succede però che la nostra intelligenza diventa schiava del nostro ego e non crediamo al cuore, cosi giustifichiamo entrambi i sentimenti nello stesso momento: l’amore diventa uguale all’ odio, ad esempio l’amore che si trasforma in odio per la stessa donna – la carta piatta incominciò a piegarsi con i due estremi che scendevano entrambi verso il basso - E questo atto innaturale viene motivato dalla nostra intelligenza con cui, se ci conviene,  giustifichiamo ogni ingiustizia” Le due carte caddero sulla scrivania smosse da un vento impercettibile. “Questo sei tu, accetti inconsciamente che dentro di te vivano il bisogno d’amore e il suo rifiuto, perché dentro di te, l’orrore dell’esperienza provata te lo ha imposto. Il problema non è il fiume della tua incapacità in cui nuoti. Il tuo problema è la sorgente che l’alimenta e che tu non vuoi svelare” Sorrise, come se fosse arrivata ad un punto importante. “Per questo è meglio che sia tu stesso a confessarti il tuo male” Schiacciò un pulsante e un faretto illuminò su una parete un quadro coperto da un velo nero con una enorme cornice barocca tutta dorata. Madam si alzo e lentamente, accompagnata solo dal fruscio del suo lungo vestito andò verso la parete alla sua sinistra dove prese un piccolo braciere con un gambo a forma di gatto nero. Mise dei granelli di una qualche resina, disse una sola parola e apparve una fiamma che incomincio a danzare subito circondata da una spirale di fumo odoroso. Prese il braciere e si avvicinò a me “Metti sulla fiamma dei tuoi capelli e una tua unghia.” Mi toccai i capelli e mi ritrovai con un ciuffo tra le mani. Li versai sulla fiamma che li accolse con un crepitio cambiando colore. Con il tagliaunghie che avevo attaccato alla chiave di Cicciuzzo, feci quello che avevo fatto con i capelli. La fiamma si spense e un fumo denso e cupo prese il suo posto. Madam prese il piccolo braciere e lo pose ai piedi dello specchio che venne avvolto dal fiume denso. “Ora mettiti di fronte allo specchio seduto. Quando toglierò il velo, vedrai il tuo io e potrai chiedergli il perché del tuo problema. Solo tu potrai vederlo, parlargli ed ascoltarlo. Io sarò qui alle tue spalle. Non sentirò quello che vi direte ma se ti vedrò troppo alterato o in difficoltà, coprirò lo specchio. Ti senti pronto?” Del sudore freddo mi circondò la fronte ma immediatamente si fermo così come il bruciore nello stomaco si calmò, forse per effetto della bevanda di Madam “Sono pronto” Le risposi stringendo i pugni come se dovessi fare a un incontro di pugilato. Ad un suo gesto il velo che copriva quello che aveva chiamato specchio si levò e mi ritrovai davanti un ragazzo seduto su una sedia simile alla mia, circondata dall’oscurità e che mi guardava con la mia stessa curiosità. Il ragazzo aveva il corpo esile ed era alto e portava con una grande chioma disordinata. A vederlo mi ricordò come ero quando ero stato ragazzo. Mi girai verso Madam per dirglielo e anche lui si giro cercando qualcuno nel buio alle sue spalle. Allora tornando a guardarlo, incontrando i suoi occhi che erano i miei occhi, capii con stupore che quel ragazzo spaventato e stralunato, era il mio “io”.
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Tarocco Siciliano raffigurante la regina di denari
Madam Effie e l’uomo che non poteva amare
Seconda parte: la forma dell’assenza
Ora, Signori miei, prima di iniziare questa seconda parte, devo farvi un piccolo riassunto di quanto mi era capitato. Vi ho raccontato di come ho incontrato Madam Effie e di come le avevo chiesto di aiutarmi nel mio problema di masculu. Per risolverlo le ho parlato della mia vita, ma alla fine lei si è fatta persuasa che il mio problema non era in mezzo alle gambe, ma dentro la mia testa, come sempre è per questo tipo di problemi. Per questo, per poterlo capire e risolverlo mi ha messo  di fronte a me stesso, quella parte che ognuno di noi ha nascosto dentro di se e che in fondo è il vero burattinaio che decide ogni nostra azione. Prima di raccontarvi come è finita, devo continuare con il mio racconto parallelo perché capiate, nel momento in cui la natura del mio problema verrà fuori, cosa voleva dire per me essere li con Angela,  sopranominata Sant’Agata, la camionista che avevo goffamente abbordato in un ristorante per camionisti alcuni mesi dopo il mio incontro con Madam. Angela stava mangiando la sua insalatona con alici, mozzarelline pomodori Pachino e insalata romana. Io avevo ordinato la stessa cosa e quando arrivò guardai con disgusto la scodella di insalata che il cameriere mi aveva portato. Avevo ordinato quello che mangiava lei per semplificare e perché se mangi quello che un altro mangia, quest’ultimo si fida di te, perché il cibo è più intimo e personale che parlare la stessa lingua, è come essere cresciuti nella stessa casa. Cercai un argomento con cui iniziare una discussione seria, essendo entrambi camionisti forse era bene iniziare da quello che avevano in comune e chiesi fingendo di non saperlo “Tu che camion hai?” “È un vecchio Renault da 100 quintali di seconda mano. Quando lo abbiamo comprato mi sembrava perfetto, la cosa più bella che avevamo. Poi mio marito ha avuto un incidente e lo ha quasi distrutto. Rimetterlo in piedi ci è costato quasi come comprarlo nuovo” “Ma l’assicurazione non ha pagato? “E che ccos? mio marito si è addormentato al volante e ha fatto uno sfacelo: sono morte due persone …. Gli hanno ritirato la patente” Mi ricordai d’improvviso. Avevo commentato quest’incidente con Bastianello, un collega di Zafferana “ Era mbriacu fattu – diceva Bastianello con il suo accento catanese – ha saltato una corsia ed è arrivato su una panda con due vecchietti trasformandola in una frittata: i vigili non sapevano distinguere chi era il guidatore e chi il passeggero….” “Forse ho sentito di quest’incidente, ma come ha fatto ad addormentarsi… guidava da tanto, aveva una certa esperienza …” Lei scosse la testa e la capigliatura ondeggio in un modo che mi piacque molto. “aveva bevuto – ammise lei – vedi da quando ha saputo che nostro figlio ha dei problemi, ha incominciato a bere. Quella volta non aveva bevuto tanto ma era stanco perché aveva riposato poco e male e tra stanchezza e alcool ha avuto un colpo di sonno che è stato fatale” “Che cosa ha tuo figlio?” “Una malattia degenerativa tipo la SLA. Non arriverà a trent’anni” Lo disse come se fosse una cosa normale, ma teneva la testa bassa, mentre mangiava l’insalata e capii che non voleva farmi leggere negli occhi il suo dolore. Capii subito che non  avrebbe mai lasciato il marito. Questo mi fu chiaro immediatamente. Non si sarebbe mai messa con me perché entrambi, padre e figlio, dipendevano da lei, dalla sua forza, dal suo sacrificio da quel suo mettersi in strada per portare il pane a casa, per pagare le cure del figlio ed i tranquillanti al marito. Io queste cose non le capisco ma l’amore di madre è più forte, più importante che l’amore di donna. Per questo avrebbe speso la sua vita per loro senza riceverne niente in cambio. Era una causa persa: non si sarebbe mai messa con me, mi dissi nuovamente,  lasciando il suo passato per incominciare una nuova vita. Tutto quello che mi aveva detto Madam Effie, forse non si sarebbe realizzato. “Ma non c’è una cura, qualcosa?” “Abbiamo speso un mare di soldi per farlo vedere dagli specialisti. Al San Raffaele a Milano ci hanno detto che non c’era niente da fare. I suoi muscoli si accartocceranno come una foglia secca e morirà. Quando lo ha saputo mio marito ha incominciato a bere. Mio figlio è molto legato a lui e per mio marito Sabbuccio, mio figlio, è la vita. – restò in silenzio un secondo smuovendo con la forchetta una foglia d’insalata nel piatto vuoto – lui si è rinchiuso in se stesso. La notte ha smesso di dormire e spesso piange. Non ha saputo reagire. Beve sempre, spesso di nascosto perché se ne vergogna, e ce l’ha con tutti, con Dio, con i dottori, con gli altri bambini nati sani, con me … con se stesso. Se non fosse per Sabbuccio me ne sarei già andata di casa” “Ma ce la fai a badare a loro e a lavorare?” “è difficile, ma non ho scelta. La mia famiglia mi aiuta ma le cure sono tante ed i soldi non bastano mai. Però più avanti si va più diventa difficile. Ora, con tutti questi stranieri che costano due soldi guadagno il minimo; il mio camion poi è troppo piccolo per camparci ed è sempre più difficile trovare lavoro o se lo trovo devo andare lontano e stare tutta la settimana fuori per due soldi. Non è una cosa buona, non per Sabbuccio e neanche per mio marito. Quando torno lo trovo sempre stordito dall’alcool” Ecco cosa mi piaceva di lei, la sua forza e la sua dolcezza, la sua determinazione ed il suo amore. Non avrebbe mai lasciato né il marito né il figlio, ne ero sicuro, ma lei era come me: sola! E quando si è soli si ha disperatamente bisogno di qualcuno. Di chiunque! Per questo mi stava dicendo tutte le sue cose: aveva bisogno di qualcuno con la stessa disperazione con cui io avevo bisogno di lei. “Io ho un amico all’Ortomercato a Catania che mi chiede sempre se gli faccio dei viaggi. Ha avuto molte brutte esperienze e vuole qualcuno di cui fidarsi. Bisogna andare due volte alla settimana a Salerno, un viaggio che puoi fare in una giornata. Paga bene perché come ti ho detto vuole un servizio preciso e qualcuno di cui fidarsi. All’andata porti arance, limoni, carciofi, al ritorno pomodori, insalata, cime di rapa. Potresti farlo tu. Staresti fuori solo due notti e forse neanche e lavoreresti tutto il mese, per dodici mesi l’anno e guadagneresti bene. Io non lo faccio perché il mio camion è troppo grosso, è il doppio del tuo e non recupererei le spese” Mi guardò tutta seria, cercando di capire se dietro la mia offerta vi fosse qualche cos’altro. “E tu cosa vuoi in cambio” “Quello che mi ha dato il tuo compaesano quando l’ho aiutato: riconoscenza!” Sorrise e gli occhi le brillarono. Mi beai del suo sorriso, del modo come la sua faccia si illuminava quando era contenta, perché da quando ero stato da Madam Effie fino a quel momento, lei era l’unica donna che vedevo dopo tutti le migliaia di chilometri che avevo fatto per cercarla.
Nell’oscurità della stanza in cui Madam riceveva i clienti, iI ragazzo nello specchio mi guardava con curiosità, cercando di capire, attraverso i dettagli del corpo e del volto chi ero. Forse io facevo lo stesso guardando lui e lui era solo il mio attuale riflesso che io vedevo al passato. Senti la voce dietro di Madam Effie alle mie spalle “Devi parlargli, capire parchè lui non vuole che tu sia uomo” Tornai ad essere presente nella situazione in cui mi trovavo. Ero nello studio di Madam Effie, una stanza di cui, a causa del buio, non ne percepivo la grandezza, il limite e questo mi faceva sentire in un mondo che non era quello reale, quello da cui provenivo. Sentivo intorno a me presenze di cui vedevo appena labili movimenti o ne sentivo sottili sussurri. Lo specchio di fronte a me non rimandava la mia immagine ma il mio Io interiore, quello che dovevo interrogare per capire cosa mi era successo. Mi schiarii la voce e chiesi “tu sai chi sono” “Cettu – rispose lui con cipiglio come se gli avessi fatto una domanda sciocca – tu sei il mio corpo, la mia parte materiale” Restai sorpreso dal tono con cui l’aveva detto come se considerasse il mio essere materiale, qualcosa di sporco e volgare. “ e sai perché sono qui?” “Perché vuoi perdere tempo – rispose seccato – lo sai che io comando, io devo decidere. Tu cosa ne sai di cosa è giusto per tè, di cosa bisogna fare per essere felici, per poter vivere senza odiarsi o sentirsi un fallimento?” Si irrigidì mettendo il palmo delle mani sui ginocchia e tenendo le braccia dritte piegando di lato la testa quasi come un professore fa quando spiega a un bambino “io so! – disse lentamente – io ricordo: ho il ricordo del piacere di succhiare il latte caldo dal seno morbido di nostra madre, della scoperta del nostro corpo del poterci muovere e parlare, della gioia che questo ha dato alla mamma, del suo abbracciarci e stringerci quando la cercavamo – abbassò gli occhi – io ricordo le urla di papà quando tornava a casa, le sue bestemmie perché mamma non voleva fare quello che lui diceva, i suoi schiaffi, il suo tirarla per i capelli per obbligarla, lei che si ribellava, lui che la prendeva a pugni, il sangue che schizzava sulle lenzuola bianche, sulle pareti …” Si mise una mano tra i capelli quasi per accarezzarsi e calmarsi “ … E tutto perché il papà voleva fare “ le cose sporche”, come diceva la mamma. Noi lo ricordiamo ancora, non possiamo dimenticarlo. Per questo ho deciso che non le faremo. No!, è proibito. La mamma piangerebbe” Ecco, queste cose le sapevo, me lo aveva detto la psicologa. Ma forse non era solo questo. Madam aveva parlato di un ‘Imperatrice” , di una donna importante, che io non ricordavo. Forse era questa donna la chiave di volta. Dovevo scoprire chi era. “La mamma aveva ragione – dissi allo specchio – quello che papà voleva, non era giusto per come lo pretendeva. Ma noi siamo diversi da lui: non è che con una donna noi faremo quello che faceva lui: noi sappiamo che è sbagliato. Ma non  c‘è stata mai una donna con cui poterlo dimostrare?” Sorrise e mi guardò, alzò la mano destra all’altezza degli occhi e con l’indice puntato verso di me mi disse “ tu non ricordi, perché io voglio così: non bisogna sbagliare come papà, anche noi siamo come lui….” “Come lui, che vuoi dire?” “Lo vedi ? non ricordi perché noi non vogliamo ricordare, ma se ti dico un nome ti sarà chiaro tutto!” “Un nome? Che nome?” Fece un sorriso cattivo e lentamente sibilò: “B I A N C A” “Bianca? Perché che è successo con lei?” “ Niente – rispose subito girandosi sulla sedia a guardare di lato per non incontrare il mio sguardo – Nenti, non succidiu nenti” Furono quelle parole”Non è successo niente” che mi colpirono e nella mia testa si moltiplicarono fino ad assordarmi. Fu così che tutto mi tornò davanti come se stessi per riviverlo in prima persona. La mia immagine da giovane nello specchio scomparve. Nello specchio vidi dei monti coperti di alberi disposti su i terrazzamenti che dal fondo del vallone, dove correva uno striminzito fiumiciattolo, salivano fino alle loro cime bruciate dal sole d’agosto. Il canto  delle cicale era assordante e riempiva tutta la valle.  Io ero salito fin lassù per mangiarmi i gelsi bianchi in uno dei pochi alberi di gelso rimasti nella valle dopo che con l’unità d’Italia la produzione di seta era stata tutta concentrata nel nord e la produzione siciliana venne cancellata e con essa il lavoro di tuttele famiglie della vallata. Delle grandi foreste di gelsi che coprivano i monti, erano rimasti solo pochi alberi dai frutti dolcissimi che io andavo a cercare per golosità e fame. Ero salito sull’albero e stavo attento a non farmi vedere da Mastro Biagio, il mezzadro che coltivava la terra del principe a cui appartenevano gli alberi da questa parte del vallone. Quando  vidi involarsi gracchiando delle gazze dal terrazzamento poco distante da me, mi fermai nascondendomi, pensando che il Mastro Biagio, con il suo nerbo di bue fosse vicino. Vidi invece una figura esile che saliva i gradoni di pietra che portavano al terrazzamento  da cui erano scappate le gazze. Apparve la mia compagna di classe, Bianca, tutta magra, con un vestitino ed un panaru in mano pieno, per quasi metà, di fichi. Anche lei era in questa parte del vallone a raccoglie i fichi dagli alberi del Principe, magari per rivenderli al paese guadagnando due soldi. Gli alberi dei fichi non erano molto grandi e i rami erano radi con poche foglie a causa della siccità, per questo li evitavo in quanto anche dall’altra parte del vallone mi avrebbero potuto scorgere e denunciare. Mi acquattai ancor di più tra il fitto fogliame del gelso consapevole che Bianca era in gran pericolo. Lei si avvicinò all’alberello più vicino ed incominciò a raccogliere velocemente i fichi. La guardavo, minuta e magra, allungare le braccia esili e staccare i frutti con destrezza riponendoli con cura nel cestino di vimini foderato di altre foglie di fico. Aveva i capelli lunghi e chiari, tenuti indietro da un cerchietto e le scendevano fin oltre le spalle. Il volto era tondo, con due enormi occhi nocciola e due labbra piccole ma ben disegnate. Lungo il corpo, il seno appena formato spuntava sul vestito a farla apparire più donna di quel che la voce minuta e i movimenti infantili potevano suggerire. A me Bianca piaceva. Era semplice e dolce, sorrideva sempre con negli occhi una luce allegra e felice. Fu un attimo. D’improvviso un ombra l’afferrò strappandole il cesto con i fichi “Latra, latra sì! T’avirianu tagghiari i mani attia e a tutta a to famigghia ( sei una ladra! Dovrebbero tagliare le mani a te e a tutta la tua famiglia) Era Mastro Biagio, con i pantaloni di fustagno e la camicia bianca stretta sulla enorme pancia  sorretta da due piccole gambe solide e curve per l’abitudine a muoversi sul suo vecchio mulo. La faccia tonda innestata su un collo grosso e corto, era tutta rossa di rabbia e gli occhi quasi gli uscivano dalle orbite per la furia che lo dominava. Strattonò Bianca in malo modo tanto che il cerchietto tra i capelli volò via e la lunga chioma sciorinò per aria coprendole il volto. Lei reagì dandogli un calcio sul ginocchio ma Mastro Biagio, dopo una bestemmia, afferrandola per i capelli, le diede un sonoro  schiaffo.  La ragazza non si arrese e affondò i denti nel braccio che la tratteneva, al che l’uomo bestemmiando ancor di più, la strinse contro di se  schiacciando la sua minuta schiena contro l’enorme pancia per bloccarle le braccia ed evitare i calci ed i denti. Lei si contorceva tutta e questo fece ridere il mezzadro “Sabbagia si … ora ti fazzu vidiri jò comi ti fazzu passari tutti sti scatti i nebbi” La spinse contro un tronco piegato verso terra contro cui la schiacciò con il suo panzone  e mentre con una mano le teneva le braccia dietro la schiena, mise l’altra sotto il suo vestitino  strappandole la mutandina per poi sbottonarsi il pantalone alla ricerca del suo attributo maschile. Io guardavo stupito, incapace di muovermi, mentre Bianca, al sentire la carne del porco contro la sua incominciò ad urlare finche lui non le tappò la bocca con la mano libera. Bianca si muoveva disperatamente cercando di evitare quell’unione forzosa mentre l’uomo aveva nel volto una disgustosa maschera di libidine e voglia e stringeva con forza a se la bambina che indomita si agitava cercando un aiuto che nessuno, me per primo, le dava. Osservavo nascosto tra le foglie scure e dentro di me una parte pensava a come intervenire, magari  prendendo un sasso dal muro di pietra che sorreggeva il terrazzamento e  schiantarlo sulla testa di lui. Ma questa voce sensata ed altruista, io, non la ascoltavo, preso com’ero a sentire crescere nei pantaloncini la mia carne maschile, perso nel provare il piacere che mi dava nel sentirla crescere e strusciare contro il ramo di gelso a cui ero aggrappato, pensando, desiderando che quel ramo fosse la schiena di Bianca ed io quel caprone di Mastro Biagio mentre facevo quello che lui stava facendo a chi, come me, ancora non conosceva il senso delle parole amore e sesso. “Mastru Biagiu … chi c’è cosa …?” Qualcuno gridò qualche terrazzamento sotto, forse sentendo le grida di Bianca “ Oh Micu, … Micu … chi succidiu?” Chiese una voce poco lontano. Mastro Biagio si fermò, si scostò dalla bambina e chiudendosi i pantaloni la guardò incattivito “Muta” Le intimò sottovoce e scomparve tra i rovi. Bianca scivolò lungo il tronco fino ad arrivare a terra e assumendo una posizione fetale, piangendo cercò di coprirsi con il vestitino sporco di terra e sangue, le gambe graffiate dai rovi che circondavano il tronco. Io scivolai lentamente fino alla base del gelso, da li, coperto dai cespugli di erba ingiallita e dalle felci, entrai nella parte incolta del monte, tra boschi di quercia e castagno e le sciarre (cespugli) di rovi e nascosto nell’ombra della vegetazione,  arrivai nella parte alta del paese per poi giungere finalmente a casa. Entrai in casa velocemente e corsi a buttarmi sul letto passando di fronte a mia madre che vedendomi così alterato mi chiese “Chi succidiu?”
“Nenti, non succediu nenti - Rispose il mio “Io” apparso di nuovo di fronte a me con le lacrime agli occhi  e tornando a guardarmi continuò – non è successo niente. Bianca tornò da sola a casa, ricordi? Dalla vergogna disse che era caduta in una sciarra di rovi facendosi male, ma da allora non l’abbiamo vista sorridere più ed evitavamo il suo sguardo per non ricordare il piacere che avevamo provato nel vederla seviziare, quel piacere che non doveva essere diverso da quello di nostro padre quando faceva la stessa cosa a nostra madre. Piacere di maschio, questo era, perché quello voleva dire quanto avevamo provato e quanto avremmo provato nel mostrarci i maschi che dovevamo diventare. Il piacere che nasce dal far male, dal distruggere l’innocenza, dall’ essere vigliacchi e fare, godendone, cose da vigliacchi! Perché alla fine non ci eravamo mossi, non avevamo fatto quello che la parte migliore di noi ci diceva? non avevamo fatto nulla se non godere del male che vedevamo perché era questo quello che siamo: il figlio di nostro padre, l’erede del mostro. Anche se avessimo amato, avremmo amato imitando, nel momento di mostrare amore, il comportamento di Mastro Biagio: facendo del male, perché è il male,  l’origine del nostro piacere. – Restò qualche secondo in silenzio asciugandosi gli occhi poi, tornato freddo e scostante, continuò -  Bianca andò via dal paese l’anno dopo, ora è in Francia dove ha sposato un dottore, ha una grande villa, quattro figli, al paese non viene più perché e d’estate va nella sua casa di Cannes. Mastro Biagio lo trovarono morto qualche mese dopo il fatto, in una parte desolata della montagna, tra serpi, felci e cardi rinsecchiti. Lo avevano portato fin lassù già morto, dopo avergli sparato in faccia. Chi lo ha giustiziato voleva che lo mangiassero i cani randagi, i corvi e le volpi. Entrambi hanno avuto quanto meritavano. E noi cosa potevamo avere per correggere il nostro essere sbagliati? In quale modo il Padre Eterno poteva darci quanto meritavamo? E cosa meritavamo? Hai capito adesso? – mi guardò seriamente facendo lo sguardo severo – il piacere è male, il desiderare con la carne è male perché amiamo per far soffrire chi desideriamo, amiamo umiliare, sporcare, sfregiare chi il nostro cuore desidera! Siamo la negazione dell’amore non possiamo desiderare, non dobbiamo! Finiremmo come a papà, come Mastro Biagio, perché siamo l’uno e l’altro con il nostro voler godere le lacrime altrui!  Il sesso porta il male! Il sesso vuol dire rendere ogni donna come la mamma e Bianca! Per questo noi abbiamo deciso che il sesso deve essere evitato! Perché ti porta alla negazione di chi ti dona amore, al suo volerlo distruggere. Questo abbiamo deciso  e questo, deve essere” Concluse sottovoce cupo e minaccioso guardandomi con uno sguardo cattivo prima che d’improvviso scomparisse inghiottito nel buio dello specchio.
Sentii una voce calda, sicura e ironica alle mie spalle “Deve aver detto quello che cercavi perché lo hai cacciato in malo modo” Mi ricordai di Madam, di dove ero e del perché ero li. “Si, si, mi ha detto tutto, … tutto quello che dovevo sapere.” “ Ti sento sconvolto, vieni, siediti alla scrivania e raccontami” Mi sedetti alla scrivania, chiesi un bicchiere d’acqua e mi fermai a pensare prima di iniziare il racconto. “effettivamente c’era una donna di mezzo, ma non era una imperatrice ma la mia compagna di classe Bianca …” Senza alzare lo sguardo dai tarocchi che stava mescolando Madam disse solo “ Bianca Lancia è stata l’ultima moglie dell’imperatore Federico II, la più giovane, la più bella, la più amata e la più sfortunata…” La sua osservazione mi colpì e per qualche secondo restai senza sapere cosa dire, poi incominciai a raccontare quello che avevo visto. Mentre raccontavo Madam ridispose a croce sulla scrivania i tarocchi, questa volta allargandoli verso l’esterno man mano che li aggiungeva in modo da formare una stella. Quando finii di parlare, Madam chiuse gli occhi e per alcuni secondi restò zitta. “Ora è tutto chiaro – fece riaprendo gli occhi e tornando a guardarmi -  il sole della consapevolezza ha dissolto la nebbia che copriva la tua coscienza: ora sai. Sai che hai scelto di non amare perché amare per te era dare sfogo alla Bestia. Sai che ora non esiti ad aiutare perché hai portato per anni il peso di non aver soccorso chi aveva bisogno anche solo di una parola. Ora puoi iniziare il tuo cammino verso la tua felicità” “Ma avrò mai felicità? … mi sembra che quello che ho visto è ancora in me, e che non me ne libererò facilmente” Madam sorrise “È vero, ma io ti farò espiare il tuo peccato e cancellare l’ idea che l’amore sia il dolore che doni o che provi. Capirai l’essenza della donna e sarai pronto per incontrarla” “Incontrare chi?” Chiesi curioso. Madam alzo la carta al centro della stella di carte, e me la mostrò “La donna più importante della tua vita: la Regina di Denari” “Ma …” “… Come la incontrerai? Sarà semplicemente l’unica donna che vedrai e allora capirai e dovrai fare di tutto per raggiungerla e conoscerla” Fece un gesto e dal buio apparve improvvisamente Apollo, con il suo vestitino nero attillato e i basettoni appena spazzolati Portava un enorme vassoio dove vi erano due piccolissimi calici, uno di giada verde ed uno che sembrava scavato in un enorme rubino. Madam prese quello verde e lo mise di fronte a me “Questo è lo Spirito del Desiderio o anche chiamato il Fuoco dell’Assenza. Lo ha preparato Cagliostro, quando a Venezia incontrò Casanova. Quest’ultimo era stanco di dover rincorrere le donne. Cagliostro, gliene diede una goccia e per un giorno Casanova non vide più una donna, ma finito l’effetto, comprese la bellezza, l’importanza, la natura delle donne e il suo amore per loro si triplicò, facendolo diventare quello che conosciamo. Bevilo” Allungai la mano e preso il calice ne osservai il contenuto ma il calice sembrava vuoto. Solo quando lo appoggiai alle labbra e lo alzai, sentii in gola scendermi qualcosa di freddissimo i cui vapori mi salirono agli occhi facendoli piangere Posato il primo calice, Madam mi porse quello rosso “Questo è l’Amore di Fatima. Fatima era una delle donne del serraglio del gran Sultano di Istanbul Soliman I. Poiché le molte favorite e concubine gareggiavano con lei nel farsi notare dal sultano, lei gli fece bere questa pozione e da quel momento, anche tra migliaia di donne, lui vedeva solo lei, perché solo lei era quella che lo amava veramente.” Il liquido nel calice era anch’esso rosso rubino e non lo distinguevo dal fondo del bicchiere . Bevutolo  sentii solo un retrogusto dolcissimo quasi  fosse stato miele mischiato con profumo di rosa. Una volta bevuto mi leccai con la lingua le labbra ma non sentendo nessun gusto mi chiesi se avessi veramente bevuto qualcosa e alla fine se quello che stavo facendo avesse un senso. Madam mi guardò “Cosa c’è , non ti piace il gusto?” “No Madam … ecco, con tutto il rispetto , ma è sicura che tutto questo funzioni? Lo spirito di Casanova, l’Amore di Fabiola …. “ “di Fatima …” “…scusassi …  di Fatima! Ma a mia mi parunu , cu rispettu parannu, strunzati” Madam  sorrise divertita “Tu credi all’onestà?” “Si Madam” “ma l’hai mai vista? L’hai stretta nelle tue mani? ” “Bhe no…” “allo stesso modo credi nell’amore, ma non l’hai mai provato e nel male perché l’hai visto negli altri e non in te stesso. Tutto quello a cui la nostra anima dà valore, non può non esistere e nello stesso tempo, tutto quello che ha effetto sulla nostra anima, non può non esistere. Tu puoi chiamarlo Diavolo, libertà, pace , fata turchina o Fuoco dell’Assenza, ma se la nostra anima lo percepisce e subisce, allora esiste. Ora, uscendo incomincerai a vedere l’effetto di quanto i tuoi sensi non percepiscono se non attraverso il tuo spirito. Allora capirai. Ora vai, hai un lungo cammino da fare”
Signori miei, che vi devo dire? Uscii che era già notte e per strada non c’era nessuno; comunque preso dai miei pensieri non notai nulla di strano. Arrivato da Cicciuzzo lo misi in moto e partii con la testa che mi ronzava e in cui tutto quello che avevo vissuto  mi tornava di fronte agli occhi facendo nascere dentro di me mille ed un pensiero, mille ed una considerazione. Decisi di fermarmi e mangiare un panino in un bar. Entrai stanco e demoralizzato e andando verso il bancone con i panini diedi un occhiata e sceltone uno dissi al ragazzo in fondo al bancone di darmi il panino. “ci u spiassi a me cullega di fronte a lei” Guardai di fronte a me e vidi solo  aria tremolante. Mi accorsi che avevo di fronte qualcosa o qualcuno di cui a stento vedevo il contorno essendo completamente trasparente. “Quali voli?” Mi chiese una voce che usciva dalla sagoma trasparente “chiddu ca cutuletta” Risposi stupito, esitando un attimo. Vidi il panino alzarsi a mezzaria venire avvolto in un tovagliolo di carta e volare verso di me. “voli na birra?” Chiese la sagoma trasparente. Risposi di no e afferrato il panino mi misi in un angolo ed osservai il bar. Un ragazzo, seduto ad  un tavolo con due bicchieri, parlava a qualcuno di fronte a se. Di questo qualcuno vedevo solo il contorno e ne ascoltavo la voce da ragazza, ma non vedevo a chi appartenesse. Un bambino entrò dando la mano ad una forma gelatinosa trasparente che chiese al ragazzo dietro il bancone, un gelato con tre gusti e preso il gelato ne avvolse il cono nei tovaglioli dandolo al bambino. Ormai avevo capito: era questa la Forma dell’Assenza di cui aveva parlato Madam: delle donne vedevo solo la loro assenza!
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sciatu · 3 years
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LA TIPICA BRIOSCIA SICILIANA - Molti affermano che la sua forma abbia delle chiare allusioni sessuali.
IL SEGRETO DEL DOTTOR G.
Il Dottor G. aveva un segreto inconfessabile che non aveva mai detto a nessun parente ed amico, tanto era per lui terribile ed osceno. Ora, anch’io che lo racconto trovo una certa repulsione a fartene parte tanto lo trovo, permettimi l’eufemismo, “anomalo”.  Purtroppo, per potertene parlare, devo pur dirtelo o fartelo capire. Insomma, al Dottor G. piaceva il lato B delle donne, quello volgarmente chiamato “posteriore” o, ancor più volgarmente, “sedere”. Forse dire semplicemente che gli piaceva è molto riduttivo, vista l’intensa eccitazione emotiva che provava ogni volta che osservava dal di dietro una donna. Lui si rendeva conto di questo suo disgraziato problema e cercava di ovviare mostrando con tutti, con le donne in particolare, un carattere disponibile, amabile, conscio dell’uguaglianza e pari opportunità dei sessi e della necessaria democrazia fra i generi. Però, insomma, sarebbe ipocrita nasconderlo: per il Dottor G, il di dietro delle donne, era una insaziabile ossessione. Tanto era forte quest’irrefrenabile pulsione e la relativa coscienza di essa che il Dottor G si sentiva pieno di contorti complessi, specialmente con l’altro sesso. A volte quando la dottoressa Pernice o la praticante Assunta lo andavano a trovare nel suo studio, lui già incominciava a sudare a pensare a quando, finita la discussione, se ne sarebbero andate dandogli le spalle e con un lento movimento sussultorio le sporgenze posteriori sarebbero uscite lasciandolo preda di pensieri innominabili su quello che lui avrebbe fatto con quelle rotondità soffici e peccaminose. Quando era seduto al bar per il pranzo facendo finta di osservare il tablet, si gustava l’andirivieni delle signore e ragazze che lavoravano nei negozi o negli uffici vicini e osservandole gustava quei di dietro, ora tonici, ora mollemente vibranti, ora distrutti dalle gravidanze o dall’incuria, ora sporgenti tipo brasile, ora alti o bassi, ora a mandolino, ora perfettamente tondi. Lui poi, aveva creato una nuova nomenclatura che solo lui conosceva e che aveva categorie, sottocategorie, eccezioni e fuori standard. Il sedere mappamondo perfettamente tondo, quello a melone oblungo che sporgeva a destra e sinistra, la variante betoniera oblungo verso il basso, la botte piccola appena pronunciato, il culo a giara dalla forma appunto di una giara stretto in alto e in basso e slargato nel mezzo, quello a sceccu sporgente verso l’alto, il piccolo mandarino appena appena visibile, il fico secco cadente e floscio, la bettola grande tondo e largo come una sacca piena di fieno, la piramide con una grande larga base, il culo fantasma quello che doveva esserci ma non si notava, quello a ciliegina perfetto nella sua piccineria, quello a cedro, tutto rugoso e sformato e infine, il più terribile di tutti: il culo a melanzana viola, quello dove i due emisferi erano perfettamente tondi e si stagliavano verso il vuoto ben separati. Il Dottor G., essendo per sua natura, educazione e studi una persona precisa, categorizzava, archiviava, rivedeva, aggiungeva e toglieva. Segretamente in ogni casellina con una sua definizione metteva una foto rubata con il tablet. Il tutto però lo portava ad uno stato di eccitazione nascosta ma fortemente presente, che alla fine lo snervava. Finiva sempre che per sfogarsi addentava la morbida brioscia che il cameriere gli portava immaginando di star accarezzando con le labbra un soggetto dei suoi studi, di riempirlo di baci, di morsi e di poterlo stringere a piene mani per sentirne la sublime consistenza. Inutile dire che il Dottor G a pranzo mangiava sempre molte briosce. Accade qualche giorno fa, la sua amica Marisa lo invitò  a cena nella sua villa sul mare a Rometta. La cosa lo stupì perché in questo periodo dell’anno non era una cosa usuale. Vi andò con molta curiosità e come sempre arrivò in ritardo. Al portone dovette citofonare perché Marisa aveva invitato altre persone e non voleva essere sorpresa dai Carabinieri per un assembramento superiore ai limiti imposti dal Covid. Marisa venne ad aprirgli con la sua enorme chioma nera e vestita con un vestito arabeggiante comprato durante l’ultima visita a Casablanca. “Vieni vieni – fece Marisa guardando se alle sue spalle c’era qualche vicino che potesse fare la spia – Ci sono Fefè e Totò con le loro mogli ed anche la mia nuova collega Annalisa. Te ne ho parlato no? Ti ricordi? quella che stava nel dipartimento di Siracusa e che ha scoperto il marito con l’amante? Poverina, tutti i suoi amici sapevano ma nessuno le ha mai detto niente. Si è fatta trasferire per non vederli più. Ora è qui sola. Potresti invitarla qualche sera ad uscire, tu sei l’unico non sposato della compagnia….��� Il Dottor G. capì allora il motivo di quella cena improvvisa a metà settimana. Era solo un modo di metterlo nelle condizioni di invitare ad uscire la “povera Annalisa….” Lasciò perdere. Marisa era solita a questo voler sempre tutti felici e contenti, in fondo però tutti le volevano bene proprio per queste sue attenzioni. Arrivò che tutti erano già a tavola seduti. Marisa lo fece accomodare accanto ad una signora con un paio di pantaloni bianchi aderenti e un bolerino dello stesso colore. Aveva i capelli neri e mossi, un volto regolare e un paio di occhiali i cui vetri dovevano essere spessi alcuni centimetri e distorcevano il taglio a mandorla dei suoi occhi di un intenso color nocciola. “La solita fregatura.” Pensò il Dottor G.  Si scusò amabilmente per il ritardo e dopo che si presentò ad Annalisa, tutti incominciarono a mangiare parlando delle solite facezie. Al suo solito Totò incominciò a parlare di poesia per fare colpo su Annalisa. Totò aveva uno zio professore di greco e latino al liceo La Farina che aveva pubblicato un certo numero di libri di poesie il cui unico merito era non aver riscosso alcun successo di pubblico e di critica. Grazie a questa parentela Totò si sentiva motivato ad essere considerato un critico letterario ed in particolare un esperto di poesia. Incominciò a lamentarsi che tra i temi di esami delle superiori non veniva mai dedicato un titolo a Quasimodo, di cui si involò in lunghi ed inutili elogi. Poi, con tono da saputo, chiese benevolmente ad Annalisa cosa ne pensasse dell’esimio Premio Nobel siciliano. “Non lo so – rispose lei dopo aver ingoiato un boccone – mi piace molto Pavese. Forse più di Quasimodo, anche se devo riconosce che quest’ultimo meriterebbe di essere riscoperto” “Pavese … ? – fece scandalizzato Totò guardando con sorpresa gli altri invitati e scambiando con Fefè un occhiata di orrore per quanto aveva sentito  – ma Annalisa, Pavese è un autore che scriveva racconti in versi, senza neanche una metrica, e tu sai bene quanto la metrica costituisca l’ossatura di ogni vera poesia” Si guardò intorno ancora una volta per condividere la sua affermazione senza nascondere l’ironia con cui aveva finito la frase. Al Dottor G. queste discussioni poetiche, per dirla educatamente, scassavano la minchia, perché ogni volta gli sembrava che si parlasse del sesso degli angeli! Si concentrò quindi sul suo piatto, lasciando la povera occhialuta Annalisa in balia di Totò. Lei non fece una piega. Finì un altro boccone e pulendosi le labbra con un tovagliolo immacolato chiese “Di sicuro conosci i giardini di Marzo di Battisti?” “Certo è una canzone molto bella, ma che centra?” “Se è una canzone, deve avere anche una metrica” “Sicuramente, deve rispettare i tempi della musica mentre nella poesia bisogna rispettare i tempi degli accenti” “Infatti – concluse Annalisa prendendo un bicchiere per bere – forse non vi hai mai fatto caso, ma la metrica dei versi di Pavese, rispetta esattamente la metrica dei Giardini di Marzo. Hanno gli stessi accenti dopo lo stesso numero di sillabe. Come vedi se in una c’è la metrica anche nell’altra vi deve essere per forza. Pavese stesso scrive di questa sua metrica di cui, aggiungeva, si vergognava un pochino per la sua semplicità. A volte si guarda l’apparenza delle cose senza comprenderne la sostanza e tu caro Totò, senza offesa, forse non ti sei soffermato abbastanza su Pavese” Vi fu un attimo di silenzio in cui Totò stava annaspando per trovare una risposta e gli altri gongolavano per la malafigura che aveva fatto. Il Dottor G. pensò di intervenire per alleggerire l’imbarazzante gelo che era sceso a tavola. “Devi perdonare Totò Annalisa, la sua è la cecità che nasce dall’amore: ama talmente tanto Quasimodo che non riesce a vedere o giudicare altro” Lei si voltò come se lo vedesse per la prima volta. “Oh amore: quanto delitti si commettono in tuo nome! sai chi lo ha detto?” gli chiese maliziosa Annalisa bevendo un altro sorso e guardandolo con aria di sfida attraverso gli spessi occhiali “Shakespeare … “ rispose fulmineo Fefè Il Dottor G sorrise “No Fefè, era una frase di Madam Roland che Annalisa ha cambiato mettendo la parola amore al posto di libertà” “Giusto - rispose lei – finalmente qualcuno che sa di cosa si parla” e lo guardò come se d’improvviso in quel tavolo di folli, avesse trovato finalmente l’unico savio. Alle parole di Annalisa, seguì un breve ma intenso gelido silenzio “Avete saputo che la moglie di Salvo ha il Covid…?” Marisa intervenne da brava padrona di casa capendo che la discussione stava andando verso acque basse e pericolose. Tutti mostrarono la loro sorpresa alla sua affermazione e la discussione si involò nuovamente verso dotte critiche al sindaco, alla regione e al capo del governo. Più tardi la cena finì e mentre Totò e Fefè litigavano con il marito di Marisa per questione di calcio, il Dottor G. aiutava Marisa a levare i piatti e lei, ne approfitto subito “hai fatto un gran colpo su Annalisa indovinando la signora Roland. Approfittane, invitala fuori a cena” “Ma no … - iniziò lui, cercando argomenti per defilarsi - è rimasta troppo bruciata dalla sua esperienza. Hai visto come salta con le unghie agli occhi di tutti i maschietti?” e si voltò a guardarla mentre si alzava. Vide il suo corpo distendersi e gli apparve più alta di quanto pensava, con una figura degna di una  modella, appena appena arrotondato da qualche chilo in più. Lei prese l’immancabile bicchiere e lentamente andò verso un albero di arance del giardino per sentire il profumo dei frutti ancora appesi ai rami. La vide muoversi al rallentatore, flessuosa e armonica più di una gazzella, con il suo di dietro tondo di cui lui, sotto i pantaloni, poteva vedere i muscoli contrarsi e allungarsi dando a quelle due briosce perfette che aveva, un movimento sensuale e seducente. Il Dottor G. sentì bruciargli qualcosa dentro e scendergli lentamente fino infuocare i suoi attributi maschili. Quello non era un semplice lato B! Neanche quello della Venere Italica e delle tre Grazie del Canova si avvicinavano minimamente nella forma a quanto vedeva. La stessa millenaria bellezza del fondoschiena della Venere di Callipigia (di cui aveva il poster attaccato nello studio a casa) era paragonabile al lato nascosto di Annalisa! Nessun grande artista aveva mai raggiunto l’equilibrio e l’armonia di un lato B così perfetto. Quello di Annalisa era l’Inno alla Gioia di tutti i lati B, era la perfezione e l’idealità dei lati B di tutto il mondo. Sentì un forte calore alle mani che avrebbero voluto impastare come pane lievitato quella perfezione di posteriore e nello stesso tempo gli venne l’acquolina in bocca come quando un lupo vede un cosciotto d’agnello da mordere. “Scusami” disse improvvisamente a Marisa e partì come una silurante dritto verso il bianco veliero da colpire. Quando si avvicinò lei si voltò a guardarlo stupita di vederlo arrivare velocemente “Volevo chiederti ancora scusa per Totò – esordì il Dottor G.  – sai, si reputa un grande critico letterario ma a scuola i temi glieli passava sempre un altro “Immagino che eri tu “, notò lei sorniona “Si, anche. Per farci perdonare vorrei invitarti fuori a cena “ “Ti ha detto Marisa di invitarmi, non è vero? Mi pensa triste ed infelice, mentre per la prima volta nella mia vita sono serena” “Marisa è un po’ la chioccia di tutti noi e vuole sempre proteggerci e vederci felici: non è peccato voler far del bene. In realtà c’è un altro paio di motivi per invitarti. – si voltò verso gli amici seduti ai tavoli – li vedi? sono tutti soli, come noi due. Riempiono la loro solitudine di parole altisonanti e relazioni importanti. Ma sono soli. Quando tornano a casa però, uniscono la loro solitudine con quella di un altro e con la solita quotidianità, evitano di pensare al nulla sul bordo del quale camminano. Noi due no. Quando torneremo a casa questa sera saremo ancora soli. Per questo la mia solitudine chiede alla tua di trovarci ed insieme di riempire il vuoto che c’è intorno a noi. Quello che ha ucciso Pavese e immalinconiva Quasimodo. Quella che ti fa sempre riempire e svuotare bicchieri” “È triste mettersi assieme solo per solitudine” rispose Annalisa che con noncuranza appoggiò il bicchiere pieno a metà su un muretto. “Non c’è un motivo buono ed uno cattivo per mettersi insieme. Quando accade è perché non può essere altrimenti, per solitudine, necessità, noia e tutto quello che può giustificare il trovarsi e non lasciarsi per un camino insieme, breve o lungo che sia” “Sentiamo qualche altro motivo” Aggiunse lei senza commentare “Ecco vedi, per spiegartelo devo partire dalla constatazione che noi uomini siamo schiavi della libidine, tutti fortemente e sensualmente presi da una incontrollabile carnalità …” “ Vuoi dire che siete dei “Porci”? questo lo so già da tempo” “ … ma devo aggiungere che l’essere …. Porci (uso per comodità la tua definizione) coinvolge tutto il genere umano…, non solo gli uomini. Prendi Totò e sua moglie. Lui ogni sabato mattina va a correre, ma finisce la corsa in una casa al porto da una certa signora con cui fa tutto quello che non farebbe mai con sua moglie. Tutte cose celebrali, da film erotico di bassa lega che lui pensa per tutta la settimana e soddisfa in cinque minuti, solo per iniziare il lunedì seguente con altre fantasie. Per lui il sesso può essere solo una cosa sporca e volgare…” “mi ricorda qualcuno di mia conoscenza.” “ però sua moglie, di tanto in tanto, una corsa se la fa anche lei, solo per togliersi quel prurito sessuale fatto di passione e romanticismo che Totò, ormai abituato all’amore mercenario, non sa più darle. Ognuno dei due ha la sua visione del sesso che è parallela e che mai incrocia quella dell’ altro. Loro di questo non sono felici. In una coppia la felicità è vivere insieme le proprie fantasie, condividere il modo in cui si vive la propria libido e loro che per vari motivi non vi riescono; hanno bisogno di un aiutino esterno…” “ Ah, adesso si chiama aiutino” “ Si chiama come si vuol chiamare, ma fa parte sempre della solitudine che ti dicevo prima. Anzi, ne è l’effetto più importante: il perdersi rincorrendo fantasie interiori che esistono solo nel proprio vuoto e che alla fine bisogna soddisfare in qualche modo” “E tu ,quale “fantasia” vorresti invece realizzare con l’invito?” “Quella di poter essere vicino ad una delle opere d’arte più belle che abbia mai visto…” “Parli di me?” chiese lei incredula. “Certo, tu! ma più in particolare il tuo di dietro” Lei lo guardò stupita e poi incominciò a ridere. Fefè, Totò e il marito di Marisa si fermarono nel discutere per osservare la risata allegra e franca di Annalisa. Il Dottor G si girò verso di loro e schiacciando l’occhio fece capire che era tutto sotto controllo. “Scusami – fece Annalisa appena poté parlare – hanno sempre detto tante cose di me, ma questa che il mio di dietro fosse un capolavoro mi mancava” Lui prese il bicchiere che lei aveva lasciato e bevendone un sorso continuò “Perché noi uomini siamo ipocriti e spesso superficiali. Guardati intorno. Il di dietro di Marisa è quadrato, tutt’uno con i suoi fianchi, segno evidente del suo rango di matrona. La moglie di Fefè ha uno di quei di dietro a balconcino per via di tutti gli arancini che si mangia, e la moglie di totò lo ha abbassato, un di dietro rassegnato a forma trapezoidale di chi ormai non importa nulla del suo corpo, vinta dalla vita e dal vuoto in cui si trova. Il tuo è perfetto, tondo, tonico, con una forma tanto precisa che neanche un maestro liutaio potrebbe disegnare curve più perfette. Probabilmente è sodo e delicato nello stesso tempo. Sicuramente cammini o nuoti molto e fai una dieta senza grassi od olio di Palma. L’unico simile al tuo l’ho visto dieci anni fa a Taormina, era quello di Monica Bellucci: impareggiabile! Un tramonto lo guardi, un quadro lo ammiri, ma un di dietro come il tuo è la madre di tutte le emozioni, un campo di fiori a primavera, una foresta in autunno, è un mare in tempesta: è una forza della natura come un vulcano o una intensa nevicata! Non posso perdere questa occasione e ignorarlo” Lei sorrise. Gli prese di mano il bicchiere e bevve un sorso. “E cosa vorresti fare a questa forza della natura? “ “Tutto quello che gli farebbe piacere: dargli grosse manate, leccarlo, morderlo, palparlo, violarlo, accarezzarlo con una piuma, coprirlo di miele… Tutto quello che farebbe sfogare le inquietudini sessuali che hai, quei pruriti sensuali che ogni tanto attraversano i tuoi sogni o i tuoi dormiveglia. Tutto quello che ti faccia sentire viva e ti faccia dimenticare tutto il passato per vivere solo il presente, perché ogni minuto valga una vita” Lei lo guardò con le labbra sul bordo del bicchiere ormai vuoto e non distoglieva i suoi occhi da quelli del Dottor G che fissava con intensità. Si mise a ridere, poi appoggiò di nuovo sul muretto il bicchiere “Sabato pomeriggio. Alle 18:30. Uscirò dalla chiesa di Milazzo dove c’è il crocifisso di Fra Umile da Petralia. C’è una visita guidata a cui parteciperò. Spero tu sappia dov’ è?” Lui capì che lei dentro aveva ancora un rancore e un’ostilità che la portava a considerare chi le parlava come uno scolaretto da istruire rudemente. La cosa gli piaceva; pensava che era meglio lottare con una tigre feroce  che inseguire a caso in un prato  un morbido coniglio. “Certo – rispose pronto lui - è nella chiesa di San Papino Martire. Ti aspetterò in fondo alla chiesa, così potrò contemplare due capolavori nello stesso momento - e abbassando la voce simulando già una inattesa intimità aggiunse – amo già una tua parte, sarò capace di amare allo stesso modo ogni tua parte se me ne darai il tempo e mi insegnerai a farlo … ” Lei sorrise, guardandolo fisso negli occhi. “Sarò una maestra esigente” e prendendolo sotto braccio, si incamminarono sorridendo verso il gruppo di amici che avevano incominciato a giocare a sette e mezzo. Inutile dire che ultimamente il Dottor G ha smesso di divorare briosce.
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