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#Io Don Giovanni 2009
forest-enchantress · 5 months
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Lorenzo Balducci in Io, Don Giovanni
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Here is a #410 gifs of Lorenzo Balducci in Io, Don Giovanni. All of these gifs were made by me from scratch, so do not redistribute or claim them as your own. If using, please give this a like and reblog!
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agrpress-blog · 6 months
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Tre anni fa, il 2 novembre 2020, moriva (nel giorno del suo ottantesimo compleanno) il grande attore, cabarettista, doppiatore, conduttore e regista, interprete di film quali La mortadella di Mario Monicelli, La Tosca di Luigi Magni, L’eredità Ferramonti di Mauro Bolognini, Febbre da cavallo di Steno, Casotto di Sergio Citti, Un matrimonio di Robert Altman ed altri. Nato a Roma nel 1940, grandissimo attore di teatro, dove spazia dai monologhi alle commedie musicali, incontra un grande successo in televisione, riproponendo sul piccolo schermo i suoi spettacoli più riusciti. Fin da ragazzo suona vari strumenti (chitarra, pianoforte, fisarmonica, contrabbasso) e canta nelle feste studentesche e nei bar all’aperto. Si iscrive al Centro Teatro Ateneo, in cui insegnano attori quali Giancarlo Sbragia e Arnoldo Foà, e in seguito frequenta il corso di mimica di Giancarlo Cobelli, che nota le sue qualità e lo scrittura per un suo spettacolo d’avanguardia, Can Can degli Italiani (1963), che segnerà il debutto teatrale del giovane Proietti. Negli anni successivi lo troviamo in ruoli secondari con vari gruppi teatrali: in Il mercante di Venezia (1966) di Ettore Giannini, e, con il Gruppo Sperimentale 101 Le mammelle di Tiresia (1968) di Guillaume Apollinaire; Nella giungla delle città (1968) di Bertolt Brecht, Coriolano (1969) di William Shakespeare, Il dio Kurt (1969) di Alberto Moravia, e altre opere, fino al primo grande successo, quando viene inaspettatamente chiamato a sostituire Domenico Modugno nella commedia musicale di Garinei e Giovannini Alleluja brava gente. A seguire il dramma di Sam Benelli La cena delle beffe (1974), con Carmelo Bene; nel ’76 A me gli occhi, please, considerata una fra le sue prove teatrali più riuscite, e che sarà riportata in scena con grande successo nel ’93, ’96 e, nel 2000, al Teatro Olimpico. Nel ’78, con Sandro Merli, diventa direttore artistico del Teatro Brancaccio di Roma, dove crea un suo Laboratorio di Esercitazioni Sceniche per i giovani attori che rappresenterà un vero trampolino per volti noti dello spettacolo (Flavio Insinna, Enrico Brignano, Giorgio Tirabassi, Francesca Reggiani e molti altri). Segue una serie di performances, fra cui Il bugiardo di Carlo Goldoni (1980, regia di Ugo Gregoretti), Edipo re di Sofocle (1981, regia di Vittorio Gassman), I sette re di Roma di Luigi Magni (1989, regia di Pietro Garinei), e altre per le quali, oltre a recitare, cura anche la regia, come Caro Petrolini (1979), Cyrano de Bergerac (1985), Liolà di Luigi Pirandello (1988), Guardami negli occhi (1989) e La pulce nell’orecchio (1991) di Georges Feydeau, Socrate (2000, adattamento di Vincenzo Cerami dai Dialoghi di Platone), Full Monty (2001, versione teatrale del film omonimo del ’97), Io, Toto e gli altri (2002, ripreso quattro anni dopo), e molti altri. A partire dagli anni Ottanta ha diretto anche alcune opere liriche: Tosca di Giacomo Puccini nel 1983, Don Pasquale di Gaetano Donizetti nel 1985, Falstaff e Nabucco di Giuseppe Verdi (rispettivamente nel 1985 e nel 2009), Le nozze di Figaro e Don Giovanni (nel 1986 e nel 2002) di Wolfgang Amadeus Mozart, Carmen di Georges Bizet nel 2010. Istrionico, grande improvvisatore, dotato di un’ottima voce e molto audace negli sperimentalismi, al cinema lo ricordiamo nel ruolo del fidanzato di Sophia Loren nel farsesco La mortadella (1971) di Mario Monicelli, ironico protagonista del musicale Tosca (1973) di Luigi Magni, in cui recita con Monica Vitti, interprete del giovane Pippo nel calligrafico L’eredità Ferramonti (1976) di Mauro Bolognini, stallone da quattro soldi nel cinico Casotto (1977) di Sergio Citti, fanfarone nel satirico Un matrimonio (1978) di Robert Altman, in cui recita con Vittorio Gassman. A partire dalla fine degli anni Ottanta dirada notevolmente le sue apparizioni cinematografiche per proseguire l’attività teatrale e quella televisiva, dove ottiene grande successo con le serie Il Maresciallo Rocca (1996-2004) e L’avvocato Porta (1997-98).
Fra gli altri film ricordiamo Se permettete parliamo di donne (1964) di Ettore Scola, Le piacevoli notti (1966) di Armando Crispino e Luciano Lucignani, La ragazza del bersagliere (1967) di Alessandro Blasetti, Lo scatenato (1967) di Franco Indovina, La matriarca (1968) di Pasquale Festa Campanile, Una ragazza piuttosto complicata (1969) di Damiano Damiani, La virtù sdraiata (1969) di Sidney Lumet, tratto dal libro omonimo di Antonio Leonviola ed interpretato da Anouk Aimée, Omar Sharif, Didi Perego, Fausto Tozzi e Lotte Lenya (la grande attrice di teatro austriaca, vedova del musicista e compositore Kurt Weill ed interprete di Jenny nella prima rappresentazione di L’opera da tre soldi – 1929 – di Bertolt Brecht), Brancaleone alle crociate (1970) di Mario Monicelli, Bubù (1971) di Mauro Bolognini, Gli ordini sono ordini (1972) di Franco Giraldi, Meo Patacca (1972) di Marcello Ciorciolini, La proprietà non è più un furto (1973) di Elio Petri, con Flavio Bucci, Daria Nicolodi, Ugo Tognazzi e Salvo Randone, Le farò da padre (1974) di Alberto Lattuada, Musica per la libertà (1975) di Luigi Perelli, Bordella (1976) di Pupi Avati, Chi dice donna dice donna (1976) di Tonino Cervi, Febbre da cavallo (1976) e Mi faccia causa (1985) di Steno, Qualcuno sta uccidendo i più grandi cuochi d’Europa (1978) di Ted Kotcheff (il futuro regista di Rambo), Due pezzi di pane (1979) di Sergio Citti, Non ti conosco più amore (1980) di Sergio Corbucci, Di padre in figlio (1982) di Vittorio Gassman, FF. SS.” – Cioè: “che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene? (1983) di Renzo Arbore, Eloise, la figlia di D’Artagnan (1994) di Bertrand Tavernier, Panni sporchi (1998) di Mario Monicelli, Tutti al mare (2011) di Matteo Cerami, Indovina chi viene a Natale? (2013) di Fausto Brizzi, Alberto il grande (2014) di Carlo e Luca Verdone, Il premio (2017) di Alessandro Gassman, Pinocchio (2019) di Matteo Garrone. Ha doppiato attori quali Marlon Brando - in Riflessi in un occhio d’oro (1967) di John Huston, Richard Burton - Chi ha paura di Virginia Woolf? (1966) di Mike Nichols -, Alex Cord - I cinque disperati duri a morire (1970) di Gordon Flemyng - , Kevin Costner - Attraverso i miei occhi (2019) di Simon Curtis - , Robert De Niro - Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all’inferno (1972) di Martin Scorsese, Gli ultimi fuochi (1976) di Elia Kazan, Casinò (19959 di M. Scorsese - , Ray Danton - Agente speciale L.K. Operazione Re Mida (1967) di Jesus Franco - , Kirk Douglas - Uomini e cobra (1970) di Joseph L. Mankiewicz -, Henry Fonda - L’ora della furia (1968) di Vincent McEveety -, Richard Harris - Camelot (1967) di Joshua Logan, Un uomo chiamato cavallo (1970) di Elliott Silverstein -, Charlton Heston - 23 pugnali per Cesare (1970) di Stuart Burge, Hamlet (1996) di Kenneth Branagh -, Dustin Hoffman - Lenny (1974) di Bob Fosse -, Anthony Hopkins - Hitchcock (2012) di Sacha Gervasi -, Rock Hudson - I due invincibili (1969) di Andrew V. McLagen -, Dean Jones - Tutti i mercoledì (1966) di Robert Ellis Miller -, Paul Newman - Buffalo Bill e gli indiani (1976) di Robert Altman - , Michael Pate - Il ritorno del pistolero (1966) di James Neilsen -, Gregory Peck - La notte dell’agguato (1969) di Robert Mulligan -, Michel Piccoli - Diabolik (1968) di Mario Bava -, Jean Reno - I visitatori (1993) di Jean-Marie Poiré -, George Segal - Gioco senza fine -, Dick Shawn - Per favore, non toccate le vecchiette (1967) di Mel Brooks - , Robert Stack - Il più grande colpo del secolo (1967) di Jean Delannoy -, Sylvester Stallone - Rocky (1976) di John G. Avildsen, F.I.S.T. (1978) di Norman Jewison -, Benito Stefanelli - I giorni dell’ira (1967) di Tonino Valerii -, Donald Sutherland - Il Casanova di Federico Fellini (1976) di Federico Fellini. A teatro, a partire dagli anni Sessanta, recita in decine di pièces e, dal decennio successivo, dirige varie opere ed opere liriche. In televisione appare anche in vari film tv - La maschera e il volto
(1965) di Flaminio Bollini, La fantastica storia di Don Chisciotte della Mancha (1970) di Carlo Quartucci, Romanzo popolare italiano (1975) e Viaggio a Goldonia (1982) di Ugo Gregoretti, Fregoli (1981) di Paolo Cavara, Gli innocenti vanno all’estero (1983) di Luciano Salce, La bella Otero (1984) di José Maria Sanchez, Io a modo mio (1985) di Eros Macchi, Sogni e bisogni (1987) di Sergio Citti, Un figlio a metà (1992) e Un figlio a metà - Un anno dopo (1994) di Giorgio Capitani, Mai storie d’amore in cucina (2004) di G. Capitani e Fabio Jephcott, Il veterinario (2004) di J. M. Sanchez - ed in sceneggiati, serie e miniserie - I grandi camaleonti (1964) di Edmo Fenoglio, Il circolo Pickwick (19669 e Le tigri di Mompracem (1974) di Ugo Gregoretti, Il viaggio di Astolfo (1972) di Vito Molinari, Facciaffittasi (1987), Italian Restaurant (1994), Il signore della truffa (2011) di Luis Prieto, L’ultimo papa re (2013) di Luca Manfredi, Una pallottola nel cuore (2014-18). Nel 2018-19 ha partecipato a due puntate del programma documentaristico Ulisse - Il piacere della scoperta di Piero e Alberto Angela, e ad una puntata di Meraviglie - La penisola dei tesori di A. Angela.
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retelabuso · 1 year
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“Io abusato dal 2009 al 2013, vi racconto la mia storia”
“Io abusato dal 2009 al 2013, vi racconto la mia storia”
Antonio, vorrei che mi raccontassi la tua vicenda personale… “Tutto ha inizio quando ho tra i 14 e i 15 anni. Frequentavo la parrocchia di San Giovanni Battista ad Enna, dove ho preso i sacramenti e mi sono approcciato all’Azione Cattolica. Lì conobbi meglio Don Giuseppe Rugolo (attualmente c’è un processo in corso nella fase di primo grado, nda) che all’epoca era ancora seminarista. Non era un…
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diraimond · 6 years
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Lino Guanciale as Wolfgang Amadeus Mozart - Appreciation Post 
from the film “Io, Don Giovanni” (2009) directed by Carlos Saura 
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Poeti in Campania: intervista a Mario Fresa
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Il poeta campano che andiamo ad intervistare è Mario Fresa (Salerno, 1973). Ha compiuto gli studi classici e musicali e si è laureato in Letteratura italiana. Sue poesie sono state pubblicate su riviste italiane, francesi e internazionali: «Paragone», «Caffè Michelangiolo», «Nuovi Argomenti», «Almanacco dello Specchio», «Recours au Poème», «L’area di Broca», «Gradiva» «Quadernario», «Palazzo Sanvitale», «La clessidra», «Semicerchio», «Portique». È presente in varie antologie, pubblicate sia in Italia sia all'estero, da Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004) alla recente Veintidós poetas para un nuevo milenio, numero monografico della rivista spagnola «Zibaldone. Estudios italianos» (Università di Valencia, 2017). È del 2002 il prosimetro Liaison, con la prefazione di Maurizio Cucchi (edizioni Plectica; Premio Giuseppe Giusti Opera Prima, Terna Premio Internazionale Gatto); seguono, tra le altre pubblicazioni di poesia, il trittico Costellazione urbana (Mondadori, «Almanacco dello Specchio», n. 4, 2008); Luci provvisorie (una triade di poemetti apparsa nel n. 45 di «Nuovi Argomenti», Mondadori, 2009); Uno stupore quieto (Stampa2009, a cura di Maurizio Cucchi, 2012; menzione speciale al Premio Internazionale di Letteratura Città di Como); La tortura per mezzo delle rose (nel sedicesimo volume di «Smerilliana», 2014, con un’analisi critica di Valeria Di Felice); Teoria della seduzione (Accademia di Belle Arti di Urbino, con disegni di Mattia Caruso, 2015); Svenimenti a distanza (prefazione di Eugenio Lucrezi; Il Melangolo, 2018).Tra i suoi libri di saggistica, Il grido del vetraio (Nuova Frontiera, 2005); Le tentazioni di Marsia (Nuova Frontiera, 2006) e La poesia e la carne (La Vita Felice, 2008): tre volumi scritti in collaborazione con il filosofo Tiziano Salari; Come da un’altra riva. Un’interpretazione del Don Juan aux enfers di Baudelaire (Marco Saya, 2014); Le parole viventi. Modelli di ricerca nella poesia italiana contemporanea (La Recherche, 2017); Alfabeto Baudelaire (saggio e scelta di traduzioni, EDB, 2017). Mario Fresa ha dedicato una specifica  attenzione all’attività traslatoria, in particolare nell’ambito poetico, traducendo dal greco moderno (Sarandaris), dal latino classico e medievale (Catullo, Marziale, Seneca, Bernardo di Chiaravalle) e dal francese (Baudelaire, Rimbaud, Musset, Desnos, Apollinaire, Frénaud, Char, Cendrars, Queneau, Duprey). Ha ricevuto, tra gli altri, il Premio Franco Fortini per la saggistica (2011) e, ad honorem, nel 2017, il Premio Internazionale Prata per la critica letteraria. Come ti sei avvicinato alla poesia? Nel periodo dei miei studi musicali, a vent’anni, traducevo i testi dei maggiori liederisti e di alcuni libretti del teatro d’opera (m’interessavano, soprattutto, i principali Singspiele del Sette-Ottocento: quelli scritti da Schikaneder/Giesecke, Kind, Treitschke…); di questi ultimi approntavo anche ingegnose traduzioni isometriche. Continuai a coltivare l’arte della traduzione e passai alla poesia francese dell’Otto-Novecento. Poi, a poco a poco, grazie a questo magnifico, quasi quotidiano contatto a corpo a corpo con la musica e con la poesia, iniziai a scrivere versi in modo autonomo. Nel gennaio del 1999 pubblicai la mia prima poesia, intitolata La sabbia e gli angeli. Era un omaggio a mio padre. Maurizio Cucchi la fece uscire sul settimanale «Specchio della Stampa». C’è stato qualcuno che devi ringraziare per averti dato, che so, dei consigli di come muoverti nel tuo percorso artistico? I consigli più importanti li ho ricevuti dalla lettura e dallo studio diretto dei poeti, in ispecie del secondo Novecento. Che cosa cerchi attraverso la poesia? Qual è il tuo intento? L’ambizione è quella di dare vita, per il tramite di un piccolo inferno linguistico, a uno spazio difficile, impercorribile (diresti: a un buco nero) che conduca a una sorta di interdizione dell’utilitilarismo economicistico della parola. L’intento è quello di creare la proiezione di un abbandono provvisorio che permetta, infine, l’emersione, più oggettiva che soggettiva (e perturbante, più che ricompositiva) di quella dimensione psichica sepolta che il pensiero junghiano definisce ombra. Ma lo scopo è anche un altro; ed è di natura anarchica, perché fondata su di una salutare disobbedienza luciferina che sempre io desidero attribuire alla parola. In tale prospettiva disturbante e ribelle, lo stesso linguaggio impara finalmente a combattere e a corrodere i propri interni e subdoli scopi mercificanti. Così, le nuove immagini proposte, sempre alterate/alteranti, minano la sicurezza reazionaria della comunicazione tradizionale e opportunistica, in modo da offrire un messaggio di trasvalutazione dei valori espressivi “comuni” e di costante opposizione nei riguardi della rassicurante comunicabilità dell’uomo “filisteo” (asservito ai poteri e alle ipocrisie del linguaggio sociale). La tua scrittura segue delle linee o delle correnti culturali specifiche? Lo studio del saggio Totem Art di Wolfgang Robert Paalen mi ha molto influenzato e ispirato. Quali programmi hai in cantiere? Ho finito da pochi mesi (dopo sette anni di lavoro!) di curare un Dizionario della poesia italiana del secondo Novecento (dal 1945 a oggi), la cui pubblicazione è imminente. Sto lavorando anche ad altri quattro o cinque libri che forse, se Arimane vuole, saranno presto pubblicati. Come vivi la cultura, la poesia, nella tua città, nella tua vita? Trovi difficoltà e quali? Ho organizzato, nei tempi passati, molti incontri letterari nella mia città. Adesso sono stufo. Intanto, mancano gli spazi. Qualche anno fa, a Salerno, c’erano decine di librerie. Ora si contano sulle dita di una sola mano. Si moltiplicano i ristoranti, però. Lo sappiamo bene: riempire la pancia è meno faticoso di pensare. Hai mai partecipato a premi letterari? Che opinione hai di essi? Ho molti bei ricordi dei Premi che mi sono stati assegnati. Cito il più caro: nel 2004 ricevetti il Premio Capoverso organizzato da Carlo Cipparrone e dal giovane editore Antonio Alimena. In quell’occasione felice, conobbi il filosofo e poeta Tiziano Salari. Diventammo, a distanza, due “amici stellari”, come dice Nietzsche. Scrivemmo tre libri insieme e fondammo anche una collana editoriale di ispirazione hölderliniana, “Il vulcano e la rosa”. Oggi, con la crisi dell’editoria, pubblicare un volume non è semplice: le grandi case editrici non ti filano se non sei legato politicamente o a risorse economiche, e le piccole ti chiedono contributi economici, spesso esosi. Per non parlare poi della poesia che, seppur prolificante, è rinchiusa in “cripte” elitarie. Hai riscontrato difficoltà editoriali durante il tuo percorso, e se sì, per quali motivi? Non ho mai avuto alcuna difficoltà nel pubblicare. Il prossimo libro di poesie, in uscita quest’anno, è nato in occasione di un invito che mi è stato rivolto da un editor di rara competenza. Certo, la poesia e gli stessi poeti sono rinchiusi in “cripte”, come tu dici. Il termine, tristemente funebre, è opportuno. Se chiedi a una persona di media cultura di citare il nome di un poeta italiano contemporaneo, sta’ sicuro che la risposta sarà il silenzio assoluto. Se dovessi paragonare la tua poesia ad un poeta famoso, a chi la paragoneresti? Quale affinità elettive ci trovi con la tua poesia? Ma no, non è possibile. Mi ripeto continuamente, insieme con Gozzano: «Ed io non voglio più essere io». Però non voglio essere nemmeno un altro al quale paragonarmi. Avere un io è già una piccola sciagura. L’attività dell’avere la lascio ai commercianti. Meglio essere che avere. Meglio ancora non essere che essere. La soddisfazione maggiore – se c’è stata – che hai raccolto nel mondo letterario? Soddisfazioni? Quelle le ho soltanto quando dormo un sonno senza sogni. Cosa pensi dei libri digitali? Possono competere con l’editoria tradizionale, cioè con quella cartacea e perché? I libri digitali? Sono utili. Ma non necessari. Qual è il tuo rapporto con la politica? Prego Arimane o Farfarello o Malacoda che mi facciano stare lontano le mille miglia dal fetore etico ed estetico dei nostri governanti. La realtà politica dei tempi correnti è davvero orrenda. Ma la data di origine del disastro è lontana: mi riferisco al 1861, anno di nascita di quella che si soprannominò, in modo più che giusto, Terza Italia o Italietta. Questa Italia fintamente unita fu consegnata con la massima violenza agli orribili Savoia e, da allora, non si è mai più ripresa; ché la sua catabasi – lo si vede con molta chiarezza – è inarrestabile. Siamo passati, in questi anni, dalla volgarità furfantesca del berlusconismo al suicidio annunciato della sinistra, scesa sempre più in basso. Ora è la volta (ahinoi) dei leghisti, dei fascisti e dei risorgenti supercattolici difensori dei “valori” (?) della famiglia (ah, se avessero letto o riletto con attenzione i Tragici greci, o Sigmund Freud, essi avrebbero capito che la famiglia è il luogo di origine di ogni tragedia!). La cultura e la scuola sono state affossate. I nostri governanti sono anti-estetici, illetterati e del tutto incapaci di distinguere un Goya da un Velázquez, o una sonata di Haydn da una sonata di Scarlatti, o un verso di Foscolo da un verso di Leopardi. Ricordo ancora, con orrore, i disastri grammaticali di quella signora con i capelli rosso semaforo che fu nominata, alcuni anni fa, Ministro della Pubblica Istruzione. Ora questo Ministero è stato affidato a un ex allenatore di una squadra di basket. E io che mi lamentavo di Francesco De Sanctis o di Giovanni Gentile. Come vivi la quotidianità? Lavoro; scrivo; amo; veglio. Per fortuna, dimentico tutto con molta facilità: nomi, volti, situazioni. Ma ciò che è essenziale non lo cancello dalla memoria: posso ricordare decine e decine di versi di Baudelaire o l’intera partitura di un concerto mozartiano, dalla prima all’ultima nota. Lo spirituale è nell’arte, non nella vita. Oltre alla poesia, di cosa ti occupi? Musica, disegno, pittura. Se potessi cambiare lo stato comatoso in cui vive oggi la nostra società, quali sarebbero le tue soluzioni, le proposte? Il coma di cui parli è dovuto a una scelta precisa di suicidio. La società capitalistica ha trasformato gli uomini in consumatori-consumati. La cultura è stata disarmata e trasformata in merce o in un continuo e deprimente spettacolo di evasione e di distrazione. Sono contrario a qualsiasi ipotesi cristiana di salvazione o di redenzione, per me e per gli altri; perciò, non propongo nessuna ipotesi di soluzione. Se l’Italietta ha scelto l’eutanasia, si accomodi pure. Io, per me, ambisco a ritirarmi nel bosco, siccome il protagonista del bellissimo libro di Ernst Jünger, Der Waldgang. Qual è la tua ultima fatica editoriale? Puoi parlarcene brevemente? L’ultimo libro è Svenimenti a distanza, edito da il melangolo nel 2018. Sberleffo al perbenismo logico e rassicurante del linguaggio borghese, calcolatore, ipocrita, cattolico, tradotto nella forma di un incubo ininterrotto, felicemente (e innocentemente) crudele. Read the full article
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Io, Don Giovanni (2009)
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postersdecinema · 5 years
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Io, Don Giovanni
I,E,F, 2009
Carlos Saura
3.5
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tmnotizie · 5 years
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FERMO – Sabato 11 maggio alle ore 18 prende il via la nuova stagione espositiva del TOMAV – Torre di Moresco Centro Arti Visive con Nulla che non sia ovunque, personale di Luca Piovaccari a cura di Milena Becci.
La caratteristica torre eptagonale, sede del TOMAV, ospita dalla fine del 2010, con la direzione artistica di Andrea Giusti, proposte artistiche e culturali che si presentano sui quattro piani della costruzione risalente al XII secolo e ubicata nel centro storico del piccolo borgo marchigiano di Moresco.
Il Centro Arti Visive inaugura sabato 11 maggio la sua nona stagione espositiva accogliendo le opere fotografiche di Luca Piovaccari e presentando un nuovo format dal titolo TAW_TOWERARTWEEKEND che prevede un’unica apertura di due giornate, nel weekend appunto, della mostra. Nulla che non sia ovunque spalancherà quindi le porte della stagione espositiva sabato 11 e domenica 12 maggio con una sorta di flash show in cui, oltre alla visione delle opere, sarà possibile godere della presenza dell’artista che parlerà al e con il pubblico della propria ricerca, costituendo un valore aggiunto fondamentale nella costruzione di una relazione diretta tra i visitatori e l’arte contemporanea.
Luca Piovaccari rintraccia l’eccezionale ed eroico vivere quotidiano nel mito delle cose di tutti giorni inseguendo la poetica dell’insignificante nello sguardo che si posa su ciò che ci sta intorno, dal pezzo di terra al ciuffo d’erba che cresce nell’asfalto. Nulla che non si possa trovare ovunque, scrive Piovaccari, ma anche l’attenzione verso i margini che possono diventare un cosmo.
Ricorda, attraverso lo scatto fotografico, autori come Luigi Di Ruscio, marchigiano di Fermo, a cui idealmente ha pensato per costruire questo suo intervento al TOMAV di Moresco. […] Nulla che io non abbia in un altro/ e che un altro non abbia in me […] scrive il poeta: vincere paure e diffidenze verso l’altro significa trasformare il mondo in un posto migliore e mutare un luogo insignificante in un posto meraviglioso attraverso un semplice scatto diventa magia.
Nulla che non sia ovunque vorrà rappresentare questa visione, questa volontà di convertire il margine in centralità attraverso lavori che riorganizzano lo sguardo, paesaggi interiori su acetati trasparenti e a toni spesso monocromi.
L’esaltazione della poetica della fragilità si esterna nella fotografia in bianco e nero per mezzo di pellicole sovrapposte che hanno il sapore dell’ignoto e si svelano delicate dal primo all’ultimo piano della torre che ospita il Centro Arti Visive ricollegandosi alla natura circostante.
Nulla che non sia ovunque di Luca Piovaccari a cura di Milena Becci inaugura sabato 11 maggio alle ore 18 e sarà visitabile anche domenica 12 maggio dalle ore 18 alle ore 20.
Luca Piovaccari è nato a Cesena nel 1965. Dopo gli studi inizia a muovere i primi passi espositivi nella città di origine paterna Forlì, in un’ esposizione del 1993 a Palazzo Albertini intitolata Forlìarte, una rassegna dedicata ai giovani artisti a cura di Vittoria Coen e Gilberto Pelizzola. La pratica del disegno comincia molto presto a “gareggiare” con la fotografia, attraverso virtuosismi e rimandi visivi, dando luogo a spaesanti viaggi interiori.
Nel pieno degli anni ‘90 Piovaccari lavora già su grandi immagini fotografiche in cui rappresenta volti e paesaggi e spesso su acetati trasparenti e a toni monocromi. In questi anni continua la sua ricerca attraverso uno sguardo che penetra nella solitudine del paesaggio e nella malinconia del quotidiano.
Nel 1997 espone al Premio Trevi Flash Art Museum, alla mostra Aperto Italia, sempre a Trevi, e a Realismo Italiano, Collezioni Nordstern. Alcuni suoi lavori entrano a fare parte della collezione AXA. Sempre nel 1997 espone a Ezra Pound e le Arti, rassegna presentata da V. Scheiwiller al Palazzo Bagatti Valsecchi di Milano e partecipa all’ottava edizione della Biennale del Mediterraneo, Alta marea, per giovani artisti presso lo spazio Adriano Olivetti di Ivrea. Nel 2000 espone all’ Istituto di Cultura Italiana di Berlino per la mostra Formae con presentazione di Maurizio        Cecchetti e Andrea Beolchi.
Nel 2001 prende parte alla   mostra Il nuovo paesaggio in Italia a cura di M. G. Torri, presso lo Spazio Electra di Parigi, e a Sui Generis, al PAC di Milano. Presentato da Sabina Ghinassi prende parte alla mostra 8 artisti, 8 critici, 8 stanze, curata da Dede Auregli e Peter Weiermair, alla Galleria d’Arte Moderna Villa delle Rose di Bologna. Nel 2002 è presente a Outdoor – Italian artists in Germany, a cura di Lorella Scacco, Kunst und Kulturverein, Aschersleben. Nel 2003 partecipa alla grande mostra Alto impatto ambientale a cura di Marinella Paderni ai Chiostri di S. Domenico a Reggio Emilia.
Nel 2004 viene organizzata una personale di sole fotografie a Foto encuentros 2004 nella città spagnola di Murcia, dal titolo Paisajes de los confines. Nel 2005 a Milano partecipa al Premio Cairo presso il Palazzo della Permanente. Prende parte alla XIV Quadriennale d’ Arte ANTEPRIMA al Palazzo della Promotrice a Torino e al 55° Premio Michetti al Museo di Palazzo S. Domenico a Francavilla al Mare. Di seguito è invitato a Più opere al Mar di Ravenna, Le nuove acquisizioni del Museo, a cura di Claudio Spadoni.
Partecipa anche al Premio Maretti alla Galleria d’Arte Moderna nella repubblica di S. Marino e al Premio Lissone a cura di Luigi Cavadini presentato da Claudio Spadoni al Museo d’Arte Contemporanea di Lissone. A Mestre è invitato da Alberto Zanchetta e Lara Facco a OPEN SPACE, al Centro Candiani. Nel 2007 espone ad ALLARMI 3, rassegna curata da Cecilia Antolini, Ivan Quaroni, Alessandro Trabucco e Alberto Zanchetta alla Caserma De Cristoforis di Como. Partecipa alla grande mostra ricognitiva su La nuova figurazione italiana dal titolo To be continued a cura di Chiara Canali, alla Fabbrica Borroni di Bollate (MI).
Nel 2008 è invitato da Valerio Dehò al Premio Termoli. Nel 2009 espone alla Galleria d’Arte Moderna di San Marino dove è presente per la mostra Plenitudini curata da Alberto Zanchetta. Nel 2010 alla Fondazione Pomodoro di Milano partecipa a Still a live, un progetto di Ugo Pastorino e Giuseppe Maraniello. Nel 2011 invitato da Gianluca Marziani presso la Fondazione Rocco Guglielmo, nel Complesso monumentale Del San Giovanni a Catanzaro, partecipa a La costante cosmologica. In occasione della 54° Esposizione d’arte di Venezia è invitato al Padiglione Regionale dell’ Emilia Romagna presso i Chiostri di San Pietro a Reggio Emilia.
Nel 2012 partecipa a Selvatico spore due E bianca, a cura di Massimiliano Fabbri alle Pescherie della Rocca di Lugo. Nel 2015 Close – UP – Il primo piano sulla pittura Italiana è la ricognizione a cura di Gianluca Marziani che lo vede coinvolto nelle bellissime sale storiche di Palazzo Collicola a Spoleto. Presso Casabianca, Zola Predosa di Bologna, partecipa ad un progetto di Gino Giannuizzi: Casabianca – Disseminazioni. Germinal è la mostra collettiva a cui partecipa, un progetto sotto la direzione artistica di Roberta Bertozzi nelle sale del Palazzo Don Baronio di Savignano.
Del 2015 il progetto con l’artista Federico Guerri a cura di Marisa Zattini Fragilitas mortalis per il centenario dalla morte del letterato cesenate Renato Serra, nella casa museo di Cesena, progetto che verrà in seguito ospitato con un’esposizione nel 2016 alla Maison de l’Union Européenne in Lussemburgo. Nel 2017 le personali al palazzo Ducale di Massa, Rivoluzioni, con la presentazione di Alberto Zanchetta, e al Far, Palazzo del Podestà di Rimini, La stagione del disincanto a cura di Giancarlo Papi; poi le collettive Five years alla galleria Montoro 12 a Roma e Mias Mid-career Italian artists alla galleria Giampiero Biasutti di Torino.
Nel 2018 al MAC di Lissone una personale a cura di Alberto Zanchetta intitolata Ascolta il tuo respiro; sempre al MAC partecipa alla mostra Ixion dove vengono esposti i lavori delle nuove acquisizioni del Museo. In Slovenia tiene una personale, Fragile levità, durante il Festival Art Stays e alla galleria Mesta di Ptuj partecipa alla collettiva omaggio al fotografo Stjan Kerbler curata da Dusan Fiser. Partecipa ala terza edizione della Biennale del Disegno di Rimini a cura di Massimo Pulini dal titolo Visibile Invisibile Desiderio e Passione.
A Cesena una bipersonale con Verter Turroni per la rassegna ViePeriferiche negli spazi di Cristallino in Corte Zavattini a cura di Roberta Bertozzi. Ad inizio 2019 partecipa alla collettiva Assonances, curata da Giovanna Sarti, negli spazi dell’Alliance Française a Bologna, evento collaterale di Art City.
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my-claudio-gobbi · 6 years
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di Giorgio Bergamaschi
Il 1869 è una data importante per il turf tedesco: in quell’anno, infatti, veniva disputata la prima edizione del Nastro Azzurro e, sempre nel 1869, il capostipite dei von Oppenheim – dell’importante saga familiare dei banchieri tedeschi che amano l’ippica – fondava il Gestüt Schlenderhan. Come è ormai arcinoto, il Derby si corre all’Horner Moor, nella Hansestadt di Amburgo, da dove si diparte il lungo canale che arriva sino a Brema. Quella del Nastro Azzurro tedesco è una lunga tradizione, che non ha perso nulla del suo fascino, a dispetto del tempo che passa e dei costumi che cambiano.
Anzi, se pensiamo che dopo la guerra i von Oppenheim erano andati a cercare i loro cavalli sequestrati dalle SS e piano piano avevano ricostituito la loro scuderia e allevamento, e che l’erede, il barone Georg von Ullmann – figlio della baronessa Karin – sta proseguendo con forti investimenti sul doppio filone (Schlenderhan in rosso-blu e von Ullmann in giallo-blu) la grande tradizione ippica di famiglia, si comprende come i tedeschi abbiano nel cuore l’ippica sia come fenomeno allevatorio sia come espressione agonistica e perciò di selezione, animando all’inverosimile i convegni delle piste tedesche.
Anche i tedeschi chiamano il Derby Blaue Band (Nastro Azzurro, ndr), ma soprattutto la “Corsa delle corse”, e non è un caso – ma merito di intraprendenza e spessore sociale dei rappresentanti ippici nel tessuto socio-economico tedesco – se i notiziari televisivi nell’arco dell’anno ma soprattutto nella 10 giorni del Derby interrompono le notizie per dare aggiornamenti sul Derby! Che è e resterà la corsa più significativa ed emozionante dell’anno, nel calendario delle corse al galoppo tedesche. Dopotutto, un cavallo da corsa può vincere la Blaue Band solo a 3 anni, dunque una volta sola, e difficilmente va a ripeterla (o ad anticipare il trionfo casalingo), nelle prove paritetiche su piste estere…
Dai #vonOppenheim-vonUllmann ad #AndreasJacobs, da #vonFink agli #Ostermann, #Faust e #Miebach, è passione al servizio del #purosangue
La partecipazione al Derby di Amburgo costa 7.500 €, ma se qualche team non vi avesse provveduto per tempo, la… “riverniciatura” di un soggetto, ovvero l’iscrizione tardiva, comporta un esborso di 65.000 €, dovuti per i “late bookers”.
Nel corso degli anni, mi ha sempre stupito – tralasciando il discorso inglese e francese, come un fantino, un cavallo, il suo allenatore, i suoi proprietari e allevatori, siano guardati con rispetto e amati per i loro colori su tutto il territorio germanico. Come accade per il bremese Andreas Jacobs (Stiftung Gestü Fährhof ma anche Jacobs Caffè, Adecco, Barry Callebaut e Toblerone), oppure per il bavarese Helmuth von Fink (dei banchieri Merk Fink & Co.), titolare del Gestüt Park Wiedingen, che ha realizzato l’allevamento a Solltau a sud di Brema (in un ex allevamento di pappagalli): entrambi, e con loro Manfred Ostermann (Ittlingen) e Bruno Faust, così come Manfred Hellwig (Hőni Hof) e tanti altri, sono è portati in palmo di mano dall’euforico entusiasmo degli appassionati tedeschi… Ma così è per tutti!
Uno dei miti della Germania ippica, Hein Bollow (fantino e poi allenatore di grido), ha sempre ricordato con commozione che “Per un professionista della sella non c’è nulla di paragonabile, dall’ uscire vittorioso dal tappeto erboso del Derby tra le due cavalli bianchi”, ammiccava sorridendo il grande horseman che aveva infranto per primo la barriera delle 1.000 vittorie sia in sella che in veste da allenatore, in anni in cui le corse non erano così numerose come oggi. E ricordavava Bollow:”Io ho vinto la “corsa delle corse”quattro volte: nel 1953 con Allasch, nel 1954 con Kaliber, nel 1956 con Kilometer e nel 1962 con Herero: ed in ognuna di quelle occasioni s’è trattato di un’emozione e di una ridda di sensazioni indescrivibili. Poi, per vincere il Derby da allenatore, avevo dovuto aspettare il 1974, grazie a Marduk”.
Il titolare del Gestüt Wittekindshof, Hans Hugo Miebach, definisce la vittoria nel Derby per un turfista ‘la realizzazione del sogno di un’intera vita’, “e quando nel 2002 il mio Next Desert ha trionfato, la gioia di esserne sia l’allevatore che il proprietario mi aveva letteralmente sconvolto… In senso positivo, ovviamente, perché dietro quel successo sintetizzato dalle grandi capacità di Andreas Schütz al training e dalla genialità di Andrasch Starke in sella, alle spalle c’erano decenni di studio e pratica allevatori”.
La “colonna” #HeinzJentsch collaborava con l’uomo che sussurrava ai cavalli
Certo, personalmente cullo nella memoria quello che per me è stato fra il gigante per eccellenza del turf tedesco (e ricordo per quanti anni è venuto in vacanza a Merano…), ovvero Heinz Jentsch, l’uomo che ha dato un apporto notevole a tante griffes del turf: dallo Schlenderhan al Fährhof, tra l’altro plasmando fior di fantini e su tutti Peter Schiergen. Ricordo quando il Pirata diceva che a Baden Baden non si sarebbe potuto preparare un cavallo per il Derby. Ma ormai, dopo la vittoria di Osorio a Capannelle, era troppo tardi, per ”rinfacciarlo” al Maestro: Jentsch, che aveva inanellato vittorie sulle piste di tutto il mondo, fino ad un certo punto era rimasto a secco sul traguardo del Derby, al punto che l’aveva soprannominato “la corsa più pazza del mondo”. Ma questo signore (somigliante un po’ all’attore Curd Jürgens, lo ricordate?) dal 1969 (Don Giovanni) al 1994 (Laroche) avrebbe vinto ben otto edizioni della classicissima di Amburgo.
Solo un trainer, nella lunga storia del Derby tedesco, ha saputo fare meglio di Heinz Jentsch: George Arnull, con nove vittorie, tutte per le insegne dello Schlenderhan, che di Derby ne ha vinti ben 18, di cui l’ultimo nel 2009 con Wiener Walzer. Fa bene al cuore, parlando anche con la gente comune tedesca, prendere atto che in Germania la storia del Nastro Azzurro non è solo la storia della razza equina più importante, quella dell’allevamento del purosangue tedesco, ma è anche un pezzo di “storia e vita culturale” della Nazione. Nonostante i disastrosi esiti di due guerre mondiali, il Derby è sopravvissuto, e per ben 5 volte era stato costretto a migrare dalla sua prima e naturale sede: passando da Hamburg-Horn nel 1919 a Berlin-Grunewald, e nel 1943 e 1944 a Berlino-Hoppegarten; quindi, nel 1946 a Monaco-Riem e l’anno successivo a Colonia-Weidenpescher Park. Ma Amburgo è la casa naturale di questa gara incomparabile che si disputa sempre ai primi di luglio.
Nelle foto Hein Bollow su Kaliber 1954 ad Amburgo e Heinz Jentsch con Peter Schiergen (a sx).
Ad Amburgo e giù, fino a Brema, quando si parla di Derby si ha quasi la sensazione di parlare di birra… Perché persino la gente che è taciturna diventa loquace, quando si tratta di parlare dei protagonisti del Derby-Meeting di Amburgo, e più di qualche volta ho sentito dire: “Ma lei non lo avverte questo profumo nell’aria? È il profumo del Derby!”. E allora, lasciamoci inebriare.
  #Hamburg-Horn, storia del #Derby e di una passione diventata “fede”, che in #Gearmania ferma anche le Tv. Dal 1869. di Giorgio Bergamaschi Il 1869 è una data importante per il turf tedesco: in quell’anno, infatti, veniva disputata la prima edizione del Nastro Azzurro e, sempre nel 1869, il capostipite dei von Oppenheim - dell’importante saga familiare dei banchieri tedeschi che amano l’ippica - fondava il Gestüt Schlenderhan.
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pangeanews · 6 years
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Chi è David Bentley Hart, l’anarco-monarchico – devoto a Tolkien – che ha tradotto i Vangeli negli Usa? Un pazzo o un ispirato? Con appello agli scrittori nostrani: riprendiamoci la Bibbia
Nel 2010 un tipo dalla barba lunga di nome David Bentley Hart scrive su First Things, seriosa rivista newyorkese, d’impianto ecumenico e di fede neoconservativa, un articolo dall’incipit scoppiettante. “Che io sappia, l’unica cosa che avevano in comune J.R.R. Tolkien e Salvador Dalí – dovrei dire, l’unica cosa significativa e inattesa, oltre a condividere altre cose, più comuni: erano maschi, bipedi, umani, famosi e così via – era che entrambi, almeno in un’occasione, hanno detto di essere attratti simultaneamente dall’anarchia e dalla monarchia. Nel caso di Dalí, probabilmente, si trattava di una sentenza senza senso: al di là di frasi di circostanza del tipo ‘Passami il burro’ oppure ‘Questo ti costa un sacco di soldi’, il pittore preferiva rinunciare alla comunicazione con gli altri. Ma Tolkien, in un suo modo irrequieto, dava voce alle sue più profonde convinzioni riguardo a una forma ideale di società umana”. L’articolo s’intitola Anarcho-Monarchism, cioè ‘anarcomonarchia’, giostra le sue effervescenti ipotesi intorno a una lettera inviata da Tolkien al figlio Christopher, nel 1943 (“Le mie opinioni politiche si fanno sempre più prossime all’Anarchia – filosoficamente intesa, cioè l’abolizione del controllo operato da uomini armati di bombe – o alla Monarchia ‘incostituzionale’. Arresterei chiunque usi la parola Stato…”), proponendo “la libertà dell’illusione” come sale per un mondo politicamente migliore. L’articolo incuriosì molti: nel 2010 eravamo all’alba dell’‘era Obama’ e un tizio che aveva appena fatto fortuna con un saggio, Atheist Delusions (2009), in cui dichiarava che l’origine dei mali del mondo inizia con la separazione della Chiesa dallo Stato, diceva una cosa anticonformista. Più che un Presidente degli Stati Uniti con il pollice premuto sulla bomba atomica e con il sorriso buonista sparato in telecamera, gli esseri umani hanno bisogno di un re. Un re che permetta agli uomini di fare ciò che vogliono, per realizzare i propri talenti. Insomma, un re illuminato. Lasciamo perdere gli esiti teorici – siamo sul red carpet dell’astratto – ciò che c’interessa, ora, è ammirare la ‘carriera’ del barbuto David Bentley Hart. Insegnante alla University of Notre Dame, David si professa cristiano ortodosso e teologo, ha studiato Massimo il Confessore, il massimo pensatore bizantino vissuto nel VII secolo, per, dice lui, “correggere la storia dell’Essere compilata da Martin Heidegger”. Insomma, David è un tipo dalle ambizioni celestiali. Dopo un cursus honorum costellato da saggi di divulgazione religiosa – ha funzionato bene The Experience of God, 2013, un assalto al nichilismo contemporaneo e al liberalismo capitalista – David porta a termine, sul finire del 2017, l’opera somma. La traduzione del Nuovo Testamento. Ammantato da una marmellatina di umiltà – “redigere una nuova traduzione del Nuovo Testamento è probabilmente una avventura folle” – del tomo, The New Testament. A Translation, edito dalla Yale University Press (pp.616, $ 35.00), a suo modo epocale, hanno parlato in molti, e con facile gioco: c’è chi dice che mastro David sia un genio e chi che sia ispirato soltanto dal proprio ego, un volumetrico saccente. Intenzione del “Vangelo secondo David Bentley” – così un articolo suggestivo e favorevole, qui – è quello di svecchiare la lingua biblica, incrostata da “troppi magisteri, scuole critiche, fazioni teologiche e singoli individui colti da idiosincrasia spirituale” e di far risuonare “l’urgenza, la violenza del detto evangelico”, un dettato che non è frutto “di intellettuali o di storici, ma di uomini comuni”. Insomma, mastro David vuol farci percepire il suono ‘croccante’ e rustico della parola di Dio, la spoglia della glassa retorica per ridurla all’essenza, necessaria – direbbe Harold Bloom – perché superbamente narrativa, bella prima che buona&giusta. Gli esempi divertenti sono un mare. Nel capitolo 4 del Vangelo di Matteo, quello della tentazione nel deserto, il diavolo (diábolo alla latina) è reso come Slanderer che sta per il ‘calunniatore’, il ‘diffamatore’, colui che vuole scandalizzarti davanti al tribunale divino. Chi ha voglia faccia il proprio gioco. A me importa un punto. Pur ospitando il Papa in terra nostra, italica, nel recinto Vaticano, ci siamo fatti fottere i Vangeli. Negli States c’è ancora chi, con acume multiplo, riesce a impossessarsi ancora del verbo evangelico, slacciato da ogni intento di mera performance propagandistica. Mettiamoci sotto anche noi. L’esempio, per altro, c’è. Settant’anni fa, era il 1947, l’editore Neri Pozza stampa una delle imprese letterarie più sconvolgenti – e dimenticate – dello stinto panorama letterario italico. Pubblica Il Vangelo assegnando la prosa degli evangelisti a quattro scrittori: Nicola Lisi (Matteo), Corrado Alvaro (Marco), Diego Valeri (Luca), Massimo Bontempelli (Giovanni). Già che c’è, Bontempelli completa il cerchio giovanneo traducendo l’Apocalisse. Il testo è introdotto da don Giuseppe De Luca, fondatore delle Edizioni di Storia e Letteratura, fine letterato e ottiene, nel 1958, l’imprimatur di Giuseppe Angelo Roncalli, allora patriarca a Venezia, tre settimane prima di diventare papa Giovanni XXIII. Perché non ricostituire una ‘squadra’ simile, senza abbandonare la Bibbia agli sbuffi gnostici – per quanto fascinosi – di Guido Ceronetti o alle moine rusticane di Erri De Luca, troppo parziali per essere davvero appetitose? Appello per il nuovo anno agli scrittori e ai poeti di buona volontà: ci mettiamo a ri-tradurre la Bibbia da par nostro, con la violenza dei senzadio, con l’umiltà dei benedetti dal linguaggio? Fate un fischio.
Federico Scardanelli
L'articolo Chi è David Bentley Hart, l’anarco-monarchico – devoto a Tolkien – che ha tradotto i Vangeli negli Usa? Un pazzo o un ispirato? Con appello agli scrittori nostrani: riprendiamoci la Bibbia proviene da Pangea.
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forest-enchantress · 5 months
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forest-enchantress · 5 months
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forest-enchantress · 5 months
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forest-enchantress · 5 months
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forest-enchantress · 5 months
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forest-enchantress · 5 months
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