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“I know that I care more to be loved. I want to be loved.” Little Women ~ Greta Gerwig (2019)
Al settimo riadattamento televisivo/cinematografico di uno stesso libro (1918, 1933, 1949, 1955, 1994, 2017, 2019, senza contare i due film anime nipponici prodotti negli anni ‘80) uno potrebbe anche dire basta. E invece no. Greta “disagio giovanile” Gerwig, al suo solo secondo tentativo come regista adulta, riesce a cavalcare e domare il mostro sacro di Piccole Donne con mirabile maestria, risultato ancora più notevole se si pensa agli innumerevoli sudari di buonismo e sentimentalismo americano che da sempre avvolgono l’opera e le sue trasposizioni. Spezzando la narrazione su due diverse storyline (presente e passato, età adulta e infanzia, assenza e presenza) la Gerwig riesce a rinvigorire la narrazione del film quasi senza toccarne la trama. Le protagoniste della storia ci sono sempre presentate nella loro tensione auto-costruttiva, mai statiche, mai ferme, mai solo qui-ed-ora ma sempre anche là-e-altrove, in un altrove temporale che disorienta lo spettatore quel tanto che basta da fargli desiderare di trovare il punto di giuntura. E anche quando esso arriva (spoiler: Beth muore) esso non rappresenta una fine, sipario, pubblico in lacrime, ma piuttosto la linfa per un nuovo inizio (indimenticabile la scena in spiaggia, tra Jo e Beth: «scrivi qualcosa per me»). Menzione d’eccellenza va al cast: Saoirse Ronan non sa nemmeno lei come si pronuncia il suo nome, ma è superba nel rendere alla perfezione la contraddizione di spigoli e morbidezze del carattere di Jo March; Timotino Chalamet si scontra ed esce vincitore dal difficile compito di non interpretare (solo) l’adolescente difficile e incarna con successo tutta la passione di un giovane innamorato e disperato; Emma Watson… Emma Watson fa quel che può, con le sei espressioni facciali che è in grado di produrre. Straordinario è sicuramente il comparto visivo. A parte la sottolineatura cromatica delle diverse storyline, che per una volta non offende la retina con filtri improbabili, magistrale nella fotografia è la capacità di costruire inquadrature corali, fitte di personaggi, ma calibrate con una perfezione tale di volumi e colori da sembrare quadri rinascimentali (e un inchino in particolare alla costumista Jacqueline Durran, sacrosantamente da Oscar). Infine, degno di plauso è anche lo sforzo della regista e di tutte le protagoniste nel voler fare una narrazione al femminile, un’ode all’empowerment della donna e al fiero spirito d’indipendenza della pulzella americana. Degno di plauso, certo, ma anche – come si suol dire – “che ci crede un po’ troppo”. Stride, infatti, sentire Jo fare uno dei più bei monologhi femministi degli ultimi anni, per poi ripetere a pappagallo la melensa frase d’amore di Louisa May Alcott (“Le mie mani sono vuote” / “Ora non più”) e proseguire con uno stereotipato amoreggiare sotto la pioggia. La Gerwig lo sa, e si inventa il gioco della doppia fine, mischiando la Jo protagonista alla Jo scrittrice, e forse anche la Greta regista alla Louisa scrittrice, moltiplicando i possibili finali in una matrioska di possibili interpretazioni – il finale del film, che è solo il finale del libro di Jo, che può essere o non essere il finale della protagonista, finalmente emancipata dal destino che il diciannovesimo secolo ha voluto per lei.
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“You don’t wanna do this! I’m adorable!” Pokémon: Detective Pikachu ~ Rob Letterman (2019)
Ebbene. Per sfatare il mito che per parlare di cinema bisogna soltanto guardarsi pipponi vintage e film d’autore palestinesi, oggi rendiamo tributo all’ultimo film uscito per il franchise Pokémon, ovvero Detective Pikachu. Premessa metodologica: per parlare di quei film che possiamo definire “di consumo”, ovvero destinati ad essere prodotti di intrattenimento senza nessuna (o poca) velleità artistica, è importante utilizzare il corretto metro di giudizio. La scala di valori che si applica in questi casi, infatti, è il Metro dell’Onestà™, che la letteratura sull’argomento definisce come “l’intensità con la quale la produzione e/o la regia di un film cercano di prenderti per il culo”. Per capirci, sono film di una disonestà disarmante quelli della nuova trilogia di Star Wars, il secondo di Animali Fantastici, il secondo Pacific Rim, e penso che ci siamo capiti. Ecco, Detective Pikachu invece è un film insperatamente Onesto. È un film che ti promette Ryan Reynolds che parla tramite il soffice corpicino di un Pikachu caffeinomane e ti dà questo. È un film che ti promette un colpo di scena assolutamente banale (anche perché Bill Nighy non interpreta un ruolo da buono dal 2003) e ti dà un colpo di scena ignobilmente banale. È un film che ti promette i Pokémon e ti tira in faccia una manata di computer grafica. Infine, è un film che promette ai trentenni che con i Pokémon ci sono cresciuti di perdersi nella nostalgia, sapientemente dosata tra citazioni esplicite e piccoli easter egg sullo sfondo. E la lacrimuccia scende, perché Mewtwo colpisce ancora.
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“They’re rich but still nice” “They’re nice because they’re rich.” 기생충 Parasite ~ Joon-ho Bong (2019)
Palmato gioiello di Cannes 2019, Parasite è un benefico ritorno nel cinema di quello "sguardo altro" tanto necessario alla settima arte, ormai incastrata in capitoli secondi e revival social justice. Joon-ho Bong riprende un tema caro, quello della lotta di classe, ma ci mette poca lotta e molta classe. In un crescendo surreale (e crescentemente spietato) di inganni e sotterfugi, la poverissima famiglia Ki-taek riesce ad infiltrarsi al servizio della ricchissima famiglia Park. La rappresentazione dei Park è la vera ondata di coreanità del regista: ben lontani da una certa rappresentazione very occidentale della ricchezza, sempre legata ad una sorta di corruzione morale, i Park vivono su di un monte sereno di beatitudine, beozia e design, dove i Ki-taek si intrufolano grazie alle proprie - coesissime - doti del raggiro. Parassiti, dunque. Eppure lo sguardo dello spettatore viene lasciato a soffermarsi su dettagli che ne provano insindacabilmente le qualità: l'abilità nel disciplinare lo scalmanato bimbo ricco, la tazza di caffè mantenuta in perfetto equilibrio, il piatto di frutta composto e servito secondo i criteri della migliore eleganza. E i ricchi invece? Il dubbio che in realtà siano degli incapaci - che siano loro a parassitare le doti altrui - è legittimo. E poi ci sono quegli altri, parassiti dei parassiti, nei confronti dei quali si sviluppa la vera lotta del film, una lotta non più di classe ma di sopravvivenza. La seconda parte del film è una continua contrapposizione tra il su e il giù, in senso geografico, sociale e morale, ma la difficoltà nel risalire si fa sempre più aspra, e il senso di futilità di questa arrampicata è sottolineato da una scrosciante e continua pioggia - pioggia che cade dall'alto in basso, che trascina, che schiaccia. "Cosa ci faccio io qui" si chiedono infine un po' tutti i membri della famiglia Ki-taek. "Sei qui perché ti pago lo straordinario", vorrebbe essere la risposta. Ma nel cuore dell'uomo, per adesso, non proprio tutto si può comprare.
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"I think I told you, I’m pursuing a career in standup comedy." Joker ~ Todd Phillips (2019)
C’è un piatto, tipico delle mie terre, che si chiama ris e erborìn (riso e prezzemolo per i profani – si veda fotografia). Ecco, il riso col prezzemolo ci permette di fare due considerazioni: la prima è che sicuramente è un piatto che può piacere o non piacere. La seconda è che non c’è dubbio che gli ingredienti di cui è composto, se messi nelle mani di un sapiente chef, possano diventare un piatto stellato. Ma Joker non è un piatto stellato. È ris e erbo-rìn. E lo è nelle modalità che andiamo a descrivere di seguito. 1. È un ammasso informe di roba. Todd Phillips butta insieme il cinecomic, lo psico-dramma, il mind-game ma non riesce a dare un’identità sensata al film, rovinando nell’effetto mappazzone. A suo credito, possiamo dire che è invece bravissimo nello sfiorare il plagio, e un caro saluto a Scorsese. 2. L’impiattamento non è il suo forte. Ok, la regia è formalmente corretta, e bellissimo il costume del Joker, ma tutto quello che ci sta intorno è di una pochezza disarmante. La Gotham derelitta che dovrebbe essere il motore scatenante di tutta la follia del protagonista ci sembra una città normalissima, il drammatico sciopero degli spazzini (pardon, operatori ecologici) si manifesta in quattro cartacce per terra, l’iniquità sociale traspare più dal cappotto di Wayne Sr. che dalla sceneggiatura o dalla fotografia. 3. Buono quanto vuoi, ma dopo un po’ basta. L’ottimo Joaquin Phoenix ci offre un overacting da Leone d’Oro (sigh) farcito da frasi scritte apposta per finire come caption di qualche selfie, ma francamente, dopo i primi trenta minuti, ha già stufato. E ironicamente, appena smette di essere Arthur Fleck per diventare Joker, più che perdere di senno perde completamente di senso. Un grosso meh.
5.5
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"Anybody accidentally kills anybody in a fight, they go to jail. It’s called manslaughter." Once Upon a Time in... Hollywood ~ Quentin Tarantino (2019)
Quando si va al cinema a vedere Tarantino, ci si va con quel gusto un po' da voyeur, consapevoli che si sta per assistere a qualcosa di indimenticabile. Che piaccia da pazzi o lasci un po' stomacati poi beh, dipende dai gusti, ma certamente uno i film di Tarantino non li dimentica. Non sorprende dunque che questo film, il nono per il regista, abbia lasciato molti insoddisfatti o confusi: Tarantino infatti abbandona (molti de)i suoi stilemi per imporre all'ignaro spettatore qualcosa di diverso. Innanzitutto abbandona la marcia serrata che contraddistingue le sue sceneggiature, scandite da dialoghi fitti e velocissimi, a favore di un tempo più lento, di giorni che passano in attesa di qualcosa. E qualcosa accadrà nel guazzabuglio sconclusionato di scene che è la prima metà del film, no? Altimenti a che pro la voce narrante e la data in sovrimpressione? Non sarà mica che Tarantino vuole solo omaggiare il cinema che ama con tanto metacinema quanto è riuscito a infilarci, no? E mentre la sensazione di star guardando una Grande Bellezza di western e anni 60 si intensifica, ecco che BAM. Fine prima parte. Cinque secondi di schermo nero. E poi tutto ha un senso. Dopotutto lo aveva detto il protagonista: questa è la fiaba di Hollywood, dove con uno schiocco di dita tutto può cambiare, soprattutto i finali. Basta una festa in piscina.
8
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"死は 門だなって 死ぬっていうことは 終わりっていうことでなくて そこをくぐり抜けて次へ向かう まさに 門です" / "Death doesn’t mean the end but leaving the present, heading for the next stage. Truly a gateway". おくりびと / Departures ~ Yōjirō Takita (2008)
おくりびと (o Okuribito) ((o Departures)) (((o in qualsiasi lingua o alfabeto lo vogliate vedere))) è uno di quei film sul quale bisogna dormire sopra una notte o due. Perché l'impressione dopo averlo guardato è sempre più o meno "un Oscar a sta roba? 何?!?" e anche a ben ragione. La regia è formalmente corretta, le inquadrature graziose, però 𝘮𝘦𝘩. I colori sono belli, i tempi non sforzati, però 𝘮𝘦𝘩. I dialoghi non stucchevoli, i personaggi ben scritti, però 𝘮𝘦𝘩 𝘮𝘦𝘩 𝘮𝘦𝘩. Abituati alla grandeur del cinema americano, i giapponesi paiono semplici e fin troppo parodie di se stessi. Senza contare un paio di momenti francamente imbarazzanti tutti al profumo di sentimentalismo (ti sto guardando, sasso del cazzo. Era tutto meglio se non c'eri, sappilo). Ma poi passa qualche giorno, e le sbavature vanno via, e ci si rende conto che l'impatto visivo delle grandiose inquadrature e panoramiche hollywoodiane sfuma e finisce nel cassetto dei "ricordi sul film" tanto quanto i campi umili usati da Takita. E che non importa molto. E quello che resta è un senso di dolcezza e pulizia, un senso di catarsi emotiva che sa regalare solo chi è in grado di parlare della morte guardandola davvero per quello che è, ovvero una delle cose che fa l'uomo davvero uomo, che solo nella morte trova consapevolezza della vita. Antropopoiesi, si chiama. E questo film ne è la narrazione perfetta: l'ultimo atto disponibile all'uomo, per creare se stesso.
8.5
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"Let the wild rumpus start!" Where the Wild Things Are ~ Spike Jonze (2009)
Spike Jonze ritenta il numero di prestigio del "filmone dal cilindro del nulla cosmico", ma stavolta il coniglio gli esce spelacchiato e con un aspetto decisamente preoccupante. La scelta di usare la CGI solo sui faccioni e lasciare gli attori a rotolare in enormi costumi non riesce a riesporre la buffa bizzarria delle illustrazioni originali di Maurice Sendak, limitandosi a trasmettere una più banale e teletubbiana sensazione di ohmiodiochecazzoseibestiaimmondabruciaBRUCIA. L'aspetto controverso dei pelosi co-protagonisti del film contribuisce anche a renderlo un'opera confusa ai fini del target d'utenza (non portate i vostri figli a vedere questo film se non volete che parlino ai loro psichiatri di enormi polli senza un braccio, una volta grandi) e perfino la sceneggiatura non aiuta a trovare una quadra alla pellicola: la storia procede convinta fino al famoso "wild rumpus", salvo poi restare impelagata in un acquitrino di disfunzioni emotive tali da far impallidire qualsiasi 15enne su Tumblr. A tenere il tutto a galla c'è però la mano di Spike Jonze, che tramite gli occhi del nostro Max riesce nel regalare soggettive toccanti.
6.5 (il .5 se lo è guadagnato la colonna sonora)
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"Always remember us this way." A Star is Born ~ Bradley Cooper (2018)
Nella prima mezz'ora di questo film ho avuto la netta percezione di star guardando Bradley Cooper che si faceva una sega. Nella restante (lunghissima) ora e mezza ho cambiato idea. Non è Bradley Cooper che si fa una sega. È Bradley Cooper che mirabilmente proietta il proprio ego fuori da sé e fa una sega ad entrambi in un mutuo sbrodolare di onanismi. Se il titolo fosse stato "A Star is Born sì ok ma ora torniamo ai miei bellissimi malinconici occhi blu e alla mia possente muscolatura addominale che sfoggeró in almeno 3 occasioni assolutamente non necessarie ai fini della narrazione" sarebbe stato più adatto. La sceneggiatura non è solo banale, cosa prevedibile visti gli "antenati" della storia, ma anche onestamente imbarazzante: mette in scena una relazione amorosa imperniata su un paternalismo tossico che nemmeno il bonario sorriso da southern boy di Cooper riesce a rendere meno fastidioso - lo rende semmai PIÙ fastidioso. Le mie orecchie hanno davvero sentito la frase "ho scritto questa canzone per quando tornerai te stessa?" pronunciata perché sua signoria disapprova la deriva pop dell'amata? Ma checcazzo. Unica nota positiva Lady Gaga, che canta bene e ci fa prendere una boccata d'ossigeno dall'onnipresenza soffocante del suo più-che-co-protagonista. Però perché la canzone principale della soundtrack fa "We are far from the shallow now / In the shaAaAllow"? Cioè far from o in? Sono confusa.
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"I must have chanted those words a thousand times...Not him; me. Not him; me. Not him; me. Not him; me. And then, toward the end: not them; me." The Young Pope ~ Paolo Sorrentino (2016)
Sorrentino si cimenta con il moderno mostro sacro della serie TV trovando in essa l'habitat perfetto del suo habitus perculatorio. I tempi dilatati della serie (10 episodi di quasi un'ora) gli permettono di giocare con i movimenti di camera e con le ormai iconiche scene oniriche, suonando molto meno ampollose che nella sua odietamata produzione cinematografica. Ormai quasi cliché del lavoro del Maestro, Sorrentino stavolta dosa alla perfezione l'intento parodico, creando il personaggio magnificamente controverso del Santo Stronzo (l'interpretazione di Jude Law, però, quella sì che è in odore di santità... he's sexy and he knows it). Stellina d'oro per Silvio Orlando, irresistibile spalla in-comica e incomoda, e a mia personale opinione vero collante di tutta la serie e della sua - voluta - ambiguità.
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"Eri uno di noi." Dogman ~ Matteo Garrone (2018)
Prendete un film western, toglietegli il filtro "cane della prateria" e mettete il filtro "medusina triste". Poi fate un paio di sequenze lunghe, un appostamento documentariale sul non-luogo del paese (così peculiare da essere un posto qualsiasi). Quello che si ottiene è un film sulla legge della giungla (giusto per citare un altro bioma, olé) dove la natura premia il più forte, e solo i tamarri con la tuta dell'Adidas vincono.
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"E poi è arrivato quello stronzo, m'ha stravolto la vita. M'ha fatto credere che potevamo essere felici e io mi sono fidata". Perfetti sconosciuti ~ Paolo Genovese (2016)
Genovese si infila nella scia dei film girati con l'impostazione teatrale del "tutto in un punto" (vedi Who's Afraid of Virginia Woolf, mica per niente riadattamento di una sceneggiatura per teatro) nei quali l'ambiente chiuso - in questo caso una casa uscita direttamente da una rivista di interior design - è l'ambiente unico dove si svolge il dramma. C'è un fuori, si suppone, un tempo esterno alla lentissima cena che si sta svolgendo, ma lo intuiamo solo grazie all'eclissi di luna che pian piano copre il cielo (eclissi che, da che mondo è mondo, comunque è presagio di sfighe). Il gioco è semplice: mettiamo i telefoni sul tavolo, e per stasera è tutto pubblico, ahaha, ma no, ok, ma dai, che scemenza, perché che hai da nascondere?! Lo spettatore sa già cosa aspettarsi. Solo che non sa quanto aspettarsi. I dialoghi sono bilanciati, i tempi buoni, il climax non esasperato. Forse si poteva essere più sobri con lo spiegone moralizzante contro la società dei social, che fa tanto "voi giovani, sempre col telefono in mano". E comunque ricordatevi di aprire ogni tanto le ante degli armadi che prende un po' d'aria lo scheletro.
6,5
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"Finisce sempre così, con la morte. Prima però c’è stata la vita." La Grande Bellezza ~ Paolo Sorrentino (2013)
La prima volta che ho provato a vedere La Grande Bellezza ho ceduto di schianto dopo 20 minuti. L'ho trovato un nausenate e noioso alambiccare di pretestuosità. L'ho rivisto qualche giorno fa e non sono riuscita a distaccarmene fino all'ultimo secondo dei titoli di coda. Perché questo film va visto così, una sera tiepida in cui si ha voglia di lasciarsi rubare del tempo. Ma mi ero ripromessa di fare una recensione, quindi ecco: la Grande Bellezza è la Canestra di frutta di Caravaggio. Opulenta, traboccante, un po' marcescente. E poi c'è Roma, che è sfondo e protagonista di tutto, perfetto teatro di personaggi/maschere ancorati alla grandezza del passato. Perché se il presente invecchia e il futuro muore o si corrompe (quite literally), il passato ancora seduce con i suoi ricordi. Prima, infatti, c'è stata la vita. O almeno così dicono.
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"Is this the real life?" Bohemian Rhapsody ~ Bryan Singer (2018)
"Oddio mica lo sapevo che il Live Aid era una reunion e che lui sapeva già di essere malato!" Eh per forza non lo sapevi, non è vero. Davvero, il problema del film è tutto qui: grossa colpa il presentare un biopic che per essere un biopic è un po' troppo freestyle. Francamente triste anche il ruolo riservato agli altri membri del gruppo: un casting incredibile (oh, so' UGUALI) ma caratterizzati più per somigliare a graziosi chierichetti che a rockstar. Detto questo le canzoni ci sono, tutti le sanno, Rami Malek le fa bene nonostante la dentiera orrenda e vien voglia di cantare. Il film passa.
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"God bless white America." BlacKkKlansman ~ Spike Lee (2018)
Questo film è uno spiegone. E non uno spiegone spiccio, tra l'altro, ma uno di quegli spiegoni noiosetti in quanto pensati per uno specifico target di pubblico. Il film infatti non si rivolge né a coloro che hanno già una coscienza politica degli avvenimenti narrati, i quali non scopriranno nulla di nuovo dalla storie che vi viene narrata (racism, duh), né cerca di far cambiare idea a coloro che "God bless white America", poichè se li gioca ad inizio film presentando la categoria come un branco di ritardati. Piuttosto, punta a convincere coloro che, benchè politicamente propensi, devono ancora prendere consapevolezza della situazione. Il film infatti questo è: una presa di consapevolezza. E lo racconta - questo sì - in modo davvero spiccio: i buoni sono buoni e i cattivi sono cattivi, nella migliore tradizione americana. Una narrazione un po' in bianco e nero, insomma.
Quasi 7
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"Love has limits." "It should not." The Favourite ~ Yorgos Lanthimos (2018)
Fuori dal palazzo c'è la guerra e la politicona, dentro il palazzo ci sono i bisticci e la politichina. O forse è il contrario? I protagonisti del film sono tutti giocatori di una partita spietata per la corsa al potere, in un intreccio neanche troppo sofisticato di favori e favoriti, inganni e fedeltà, venduti e comprati. Protagonista indiscusso del film è il palazzo reale, che rappresenta in modo magistrale questo universo parallelo di sottogiochi politici. Un luogo di spazi giganteschi - serve il grandangolo per inquadrarli tutti - che nascondono passaggi segreti e oscuri, ma anche enormi giardini solitari e lunghi corridoi deserti, fatti apposta per i complotti. Pregevole anche la generica sontuosità degli ambienti: privi di colori politici, basta distrarsi un attimo e ci si scorda di essere in Inghilterra e non a Versailles. Con chi è che eravamo in guerra?
7.5
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"I guess if it's for you, it's a love poem." Paterson ~ Jim Jarmush (2016)
Adam Driver interpreta un autista (già) di nome Paterson, che vive a Paterson (GIÀ). Una narrazione leggera del banale, che mischia la noia alla poesia (protagonista non protagonista dell'intero film) restando sempre sull'orlo del dramma personale. Perché il Paterson uomo e poeta è reso futile dalla Paterson città e orizzonte, un luogo che non lo sa o non lo vuole apprezzare in quanto così saturo di talenti da rendere superfluo il più dotato degli artisti. Il giudizio sul protagonista resta infatti in capo allo spettatore, che termina il film con un unico quesito in testa: "ma questo è un genio o un coglione?".
7
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"I like things that look like mistakes." Frances Ha ~ Noah Baumbach (2012)
Frances Ha è un film che parla di quella sensazione che diventi grande e senti una pressione alla terza vertebra cervicale che spinge giù e dovresti piegarti e accettare la vita e non vuoi e fremi e scalpiti e perché a tutti gli altri sembra andare bene e a me no?
Ritratto spettacolare della generazione a cavallo dei 30 (perché della gioventù bruciata comunque non frega più un cazzo a nessuno) plus dialoghi tra i migliori degli ultimi anni.
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