Tumgik
lasvocesdelosotros · 1 year
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octubre 2022
01
Mio marito morí a Roma nelle carceri di Regina Coeli, pochi mesi dopo che avevamo lasciato il paese. Davanti all’orrore della sua morte solitaria, davanti alle angosciose alternative che precedettero la sua morte, io mi chiedo se questo è accaduto a noi, a noi che compravamo gli aranci da Girò e andavamo a passeggio nella neve. Allora io avevo fede in un avvenire facile e lieto, ricco di desideri appagati, di esperienze e di comuni imprese. Ma era quello il tempo migliore della mia vita e solo adesso che m’è sfuggito per sempre, solo adesso lo so.
 Natalia Ginzburg
  02
La mia amica qualche volta dice che è stufa di lavorare, e vorrebbe buttar la vita ai cani. Vorrebbe chiudersi in una bettola a bere tutti i suoi risparmi, oppure mettersi a letto e non pensare piú a niente, e lasciare che vengano a levarle il gas e la luce, lasciare che tutto vada alla deriva pian piano. Dice che lo farà quando io sarò partita. Perché la nostra vita comune durerà poco, presto io partirò e tornerò da mia madre e dai miei figli, in una casa dove non mi sarà permesso di portare le scarpe rotte. Mia madre si prenderà cura di me, m’impedirà di usare degli spilli invece che dei bottoni, e di scrivere fino a notte alta. E io a mia volta mi prenderò cura dei miei figli, vincendo la tentazione di buttar la vita ai cani. Tornerò ad essere grave e materna, come sempre mi avviene quando sono con loro, una persona diversa da ora, una persona che la mia amica non conosce affatto.
 Natalia Ginzburg
   03
La natura essenziale della città è la malinconia: il fiume, perdendosi in lontananza, svapora in un orizzonte di nebbie violacee, che fanno pensare al tramonto anche se è mezzogiorno; e in qualunque punto si respira quello stesso odore cupo e laborioso di fuliggine e si sente un fischio di treni.
 Natalia Ginzburg
 04
Non c’era nessuno di noi. Scelse, per morire, un giorno qualunque di quel torrido agosto; e scelse la stanza d’un albergo nei pressi della stazione: volendo morire, nella città che gli apparteneva, come un forestiero.
 Natalia Ginzburg
 05
I suoi versi risuonano al nostro orecchio, quando ritorniamo alla città o quando ci pensiamo; e non sappiamo neppure piú se siano bei versi, tanto fanno parte di noi, tanto riflettono per noi l’immagine della nostra giovinezza, dei giorni ormai lontanissimi in cui li ascoltammo dalla viva voce del nostro amico per la prima volta: e scoprimmo, con profondo stupore, che anche della nostra grigia, pesante e impoetica città si poteva fare poesia.
 Natalia Ginzburg
 06
Non sarà necessario lasciare il letto. Solo l’alba entrerà nella stanza vuota. Basterà la finestra a vestire ogni cosa D’un chiarore tranquillo, quasi una luce. Poserà un’ombra scarna sul volto supino. I ricordi saranno dei grumi d’ombra Appiattati cosí come vecchia brace Nel camino. Il ricordo sarà la vampa Che ancor ieri mordeva negli occhi spenti.
 Natalia Ginzburg
 07
Ogni occhiata che torna, conserva un gusto Di erba e cose impregnate di sole a sera Sulla spiaggia. Conserva un fiato di mare. Come un mare notturno è quest’ombra vaga Di ansie e brividi antichi, che il cielo sfiora E ogni sera ritorna. Le voci morte Assomigliano al frangersi di quel mare.
 Natalia Ginzburg
 08
un occhio che ci dimentica subito, non appena lasciamo il brevissimo raggio della sua iride.
 Natalia Ginzburg
 09
Nel paese della malinconia, il pensiero è sempre rivolto alla morte. Non teme la morte, assomigliando l’ombra della morte alla vasta ombra degli alberi, al silenzio che è già presente nell’anima, perduta nel suo verde sonno.
 Natalia Ginzburg
 10
Nada es más misterioso, para el hombre, que el espesor de su propio cuerpo. Y cada sociedad se esforzó, en un estilo propio, por proporcionar una respuesta singular a este enigma primario en el que el hombre se arraiga. Parecería que el cuerpo no se cuestiona. Pero, a menudo, la evidencia es el camino más corto del misterio. El antropólogo sabe que «en el corazón de la evidencia —según la hermosa fórmula de Edmond Jabés— está el vacío», es decir, el crisol del sentido que cada sociedad forja a su manera, evidente sólo para la mirada familiar que ella misma provoca. Lo que es evidente en una sociedad asombra en otra, o bien no se lo comprende. Cada sociedad esboza, en el interior de su visión del mundo, un saber singular sobre el cuerpo: sus constituyentes, sus usos, sus correspondencias, etcétera. Le otorga sentido y valor. Las concepciones del cuerpo son tributarias de las concepciones de la persona. Así, muchas sociedades no distinguen entre el hombre y el cuerpo como lo hace el modo dualista al que está tan acostumbrada la sociedad occidental. En las sociedades tradicionales el cuerpo no se distingue de la persona. Las materias primas que componen el espesor del hombre son las mismas que le dan consistencia al cosmos, a la naturaleza. Entre el hombre, el mundo y los otros, se teje un mismo paño, con motivos y colores diferentes que no modifican en nada la trama común (capítulo 1).
 David Le Breton
 11
NIEBLA
 La única niebla
endémica de mi ciudad
es la lluvia;
la llevo como un suéter gris
entre texturas de otra gente
y estampados.
 Mi única niebla,
la de la espera bajo cualquier techo,
de coches ciegos, lentos
bajo el chubasco,
me siembra cataratas en el ojo,
esconde los contornos.
 Es el punto inmóvil
al centro del trompo,
no me moja, me rodea,
esfera al vacío
yo adentro,
gris apenas, suéter grueso
con su olor a húmedo.
 Es la gasa que impide
que mi propia sangre me hiera.
 (Aurelia Cortés Peyrón)
  12
EMPALAGARSE
 es alargarse en algo
que anega
 el paladar
como un relámpago
de azúcar
 o de grasa
que lo surca
y lo rasga.
 Es la flaca
paradoja
de saber
 que saber
es un sabor
que no se aprende:
 en cambio,
se desprende,
se desaprende
 y muda
a su medida;
es pulga
 peligrosa,
pura
pulpa
 y papel
prensil
de las palabras
 que purga
la atención,
la descalabra
 y hurga.
No la rompe;
la sopla.
 No la burla:
la labra
porque la abre
 y la revuelve.
Empalagarse
es alojarse,
 alegre,
entre el diente
y la lengua:
 es cuchara
que escucha,
que pesa
 porque espesa
y se clava
porque endulza.
 (Ezequiel Zaidenwerg)
  13
THINGS EXPOSED TO THE AIR
 Say sugar has a mouth. How would I taste
in it? Like sweat, like lake water, like dust
from a ceiling fan, like the lowest leaves
of the squash plant, like how soft and yellow
they are, like oil, like badly sharpened knives,
like hail just after it pelts the yard, snow
just before it melts? Thank god it doesn't.
Have a mouth, I mean. Though maybe my scent
still saturates it like a mood, covert
and everywhere. This is the mistake
of leaving things exposed to the air, I say
to my daughter. It's not fair. And it's why
I don't need to read the climate change report.
When I brush her hair, the world smells like smoke.
 (Claire Wahmanholm)
  14
El dualismo contemporáneo opone el hombre y el cuerpo. Las aventuras modernas del hombre y de su doble hicieron del cuerpo una especie de alter ego. Lugar privilegiado del bienestar (la forma), del buen parecer (las formas, body-building, cosméticos, productos dietéticos, etc), pasión por el esfuerzo (maratón, jogging, windsurf) o por el riesgo (andinismo, «la aventura» , etc). La preocupación moderna por el cuerpo, en nuestra «humanidad sentada», es un inductor incansable de imaginario y de practicas. «Factor de individualización», el cuerpo duplica los signos de la distinción, es un valor.
 David Le Breton
 15
È inutile credere che possiamo guarire di vent’anni come quelli che abbiamo passato. Chi di noi è stato un perseguitato non ritroverà mai piú la pace. Una scampanellata notturna non può significare altro per noi che la parola «questura». Ed è inutile dire e ripetere a noi stessi che dietro la parola «questura» ci sono adesso forse volti amici ai quali possiamo chiedere protezione e assistenza. In noi quella parola genera sempre diffidenza e spavento. Se guardo i miei bambini che dormono penso con sollievo che non dovrò svegliarli nella notte e scappare. Ma non è un sollievo pieno e profondo. Mi pare sempre che un giorno o l’altro dovremo di nuovo alzarci di notte e scappare, e lasciare tutto dietro a noi, stanze quiete e lettere e ricordi e indumenti.
 Natalia Ginzburg
  16
LA MATA (fragmento)  Añade La Mata:  Para quienes volvieron: un manojo de flores del totumo, piñuelas con sus pulpas jugosas, su tomento estrellado de blanco color. Estas flores de pétalos carnosos, vainillas, olorosas durante la noche, y también otras flores furiosas, expertas en la desobediencia: varias flores del pico de loro, las espinas que rasgan la piel escondidas. Una invasión de trinitarias, un desfile coronado por sépalos persistentes. Unas con cáliz, que acompaña al fruto, otras estériles; también racimos de flores amarillas del bombito, de la flor de la bajagua, de esa flor que se llama amor que zumba, racimos abundantes, retoñadas de sí.
 (Eliana Hernández Pachón)
 17
Il mio mestiere è quello di scrivere e io lo so bene e da molto tempo. Spero di non essere fraintesa: sul valore di quel che posso scrivere non so nulla. So che scrivere è il mio mestiere.
 Natalia Ginzburg
 18
Una volta sofferta, l’esperienza del male non si dimentica piú. Chi ha visto le case crollare sa troppo chiaramente che labili beni siano i vasetti di fiori, i quadri, le pareti bianche. Sa troppo bene di cosa è fatta una casa. Una casa è fatta di mattoni e di calce, e può crollare. Una casa non è molto solida. Può crollare da un momento all’altro. Dietro i sereni vasetti di fiori, dietro le teiere, i tappeti, i pavimenti lucidati a cera, c’è l’altro volto vero della casa, il volto atroce della casa crollata.
 Natalia Ginzburg
 19
Tenevo un taccuino dove scrivevo certi particolari che avevo scoperto o piccoli paragoni o episodi che mi ripromettevo di mettere nei racconti. Nel taccuino scrivevo per esempio cosí: «Egli usciva dal bagno trascinandosi dietro come una lunga coda il cordone dell’accappatoio». «Come puzza il cesso in questa casa, – gli disse la bambina. – Quando ci vado, io non respiro mai, – soggiunse tristemente». «I suoi riccioli come grappoli d’uva». «Coperte rosse e nere sul letto disfatto». «Faccia pallida come una patata sbucciata». Tuttavia ho scoperto che difficilmente queste frasi mi servivano quando scrivevo un racconto. Il taccuino diventava una specie di museo di frasi, tutte cristallizzate e imbalsamate, molto difficilmente utilizzabili. Ho cercato infinite volte di ficcare in qualche racconto le coperte rosse e nere o i riccioli come grappoli d’uva e non m’è mai riuscito. Il taccuino dunque non poteva servire. Ho capito allora che non esiste il risparmio in questo mestiere. Se uno pensa «questo particolare è bello e non voglio sciuparlo nel racconto che sto scrivendo ora, qui c’è già molta roba bella, lo tengo in serbo per un altro racconto che scriverò», allora quel particolare si cristallizza dentro di lui e non può piú servirsene.
 Natalia Ginzburg
 20
Ho scoperto allora che ci si stanca quando si scrive una cosa sul serio. È un cattivo segno se non ci si stanca. Uno non può sperare di scrivere qualcosa di serio cosí alla leggera, come con una mano sola, svolazzando via fresco fresco. Non si può cavarsela cosí con poco. Uno, quando scrive una cosa che sia seria, ci casca dentro, ci affoga dentro proprio fino agli occhi; e se ha dei sentimenti molto forti che lo inquietano in cuore, se è molto felice o molto infelice per una qualunque ragione diciamo terrestre, che non c’entra per niente con la cosa che sta scrivendo, allora, se quanto scrive è valido e degno di vita, ogni altro sentimento s’addormenta in lui. Lui non può sperare di serbarsi intatta e fresca la sua cara felicità, o la sua cara infelicità, tutto s’allontana e svanisce ed è solo con la sua pagina, nessuna felicità e nessuna infelicità può sussistere in lui che non sia strettamente legata a questa sua pagina, non possiede altro e non appartiene ad altri e se non gli succede cosí, allora è segno che la sua pagina non vale nulla.
 Natalia Ginzburg
 21
Quando uno scrive un racconto, deve buttarci dentro tutto il meglio che possiede e che ha visto, tutto il meglio che ha raccolto nella sua vita. E i particolari si consumano, si logorano a portarseli intorno senza servirsene per molto tempo. Non soltanto i particolari ma tutto, tutte le trovate e le idee.
 Natalia Ginzburg
 22
in quell’epoca ho visto una volta passare per strada un carretto con sopra uno specchio, un grande specchio dalla cornice dorata. Vi era riflesso il cielo verde della sera, e io mi son fermata a guardarlo mentre passava, con una grande felicità e il senso che avveniva qualcosa d’importante.
 Natalia Ginzburg
 23
What is static if not the sound of the universe's grief? Anywhere static reigns.
 (J. Estanislao Lopez)
 24
EL PUESTO DEL GATO EN EL COSMOS
 Uno siempre se equivoca cuando habla del gato.
Se le ocurre por ejemplo que junto a la ventana
el gato se ha planteado en el fondo de los ojos
un posible fracaso en la noche cercana.
Pero el gato no tiene un porvenir que lo limite.
A uno se le ocurre que medita, espera o mira algo
y el gato ni siquiera siente al gato que hay en él.
¿Cómo admitir detrás del movimiento de la cola
una motivación, un juicio o un conocimiento?
El gato es un acto gratuito del gato.
El que aventure una definición debería
proponer sucesivas negaciones al engaño del gato.
Porque el gato, por lo menos el gato de la casa,
particular, privado e individuo hasta las uñas,
comprometido como está
al vicio de nuestro pensamiento
ni siquiera es un gato, estrictamente hablando.
 (Joaquín Giannuzzi)
  25
En el fondo del mar, realmente al fondo, los humanos vemos en blanco y negro, como algunas aves.
[...]
Orden. Desapareció tu especie. Pero cuando nadie las ve, las islas toman la forma de tu nombre.
(Isabel Zapata)
 26
SOMETHING
 Something went wrong.
That’s what the machine
says when I call to say
my paper didn’t arrive.
Machines are trained
by people, so they’re
smart, they know a thing
or fifty trillion. Did you miss
your Sunday delivery?
it asks. I did, I say. I
miss everything, I say,
because it’s a machine and
it has to listen, or at least
it has to not hang up
without trying to understand
why I called, which means
trying to correct what
went wrong. Let me
see if I got this right,
the voice says, you
missed your Sunday paper?
Yes, I say, but also I
miss my childhood and fairy
tales, like Eden. I miss sweet
Rob Roys with strangers.
I’m sorry, the machine says.
I’m having trouble understanding.
Did you miss today’s paper?
Yes, I say, but that’s not
the half of it. Sometimes
I just feel like half
of me, and even that
feels like too much. I’m
having trouble understanding,
the machine repeats, its
syllables halted, as if
trying to mimic an empath.
I’m having trouble understanding
too, I say. I used to understand
so much: photosynthesis, the
human heart, I’d even
memorized the Krebs cycle,
but now all I remember
is lifting the golden coil
of the kitchen phone to maneuver
under my mother’s conversations.
It was like lifting
the horizon. There’s
a silence, and the machine
asks: Are you still there? In
a few words, please describe
your issue. Where do I begin
being a minimalist? Time,
I say, I’ve got a problem
with that. Also, loss, and
attachment. That’s pretty
much it, and the news in its sky-
blue sleeve is meant to be
a distraction, isn’t it? I ask.
More silence, and then:
You miss your mother?
a voice asks. It’s
a human voice.
Me too, she says.
(Andrea Cohen)
 27
(Otro mito habitual sobre la inmigración: que no tenía vuelta atrás. Y, en realidad, eran muchos los que no encontraban en sus nuevos lugares lo que buscaban y se volvían, derrotados o aliviados, a sus viejos.)
Caparrós
 28
Si Ñamérica es el territorio de las mezclas, la mezcla de aquella zona es peculiar: allí las distintas culturas europeas se mezclaron como nunca habrían podido mezclarse en sus lugares de origen y dieron origen a una cultura nueva: Borges, Boca Juniors, el rubio pobre, la milanesa a la napolitana y el franfruter y las once, la chantada.
(Yo, con perdón, soy eso: hijo de un español que llegó, jovencito, tras la Guerra Civil porque sus padres debieron exiliarse derrotados, y una argentina cuyos padres eran un judío polaco y la hija de un judío ruso recién llegados a esas playas. Ser argentino, está claro, es una forma de la mezcla más imprevisible. Durante décadas nos creímos, por venir de esos cruces, menos ñamericanos; no entendíamos que éramos justamente lo contrario: que éramos ñamericanos por mezclados, porque la mezcla es la marca decisiva de Ñamérica.)
Caparrós
 29
La frontera es el lugar donde un estado empieza: donde te dice de aquí p’allá estoy yo, donde te dice no te creas; donde te dice mando. La frontera es la primera línea de defensa y ataque de un estado. La frontera es un modelo de estos tiempos: una de esas creaciones arbitrarias, fruto de los poderes, que se empeñan en vendernos como algo natural, eterno. Otro efecto de la publicidad: de este lado estamos nosotros y allí, a unos metros, están ellos —y ellos son otros, radicalmente otros porque están unos metros más allá. Es sorprendente que la patraña de las patrias —la patriaña— sea tan poderosa como para convencernos de esa farsa.
Caparrós
 30
(Hay algo irreal, casi hilarante, en ver cien metros de agua y saber que esa tierra que hay del otro lado es otro mundo, que usan otra moneda, siguen a otros jefes, gritan otros goles, y que tantos que quieren, de este lado, no consiguen entrar: tan allí mismo, tan lejano.)
Caparrós
 31
finora mi è successo sempre di scrivere in fretta e delle cose piuttosto brevi: e a un certo punto m’è sembrato anche di capire perché. Perché ho dei fratelli molto maggiori di me e quando ero piccola, se parlavo a tavola mi dicevano sempre di tacere. Cosí mi ero abituata a dir sempre le cose in fretta in fretta, a precipizio e col minor numero possibile di parole, sempre con la paura che gli altri riprendessero a parlare tra loro e smettessero di darmi ascolto. Può darsi che sembri una spiegazione
  Natalia Ginzburg
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lasvocesdelosotros · 1 year
Text
septiembre 2022
01
Tu chiedi, e la tiepida notte
si strappa in nastri di lutto, ali
di grandi uccelli in fuga
sfrangiano l’aria, mentre
inesorabile mi possiede
il corpo vischioso del diniego.
Donata Berra
 02
(Todos somos migrantes: todos los hombres llegaron, en algún momento, de otro lado. Pero en ningún lugar está tan claro como aquí: hasta hace veinte o treinta mil años no había personas en todo el continente, y todas las que lo poblaron desde entonces hasta la llegada de los españoles fueron los descendientes de esos migrantes que vinieron de Asia.)
Caparrós
  03
(Hay una escena, también mexicana, que las contiene casi todas: Miguel Hidalgo, un cura rural que se alzó en armas contra los españoles en 1810, llamando a los indios a luchar por su liberación: —¿Queréis empeñaros en el esfuerzo de recuperar, de los odiados españoles, las tierras robadas a vuestros antepasados hace trescientos años? Dijo, y levantó el confuso estandarte de la Virgen —morena— de Guadalupe y miles de hombres lo siguieron con armas de fortuna. En esa frase famosa, tan reproducida, «vuestros antepasados» eran los despojados: cualquiera que no tuviese sangre europea. Lo cierto es que entre los antepasados de esos hombres había invasores e invadidos, opresores y oprimidos, pero todo eso se negaba en aras de esa pureza étnica de las víctimas.)
Caparrós
 04
«Pueblos originarios» es, con perdón, otro concepto perfectamente conservador: otra tentativa de congelar la historia en un punto preciso y convertir ese momento en esencia, lo inmutable. Nadie es originario. Todos somos migrantes, todos llegamos del África, unos más tarde y otros menos. Lo único que sostendría la idea de humanidad es ser capaces de pensarnos en términos históricos. Todos venimos de la misma tribu; lo que define no es el origen sino la posición que ocupamos.
Caparrós
 05
Todos somos pueblos
originarios de
ningún origen: todos
somos
el fin de algo, algún
principio.
Caparrós
 06
(Comechingones, digamos: yo creo —es mi problema— que lo que importa no es que sean comechingones y quieran seguir siéndolo sino que son pobres y quieren dejar de serlo y, para eso, podrían reunirse con tantos otros pobres de tantos otros orígenes para tratar de conseguirlo. Mirar menos desde dónde vienen, mucho más dónde van. La identidad, a veces, parece una forma reacondicionada de nacionalismo, ese chancro tan viejo.)
Caparrós
 07
¿Por qué nos empeñamos en suponer que hay sociedades «tradicionales» que deberían conservar para siempre su forma de vida, y que lo «progresista» consiste en ayudarlos a que sigan viviendo como sus ancestros? ¿Porque nosotros seguimos usando miriñaques y bastones, casándonos con vírgenes o vírgenes, escribiendo palabras como estas con la pluma de un ganso, reverenciando a nuestro rey, iluminándonos con el quinqué que porta, temeroso, aquel negrito esclavo? ¿Estamos en contra de que se mezclen como se fueron mezclando nuestros propios ancestros? ¿Yo debería escribir todo esto en iddish para reivindicar la herencia amenazada —derrotada— de mi abuela Rosita, judía rusa? ¿O cribarlo de padrenuestros y amenes y mecagondiós como lo habría hecho, si acaso, mi abuela Sagrario, cristiana toledana? ¿No es mejor celebrar los frutos de la mezcla que me ofrecen una cultura distinta, mixturada, hecha de los jirones de esa judería y esa españolada y esos tanos y guaraníes y siriolibaneses y congoleños y quién sabe? ¿Por qué eso que en los demás se llama cambio —cuando no progreso— en los indios parece ser desastre?
Caparrós
 08
vivimos una época que se ocupa muy especialmente de las minorías para disimular o justificar que se ocupa muy poco de las mayorías.
Caparrós
 09
What are our choices and might I suggest
LESS IS MORE against MORE IS MORE?
Or IT COULD HAPPEN ANYTIME against IT HAPPENS
ALL THE TIME? Or how about THIS VIOLENCE
FOREVER UNDOES A PERSON
against THAT CONTENTION CAN ONLY
BE ROOTED IN THE RETROGRADE
VIEW THAT A WOMAN IS EITHER INTACT OR SHE'S
NOT? I always thought I'd make
peace with THIS PLANET, and yet here I am
shoving all my cash in the jar
marked ANYPLACE ELSE. There isn't enough
money in the world.
(Natalie Shapero)
 10
Is mass migration
an exigence or assassination?
What nation has walls
when the light is swallowed by night?
We have no need for your leave
to leave. Capedcrusaders
winging, winning out,
we’re flying over
the wall.
Lepidoptera
all asprawl.
 (Stella Wong)
 11
Qui a Londra, nei pressi della mia casa, c’è un luogo chiamato «La Maison Volpé». Cosa sia non lo so, non ci sono mai entrata: penso che sia un ristorante o un caffè. Forse non ci entrerò mai: quel nome conserverà per me il suo mistero. Ma ho l’impressione che quando ricorderò Londra, e il tempo che qui ho trascorso, vibreranno al mio orecchio quelle sillabe, e tutta Londra sarà per me riassunta in quel nome parigino.
Natalia Ginzburg
 12
Lui se ne è fatto, invece, una cultura: si è fatto una cultura di tutto quello che ha attratto la sua curiosità; e io non ho saputo farmi una cultura di nulla, nemmeno delle cose che ho piú amato nella mia vita: esse sono rimaste in me come immagini sparse, alimentando sí la mia vita di memorie e di commozione ma senza colmare il vuoto, il deserto della mia cultura.
Natalia Ginzburg
 13
Mi sembra di seguire, nello scrivere, una cadenza e un metro musicale. Forse la musica era vicinissima al mio universo, e il mio universo, chissà perché, non l’ha accolta.
Natalia Ginzburg
 14
LANGUAGE MY COUNTRY
Language: my country
where night
rhymes with light, death
with breath—
And from childhood on the gift
of seeing world the way
the dying see
it: things shining
in the light of their imminent disappearance.
(Franz Wright)
 15
Somos mezcla: se podría creer que la mezcla nos haría tolerantes, indiferentes a la variedad de pieles y colores. Al contrario: parece que la multiplicidad de gradaciones y posibilidades nos hizo especialmente sensibles a la diferencia, particularmente racistas. No es lo mismo ser racista en blanco y negro —un inglés en la India, un belga en el Congo— que ser racista con tal despliegue de matices; se necesita mucha más atención, más mala leche, más interés en el asunto. El racismo en Ñamérica, nuestro racismo, es sutil y brutal al mismo tiempo.
Caparrós
 16
ho scoperto che, se il  traduttore o la traduttrice sono intelligenti, possono spiegare i problemi che sorgono nella loro  lingua persino a un autore che non la conosce, e anche in quei casi l’autore può collaborare 
suggerendo soluzioni,
Eco
 17
nel corso delle mie esperienze di autore tradotto, ero continuamente combattuto  tra il bisogno che la versione fosse "fedele" a quanto avevo scritto e la scoperta eccitante di come  il mio testo potesse (anzi talora dovesse) trasformarsi nel momento in cui veniva ridetto in altra  lingua. E se talora avvertivo delle impossibilità – che pure andavano in qualche modo risolte – più  spesso ancora avvertivo delle possibilità: vale a dire avvertivo come, al contatto con l’altra lingua,  il testo esibisse potenzialità interpretative che erano rimaste ignote a me stesso, e come talora la  traduzione potesse migliorarlo (dico "migliorare" proprio rispetto all’intenzione che il testo stesso  veniva improvvisamente manifestando, indipendentemente dalla mia intenzione originaria di  autore empirico).
Eco
 18
Every hair you've pulled from your soup
belongs on this earth as much as you
Any superiority you feel toward horny toads
or iceberg lettuce
is as narcotic a delusion
as the belief that your voice in recordings
is not the voice in your mouth
(Ruth Madievsky)
 19
WHEN MY GRANDMOTHER BARBARA JEAN WAS DYING, MY MOTHER SAT ON HER BED AND PLAYED "HOUSE OF THE RISING SUN" ON HER GUITAR, BECAUSE IT WAS THE ONLY SONG SHE KNEW
And this is also ekphrasis: the song plucked
out of the guitar, held on a child's lap, sat on a sickbed.
My mother shaping the air around herself
and her mother: a small rain of notes.
There is a house in New Orleans, she strummed
not knowing her mother was dying.
My mother with her short hair and tomboy name,
beside her mother who went by Bobbie.
Bobbie with her hair that waves like mine,
resists the clip that holds it back.
Don't wish your life away, my mother still says,
words her mother, shadow-sick, said.
If a person is a museum of rooms they've
visited, inside my mother is a room
with a bed, a guitar, and her mother
who is not dying, only resting.
It is called the rising sun.
(Han VanderHart)
 20
«C’è un angolo della mia anima dove so molto bene e sempre quello che sono, cioè un piccolo, piccolo scrittore».
 Natalia Ginzburg
 21
L’Italia è un paese pronto a piegarsi ai peggiori governi. È un paese dove tutto funziona male, come si sa. È un paese dove regna il disordine, il cinismo, l’incompetenza, la confusione. E tuttavia, per le strade, si sente circolare l’intelligenza, come un vivido sangue È un’intelligenza che, evidentemente, non serve a nulla. Essa non è spesa a beneficio di alcuna istituzione che possa migliorare di un poco la condizione umana. Tuttavia scalda il cuore e lo consola, se pure si tratta d’un ingannevole, e forse insensato, conforto. In Inghilterra l’intelligenza si traduce nelle opere, ma se la cerchiamo attorno a noi per la strada, fra la gente che passa, non ne troviamo un solo barlume, e questo, certo stupidamente e ingiustamente, ci sembra una privazione, e ci fa ammalare di malinconia.
 Natalia Ginzburg
 22
«Chi di noi è stato un perseguitato non ritroverà mai piú la pace… Vorrebbero che circondassimo di veli e di menzogne l’infanzia [dei nostri figli]. Ma noi non lo possiamo fare. Non lo possiamo fare con dei bambini che abbiamo svegliato di notte e vestito convulsamente nel buio, per scappare o nasconderci...».
 Natalia Ginzburg
 23
A volte mi sorprendo a mormorare le parole di questa canzone, e allora tutto il paese mi ritorna davanti, insieme al particolare sapore di quelle stagioni, insieme al soffio gelato del vento e al suono delle campane.
 Natalia Ginzburg
 24
C’è una certa monotona uniformità nei destini degli uomini. Le nostre esistenze si svolgono secondo leggi antiche ed immutabili, secondo una loro cadenza uniforme ed antica. I sogni non si avverano mai e non appena li vediamo spezzati, comprendiamo a un tratto che le gioie maggiori della nostra vita sono fuori della realtà. Non appena li vediamo spezzati, ci struggiamo di nostalgia per il tempo che fervevano in noi. La nostra sorte trascorre in questa vicenda di speranze e di nostalgie.
 Natalia Ginzburg
  25
In verità la scuola dovrebbe essere fin dal principio, per un ragazzo, la prima battaglia da affrontare da solo, senza di noi; fin dal principio dovrebbe esser chiaro che quello è un suo campo di battaglia, dove noi non possiamo dargli che un soccorso del tutto occasionale e irrisorio. E se là subisce ingiustizie o viene incompreso, è necessario lasciargli intendere che non c’è nulla di strano, perché nella vita dobbiamo aspettarci d’essere continuamente incompresi e misconosciuti, e di esser vittime d’ingiustizia: e la sola cosa che importa è non commettere ingiustizia noi stessi.
Natalia Ginzburg
 26
—Cuando se muere un niño hay alegría porque antes los africanos cuando se les moría un hijo decían qué bueno que no va a ser esclavo, no va a tener esta vida que tenemos. Morirse para ellos era liberarse.
Caparrós
 27
ON TWILIGHT
 I read the poem of a student and in the poem God wandered through the room picking up random objects---a pear, a vase, a shoe---and in bewilderment said, "I made this?". Apparently God had forgotten making anything at all. I awarded this poem a prize, because I was a judge of such matters. I was not really awarding the student, I was awarding God; I knew someday the student would pick up his old poem and say in bewilderment, "I made this?", and at this moment his whole world would be lost in the twilight, and when you are finally lost in the twilight, you cannot judge anything.
 (Mary Ruefle)
 28
I dislike dreaming while sleeping. I feel powerless in those dreams.
I hurt many people, mostly girls. They deleted me from their phone books.
I miss them in secret.
I was hurt by people, most people. I forgive them in order to remember them.
The lotus is at the border of becoming the water, failed by water.
I love flowers, particularly those I cannot name, as if they have never been given a name.
I love the shape of waves, which is always shaping, yet unshaped
like my mother's hair, once braided by my father's hands, unbraided, by time.
(Shanyang Fang)
29
Guarderò l’orologio e terrò conto del tempo, vigile ed attenta ad ogni cosa, e baderò che i miei figli abbiano i piedi sempre asciutti e caldi, perché so che cosí dev’essere se appena è possibile, almeno nell’infanzia. Forse anzi per imparare poi a camminare con le scarpe rotte, è bene avere i piedi asciutti e caldi quando si è bambini.
 Natalia Ginzburg
   30
quando vi ritorniamo, ci basta attraversare l’atrio della stazione, e camminare nella nebbia dei viali, per sentirci proprio a casa nostra; e la tristezza che ci ispira la città ogni volta che vi ritorniamo, è in questo sentirci a casa nostra e sentire nello stesso tempo che noi, a casa nostra, non abbiamo piú ragione di stare; perché qui a casa nostra nella nostra città, nella città dove abbiamo trascorso la giovinezza, ci rimangono ormai poche cose viventi, e siamo accolti da una folla di memorie e di ombre.
 Natalia Ginzburg
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lasvocesdelosotros · 1 year
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agosto 2022
01
México no es una ciudad. Es, quizá más que ninguna, lo que ahora son las ciudades desmedidas: una federación de pueblos grandes unidos por esas cosas que unen a esas federaciones. Antes era un dios, un rey, un límite geográfico; ahora es una bandera, un equipo de fútbol, una moneda, una ilusión —y siempre las variaciones de una alimentación y de un idioma. México es tan diversa, tan inabarcable. Sus barrios riquísimos, sus barrios pobres, sus barrios peligrosos; sus autopistas superpuestas intrincadas infinitas, sus calles arboladas, sus calles destrozadas, sus malls y sus mercados; sus monumentos, sus agujeros, sus rincones; su poder, su impotencia. El centro de México está construido sobre el fango de un lago; el sur, sobre la lava de un volcán; el oeste, sobre los gases de un basural gigante. En México todo cambia y nada cambia. Lo único seguro es que nada está seguro: aquí todo puede temblar, todo puede caer. Todo es promesa, todo es amenaza. Todo es sorpresa todo el tiempo.
Caparrós
 02
Uno de los grandes privilegios de los ricos de México consiste en vivir en una zona reducida, su pueblito; en hacer toda —casi toda— su vida a unos pocos kilómetros a la redonda: frente al caos y la amenaza, las formas del repliegue.
Caparrós
 03
México es un espacio hecho para comer, para dar de comer. Aunque hay, como en todo, clases: los más pobres comen en esos puestos callejeros de tacos y de tortas; los medios, en esos restoranes de menú que, por 60 o 70 pesos —menos de 3 euros— sirven una sopa y un plato de carne; y los más ricos en los restaurantes presumidos, variados, tentadores —donde, sobre todo, inician o concluyen sus negocios. Pero el olor del maíz está por todas partes. En la ciudad de mil olores hay uno que es el suyo: el olor del maíz cocinado en tortillas
Caparrós
 04
Puede que el tiempo sea dinero, pero el dinero sin dudas es espacio. Lo primero que compra el dinero es el espacio,
Caparrós
 05
La comida basura fue un globo de ensayo que funcionó: las personas no muy pobres de los países pobres aceptaron comer mierda levemente tuneada, rápida y refrita, prestigiada por nombres y relumbres. Les gustó comer mierda, y entonces otros adelantados decidieron dársela de otras maneras: la ropa basura es uno de los inventos más o menos recientes. Camisetas, pantalones, zapatillas decoradas por marcas y colores, fabricadas en países todavía más pobres en condiciones más que pobres por personas menos que pobres, mucho más que explotadas, que duran con suerte unos meses, si acaso un año o dos, y se deshacen —las ropas, digo, por supuesto. La civilización de lo efímero, de la obsolescencia proLa comida basura fue un globo de ensayo que funcionó: las personas no muy pobres de los países pobres aceptaron comer mierda levemente tuneada, rápida y refrita, prestigiada por nombres y relumbres. Les gustó comer mierda, y entonces otros adelantados decidieron dársela de otras maneras: la ropa basura es uno de los inventos más o menos recientes. Camisetas, pantalones, zapatillas decoradas por marcas y colores, fabricadas en países todavía más pobres en condiciones más que pobres por personas menos que pobres, mucho más que explotadas, que duran con suerte unos meses, si acaso un año o dos, y se deshacen —las ropas, digo, por supuesto. La civilización de lo efímero, de la obsolescencia programada para que el consumo nunca pare se manifiesta con la mayor eficacia en los dos ramos más indispensables: tragar y cubrirse —y definirte por lo que tragas, por cómo te cubres.
Caparrós
 06
México es esa violencia y esos tacos y esa desigualdad y esa cultura y esas palabras y esa música y siete siglos y millones y millones de coches, de cuerpos y de ruidos, la capital más grande de la lengua. México es la ciudad por excelencia, y una ciudad es materia desbocada, energía en movimiento incontenible, multitudes que se mueven, máquinas que se mueven, dineros que se mueven, afanes, apetitos, espantos que se mueven para nada, para poder seguir moviéndose. Tanta energía para crear más energía para gastarla para crear más energía para gastarla para. Algunos lo llaman capitalismo; otros, la vida.
Caparrós
 07
El albur es casi una estrategia de supervivencia: una manera de decir lo que no debe decirse. El albur solía ser cosa de hombres: sus doblesentidos están llenos de alusiones sexuales, cantos verdes. —La gente no se escucha. Cuando uno escucha lo que los otros dicen le encuentra unos sentidos increíbles… si supieran las pendejadas que hablan.
[...]
el albur, me explica, no es solo un habla; es, antes que nada, una manera de escuchar: de descubrirle a cada frase sus sentidos posibles. [La Reina]
Caparrós
  08
La plaza se llama «de las Tres Culturas» y las muestra: un templo azteca espléndido, una iglesia cristiana ennegrecida, un conjunto habitacional del optimismo sesentista; falta la cuarta, la actual, la que no sale en los textos patrióticos. En la plaza hay recuerdos: el año pasado se cumplió medio siglo de esas muertes y alguien pintó en una pared una frase perfecta: «Ni un minuto de silencio». Qué envidia, tanta síntesis.
Caparrós
 09
(Puedo imaginar muchas formas de ver amanecer. Pero si tiene que ser apta para todo público, ninguna me parece mejor que esta: una canoa sobre el río en medio de la selva, la bruma que se levanta poco a poco, los gritos de los pájaros, los animales que bajan a la orilla, el mundo que se arma como si nunca antes hubiera sido mundo. Hubo un momento en que lamenté no tener un porro; después pensé que no era necesario. Ruidos, colores, movimientos son un viaje más potente; la ignorancia, sospechar un espacio tan nuevo, es mucho más potente.)
Caparrós
 10
(Me gustan esas situaciones en que la falacia nacionalista o étnica se disuelve: en que la esperanza de deshacerte de un amo brutal de tu mismo aspecto te lleva a ayudar a uno distinto, un forastero; en que esa urgencia se impone a las semejanzas reales o supuestas que proponen la patria o la raza.)
Caparrós
 11
Desde siempre, ñamericanos van y vienen: llegan, miles, para ocupar las tierras e ir haciéndolas suyas, y van armando todo esto. Se van, millones, del campo a las ciudades; se van, millones, a otros lugares donde creen que podrán vivir mejor: países que creen más amigables, más prósperos, vivibles. Ñamérica son esos movimientos. Su historia es la historia de esos movimientos, su gente es el producto de esos movimientos. Como en pocos lugares del mundo, somos la mezcla que resultó de cuatro grandes olas migratorias, definidas, precisas.
Caparrós
 12
en tiempos en que no sabemos bien qué nos define —las patrias se han desprestigiado, las clases confundido—, una identidad clara es un capital social y político que algunos han sabido cultivar. Ser mujer, negro, trans, indígena, son características autónomas, que no dependen de sus lugares sociales: indudables. Características que, en general, cargan con el dolor y el capital de siglos de malos tratos varios: la vergüenza y la culpa que esos siglos producen.
Caparrós
 13
MĀORI MANAIA
 She-He gazed in amazement
in the direction of the sky
in the direction of the clouds
spectacularly alive.
 She-He feels a heart beat
one arm touching the earth
one arm touching the mist
self-compressed and breathing.
 She-He will go under the river
steering with a strong tail
steering commitments
into the afterlife.
 (Margaret Noodin,
self-translated from Anishinaabemowin)
  14
THERE IS ABSOLUTELY NOTHING LONELIER
There is absolutely nothing lonelier
than the little Mars rover
never shutting down, digging up
rocks, so far away from Bond street
in a light rain. I wonder
if he makes little beeps? If so
he is lonelier still. He fires a laser
into the dust. He coughs. A shiny
thing in the sand turns out to be his.
(Matthew Rohrer)
  15
AMORPHISM
There must be a song that birds use
to describe a form of clairvoyance
based on the motions
of our human commutes,
or the family tree
of a tree
drawn in the shape of a man
recycling himself underground.
There must be an angler fish
so deep in the squeeze
of the ocean's core
alighting its ancient leather face
like a nightmare in the nighlight in the night.
I love the Komodo dragon sleeping in the zoo,
his poison tongue locked in his jaw,
his breath bluing the glass for a moment like smoke.
I love the Loch Ness Monster
because I know she is a stick.
(Sarah Matthes)
 16
REMOVE
You who remove me from my house
are blind to your past
which never leaves you,
yet you're no mole
to smell and sense what's being done
to me now by you.
Now, dilatory, attritional so that the past
is climate change and not a massacre,
so that the present never ends.
But I'm closer to you than you are to yourself
and this, my enemy friend,
is the definition of distance.
Oh don't be indignant,
watch the video, I'll send you the link
in which you cleanse me item after limb
thrown into the street to march where
my catastrophe in the present
is still not the size of your past:
is this the wall
you throw your dice against?
I'm speaking etymologically, I'm okay
with the scales tipping your way,
I'm not into that, I have a heart that rots,
resists, and hopes, I have genes,
like yours, that don't subscribe
to the damage pyramid.
You who remove me from my house
have also evicted my parents
and their parents from theirs.
How is the view from my window?
How does my salt taste?
Shall I condemn myself a little
for you to forgive yourself
in my body? Oh how you love my body,
my body, my house.
(Fady Joudah)
 17
Existe, confesémoslo (y la enfermedad es el 
gran confesionario), una franqueza infantil en 
la enfermedad; se dicen cosas, se sueltan 
verdades que la cautelosa respe­tabilidad de la 
salud oculta.
Woolf
 18
Pero  en la salud ha de mantenerse la pretensión de 
cordialidad, y el esfuerzo renovado: comunicarse,
civilizar, compar­tir, cultivar el desierto,  educar al nativo, trabajar juntos día y noche. 
En la enfer­medad cesa esta simulación
Woolf
 19
La precipitación es una característica de 
la enfermedad —-somos forajidos— y la 
necesitamos para leer a Shakespeare
[...] El zumbido de la crítica nos 
impide aventurar las propias conjeturas en 
privado, tomar notas al margen; pues, al saber que alguien lo ha dicho antes, o que 
lo ha dicho mejor, el entusiasmo se apa­ga. En 
su regia sublimidad, la enfermedad prescinde de 
todo eso y nos deja a solas con Shakespeare. 
Pues con su arrogante poder y nuestra 
arrogancia insolente, las barreras se caen, los nudos se alisan, el cerebro suena y resuena con 
Lear o Mac- beth, e incluso el mismo Coleridge 
chilla como un ratón lejano.
Woolf
 20
Let us examine the rose. We have seen it so often flowering in bowls, connected it so often with beauty in its prime, that we have forgotten how it stands, still and steady, throughout an entire afternoon in the earth. It preserves a demeanour of perfect dignity and self-possession. The suffusion of its petals is of inimitable Tightness. Now perhaps one deliberately falls; now all the flowers, the voluptuous purple, the creamy, in whose waxen flesh a spoon has left a swirl of cherry juice; gladioli; dahlias; lilies, sacerdotal, ecclesiastical; flowers with prim cardboard collars  tinged apricot and amber, all gently incline their heads to the breeze— all, with the  exception of the heavy sunflower, who proudly acknowledges the sun at midday, and perhaps at midnight rebuffs the moon.
Woolf
 21
It is in their  indifference that they are comforting.  That snowfield of the mind, where man has not trodden, is visited by the cloud, kissed by the falling petal, as, 
in another sphere, it is the great artists, the Miltons, the Popes, who console, 
not by their thought of us, but by  their forgetfulness.
Woolf
  22
Meanwhile, with the heroism of  the ant or the bee, however  indifferent the sky or disdainful the flowers, the army of the upright marches to battle. Mrs. Jones 
catches her train. Mr. Smith mends his motor. The cows are driven home to be milked. Men thatch the roof. The dogs bark. The rooks, rising in a net, fall in a net 
upon the elm trees. The wave of life flings itself out indefatigably.
Woolf
 23
Indeed, it is to the poets that we turn. Illness makes us disinclined for the long campaigns that prose exacts. We cannot command all our faculties and keep our reason and our judgment and our memory at attention while chapter swings on top
of chapter, and, as one settles into place, we must be on the watch for the
coming of the next, until the whole structure—arches, towers, battlements— stands firm on its foundations.
Woolf
 24
We rifle the poets of their flowers. We break off a line or  two and let them open in the depths  of the mind, spread their bright wings,  swim like coloured fish in green waters and oft at eve Visits the herds along the twilight meadows  wandering in thick flocks along the mountains  Shepherded by the slow, unwilling wind
Woolf
 25
In illness words seem to possess a  mystic quality. We grasp what is beyond their surface meaning, gather instinctively this, that, and the other— a sound, a colour, here a stress, there a  pause—which the poet, knowing words  to be meagre in comparison with ideas, has strewn about his page to evoke, when collected, a state of mind which neither words can express nor the reason explain.
Woolf
 26
And so it was one morning. His horse stumbled. He was killed. She knew it before they told her, and never could Sir John Leslie forget, when he ran down stairs the day they buried him, the beauty of the great lady standing by the window to see the hearse depart, nor, when he came back again, how the curtain, heavy, Mid-Victorian,
plush perhaps, was all crushed together where she had grasped it in her agony.
Woolf
 27
Proust—literature does its  best to maintain that its concern is with the mind ; that  the body is a sheet o f plain glass through which the soul  looks straight and clear, and, save for one or two passions  such as desire and greed, is null , negligible and non-existent. On the contrary, the very opposite is true. All day, all night the body intervenes; blunt s or sharpens, colours or discolours, turns to wax in the warmth of   June, hardens to tallow in the murk of February.
Woolf
 28
The creature within can only gaze through the pane—smudged  or rosy; it cannot separate off fro m the body like the sheath of a knife or the pod of a pea for a single instant;  it must go through the whole unending procession of changes, heat and cold, comfort and discomfort, hunger  and satisfaction, health and illness, until there comes the inevitable catastrophe; the body smashes itself to smithereens, and the soul (it is said) escapes. But of all this daily drama of the body there is no record. People write always  about the doings o f the mind; the thoughts that come to it ; its noble plans; how it has civilised the universe.
Woolf
 29
For who of English birth can take liberties  with the language? To us it is a sacred thing and therefore doomed to die, unless the Americans, whose genius is so much happier in the making of new words than in the disposition o f the old, will come to our help and set  the springs aflow. Yet it is not only a new language that we need, primitive , subtle, sensual, obscene, but a new hierarchy of the passions; love must be deposed in favour of a temperature of 104; jealousy give place to  the pangs o f sciatica; sleeplessness play the part of villain,  and the hero become a white liquid with a sweet taste—  that might y Prince with the moths' eyes and the feathered 
feet, one of whose names is Chloral.
Woolf
 30
Atravesamos nuestros nombres para llegar ahí. En el principio fue esto: un verano que inició con la lluvia. Solsticio y montaje. La luz en nuestras bocas, donde se hizo. Esa bóveda celeste del paladar. Todo aquello que separa el día de la noche. Tu perfil todavía. La luz de mi memoria se rompe, se astilla, no puede atravesarnos. Nos podrían ver, me dijiste, me alejaste de tu lado tenuemente. Tantas cosas que existen y existieron, me digo, y nunca fueron vistas.
Elisa Díaz Castelo
 31
Il modo indicativo dello stare al mondo.
Quando non hai quello che ami
ama il reale che trascina a fondo.
Franco Marcoldi
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lasvocesdelosotros · 1 year
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julio 2022
01
la palabra aletheia, “verdad”, que naturalmente ocupa un lugar central en el pensamiento de los filósofos griegos. El primero elemento de la palabra, a­, es sin lugar a dudas un prefijo de negación (alpha privativum). El elemento anexo ­leth designa algo escondido, oculto, “latente” (esta palabra latina está emparentada con ­lenth­), de forma que la verdad, por su significado literal, aparece —con Heidegger— como lo no escondido, no oculto, no “latente”. Pero como el elemento de significado ­leth­ aparece también en el nombre de Lethe, el mítico río del olvido, por la formación de la palabra aletheia se puede entender que la verdad es también lo “no olvidado” o lo “que no hay que olvidar”. De hecho el pensamiento filosófico de Europa, siguiendo a los griegos, buscó la verdad durante muchos siglos en el lado del no­ olvido, es decir, de la memoria y el recuerdo, y sólo en la Edad Moderna hizo el intento, más o menos titubeante, de otorgar también cierta verdad al olvido
Harald Weinreich
 02
El olvido, oculto o yacente en las profundidades, es pues, por su naturaleza, oscuro; es el “tenebroso olvido” (Schiller), “el sombrío olvido” (Víctor Hugo). Incluso en campo abierto y a la luz del día, el olvido está oscurecido por nubes (Píndaro) o por la niebla (Jorge Semprún). Esto no tiene forzosamente que tener connotaciones negativas; también el suave crepúsculo fomenta el olvido cuando se anhela a éste, como sucede en unos versos inolvidables del “Nocturno” del poeta alemán Matthias Claudius:
Harald Weinreich
 03
El mundo está tranquilo
Y envuelto en el crepúsculo
Tan familiar y amable,
Como cuarto silencioso
Donde el día penoso
Al sueño y olvido marche.
 “Sueño” y “olvido” son en este poema casi sinónimos. De acuerdo con esto, también Paul Valéry escribió una vez: “Dormir es olvidar” (S'endormir c'est oublier). Por eso, no poder olvidar es comparable al insomnio; Nietzsche sufría de ambos. De ahí que traer a la memoria algo olvidado (en francés rappeler, “recordar”) equivale casi a la llamada al despertar.
Harald Weinreich 
 04
Entre los griegos, Lete es una deidad femenina, que forma pareja con su opuesta Mnemosine, la diosa de la memoria y madre de las musas. Según la genealogía y la teogonía, Lete procede de la estirpe de la Noche (en griego: Nix, en latín: Nox), pero yo no puedo por lo menos mencionar también el nombre de su madre. Es Éride, la Discordia (en griego Eris)... la oveja negra de esa familia. Sin embargo, la genealogía representa un escaso papel en la recepción de este mito, porque Leteo es ante todo el nombre de un río del infierno que otorga el olvido a las almas de los muertos. En esa imagen y ese mundo de imágenes, el olvido se sumerge por completo en el elemento líquido agua. Hay un sentido profundo en el simbolismo de esas aguas mágicas. En su suave fluir se disuelven los duros contornos del recuerdo de la realidad, y son de esa manera liquidados.
Harald Weinreich
 05
la mnemotecnia antigua y medieval se puede decir — esto es visible ya como centro de gravedad de la anécdota de Simónides— que en principio la memoria está espacializada. Es pues en sustancia un “arte espacial” (topografía). El artista de la memoria que sigue el ejemplo de Simónides sitúa, como primer elemento para sus fines —en el caso de la retórica, siempre el discurso en público—, una constelación fija de “lugares” (en griego: topos, en latín: loci) que le son bien conocidos, por ejemplo, su casa o el foro. En esos lugares deposita en ordenada sucesión los distintos contenidos de la memoria tras haberlos transformado en “imágenes” ( en griego: phantasmata, en latín: imagines), si es que no lo son por naturaleza. Éste es el logro de su “imaginación” (en griego: phantasia, en latín: imaginatio). En su discurso, el artista de la memoria sólo tiene que recorrer mentalmente (en latín: permeare, pervagari, percurrere) la sucesión de lugares y evocar por orden las imágenes. Este arte se desarrolla siempre, por tanto, en un paisaje de la memoria, y en ese paisaje todo lo que ha de ser recordado de manera fiable tiene asignado un lugar. Sólo el olvido carece de lugar
Harald Weinreich
   06
un día Simónides fue a ver a Temístocles y le ofreció enseñarle la mnemotecnia, de forma que con su ayuda “pudiera acordarse de todo” (tu omnia meminisset). Temístocles respondió que no necesitaba mnemotecnia alguna. Mejor que a recordar todo lo posible, prefería que le enseñara a olvidar lo que quería olvidar (gratius sibi illum esse factorum, si se oblivisci quae vellet, quam si meminisse docuisset). Según otra versión de la misma anécdota, Temístocles respondió escuetamente que no estaba interesado en un arte de la memoria sino en un arte del olvido (ars oblivionis).
Harald Weinreich
 07
La muerte es el más poderoso agente del olvido. Pero no es omnipotente. Porque, desde siempre, contra el olvido en la muerte los hombres han levantado las murallas del recuerdo, de tal modo que las huellas que permiten seguir la memoria de los muertos pasan por ser, entre prehistoriadores y arque logos, los signos más seguros de la existencia de una cultura humana. Los rituales de culto a los muertos, con sus intercesiones, sacrificios y prendas funerarias, sirven sin duda en muchos casos, ante todo, para asegurar al fallecido un cierto bienestar en el más allá. Pero los monolitos funerarios siempre actúan también como “monumento”, advirtiendo a los vivos que no deben olvidar a sus muertos... o que deben olvidarlos progresivamente, porque “la vida sigue”
Harald Weinreich
 08
la palabra aletheia, “verdad”, que
naturalmente ocupa un lugar central en el pensamiento de los filósofos griegos. El primero elemento de
la palabra, a­, es sin lugar a dudas un prefijo de negación (alpha privativum). El elemento anexo ­lethdesigna algo escondido, oculto, “latente” (esta palabra latina está emparentada con ­lenth­), de forma
que la verdad, por su significado literal, aparece —con Heidegger— como lo no escondido, no oculto,
no “latente”. Pero como el elemento de significado  ­leth­  aparece también en el  [p. 20]  nombre de
Lethe, el mítico río del olvido, por la formación de la palabra aletheia se puede entender que la verdad
es también lo “no olvidado” o lo “que no hay que olvidar”. De hecho el pensamiento filosófico de
Europa, siguiendo a los griegos, buscó la verdad durante muchos siglos en el lado del no­olvido, es
decir, de la memoria y el recuerdo, y sólo en la Edad Moderna hizo el intento, más o menos titubeante,
de otorgar también cierta verdad al olvido
Harald Weinreich
 09
El  olvido, oculto o yacente  en las  profundidades, es  pues, por su naturaleza, oscuro;  es  el
“tenebroso olvido” (Schiller), “el sombrío olvido” (Víctor Hugo). Incluso en campo abierto y a la luz
del día, el olvido está oscurecido por nubes (Píndaro) o por la niebla (Jorge Semprún). Esto no tiene
forzosamente que tener connotaciones negativas; también el suave crepúsculo fomenta el olvido cuando
se anhela a éste
Harald Weinreich
 10
como sucede en unos versos inolvidables del “Nocturno” del poeta alemán Matthias
Claudius:
El mundo está tranquilo
Y envuelto en el crepúsculo
Tan familiar y amable,
Como cuarto silencioso
Donde el día penoso
Al sueño y olvido marche.
“Sueño” y “olvido” son en este poema casi sinónimos. De acuerdo con esto, también Paul Valéry
escribió   una   vez:   “Dormir   es   olvidar”  (S'endormir   c'est   oublier).  Por   eso,   no   poder   olvidar   es
comparable al insomnio; Nietzsche sufría de ambos. De ahí que traer a la memoria algo olvidado (en
francés rappeler, “recordar”) equivale casi a la llamada al despertar.
Harald Weinreich
  11
Leteo es ante todo el nombre de un río del infierno que otorga el olvido a las almas de los muertos. En esa imagen y ese mundo de imágenes, el olvido se sumerge por completo en el elemento líquido agua. Hay un sentido profundo en el simbolismo de esas aguas mágicas. En su suave fluir se disuelven los duros contornos del recuerdo de la realidad, y son de esa manera liquidados.
Harald Weinreich
 12
Entre las notas a cuyo uso se había acostumbrado, Kant en apoyo de su memoria se encontró un papel en el que decía, de puño y letra de Kant: “El nombre de Lampe ha de ser totalmente olvidado”. De este hallazgo entre los papeles de Kant se asombra en extremo el albacea Wasianski, que percibe en la nota “un peculiar signo de la debilidad de Kant”... lo que por el contexto hay que entender como “senilidad”. Porque la anotación, añade Wasianski para explicar su apreciación, sirve, como es sabido, para que algo se conserve de manera fiable en la memoria, y no precisamente para olvidarlo. Forzar a la memoria a fomentar el olvido le parece al discípulo de Kant una contradictio in adiecto, que no se puede esperar de un profesor de lógica
Harald Weinreich
 13
¿Qué logra pues o qué yerra la escritura al servicio del olvido, ancilla oblivionis?
Harald Weinreich
  14
Ese debilitamiento se manifestó sobre todo en una disminución, primero incipiente y después en rápido progreso, de su memoria, que quizá, si los síntomas pueden ser aún hoy interpretados correctamente, pueda diagnosticarse avant la lettre como enfermedad de Alzheimer. Esa espléndida, inmensa memoria, que tantos motivos de elogio había dado en su vida anterior, se disolvía en la nada, y con ella el genio del “mayor  filósofo de su tiempo” (Jachmann). Una imagen lamentable se ofrecía a los amigos, y Jachmann —profundamente conmovido por el hecho de que el amado maestro ya no le reconociera un día—
Harald Weinreich
 15
¿No será quizá la nota de Lampe no recordatorio de un imperativo pragmático, sino expresión de la resignada entrega a la fatalidad del olvido, que cae sobre él implacable, y en cuya noche ahora ha de sumergirse?
Harald Weinreich
 16
El guardián alimenta, con buenas palabras y una modesta cena, el deseo de vivir que está brotando, y cuando las dos mujeres han probado las comidas, también el amor comienza a brotar. No pasa mucho tiempo antes de que la vida de la hermosa viuda prosiga felizmente con su segundo marido, el guardián. Así, por una vez en la
literatura (con mucha más frecuencia en la vida), la comida y el olvido son aliados, y la vida, en alianza con ambos, ha vencido.
Harald Weinreich
 17
El caso se plantea porque el pequeño Sansón cuida temeroso de que nadie mueva en su habitación ni el menor  objeto. Porque,  dice  el  narrador, “sus muebles  y  demás  efectos le  servían  de  ayuda, conforme a los preceptos de la mnemotecnia, para fijar en su memoria toda clase de datos históricos o frases filosóficas”. ¿Puede esto salir bien? No, si hay una criada que quiere limpiar. En ausencia del estudioso Sansón, saca resuelta un viejo baúl de la habitación y vacía además los cajones de su cómoda. Se produce la catástrofe para la memoria. Porque cuando el pequeño Sansón vuelve a casa, no halla nada en su sitio en el familiar paisaje de su memoria. Todo está confundido y olvidado: los datos de la historia asiria  no menos  que las  pruebas  de la inmortalidad  del alma, trabajosamente  recogidas  y localizadas en buen orden en los cajones de la cómoda
Harald Weinreich
 18
El doctor Luria acuña para estas estrategias, de forma paralela al bien conocido concepto de la “mnemotecnia”, el neologismo “letotecnia”,   dando   al   río   del   olvido,   Leteo,   la   patente   lexicológica.   La   estrategia   más importante, y a todas luces más exitosa, de este arte del olvido consiste paradójicamente, según el doctor Luria, en que Seresevski lleve al papel lo que quiere olvidar. A veces este truco es ya suficiente para borrar el correspondiente contenido de la memoria, y si no, el artista de la memoria convertido en artista del olvido rompe la nota escrita y tira los trozos de papel, o los quema. Esto parece en todo caso ser de utilidad. Es interesante que la escritura, a la que normalmente concedemos tan elevado papel para la memoria cultural e individual, se ponga aquí, dando un peculiar rodeo, al servicio del olvido.
Pero en nuestras consideraciones precedentes ya hemos que Platón entendía la escritura, incluso aunque no fuera destruida, como enemiga de la memoria natural.
Harald Weinreich
 19
Son miles y miles comprándose y vendiéndose, cruzándose, relacionándose con la relación más habitual de los dos o tres mil últimos años —yo te doy algo, vos me das algo—, como en tantos lugares del planeta ahorita mismo. Solo que aquí lo que se vende se ha producido cerca y lo venden, en general, los que lo hicieron y, además, las vendedoras se visten diferente. El mercado de Chichicastenango es un refugio, un resto: de los mercados de antes de la unificación del made in China; de una cultura que el mundo se va tragando poco a poco.
Caparrós
 20
El sistema es así: en el mercado existe —subsiste— un núcleo duro de mujeres que venden, como siempre vendieron, sus flores y pollos y frutas y verduras y tejidos, sus hechuras, y se visten como siempre se vistieron y hablan como siempre hablaron. Entonces hay personas de otros sitios que, atraídas por ese fenómeno en vías de desaparición, vienen para verlo. Entonces hay personas que, atraídas por la presencia y el dinero de esas personas de otros sitios, vienen para venderles otras cosas, sobre todo esos productos que, hechos cada vez más en serie, se venden porque se ven hechos a mano —y solemos llamar artesanías.
La artesanía y el turismo: quedarse con algo que te recuerde que estuviste en otra parte, que no siempre fuiste este en este escritorio, en este banco.
Caparrós
 21
En el mercado de Chichicastenango pululan esas personas de otros sitios, los turistas. Ellos sí que saben: vienen porque les dicen cómo son las cosas. Lo leí en una de sus guías: «Si quiere conocer el verdadero espíritu de América Latina vaya al mercado de Chichicastenango». En esos días yo buscaba, por supuesto, el espíritu de América Latina, y decidí venir a verlo. La idea de un espíritu de jueves y domingo era inquietante, pero estaba dispuesto a soportarla. Más me inquietó, en realidad, que fuera este: un mercado marcadamente indígena en el país con mayor proporción de indígenas de América, con mayor proporción de campesinos de América, con mayor proporción de desnutrición y mortalidad infantil de la América hispana, con la violencia desatada. La decisión tan clara de pensar América Latina como el cliché de siempre.
Caparrós
 22
Esto, claro, debe ser lo latinoamericano: tenemos un espíritu.
(Así se percibe: como un espacio silvestre peligroso o, en el mejor de los casos, uno donde deberían preservarse ciertas cosas que el resto del mundo occidental está perdiendo. Un espacio donde lo importante es conservar.)
Y me inquieta, siempre, en general, esa tendencia a suponer que lo auténtico es lo que hacíamos «antes» —antes de algún cambio, antes de alguna mezcla— y que lo que hacemos ahora es impuro y bastardo y que se debe buscar lo que quede de aquello allí donde se encuentre. Sobre todo, claro, en esas sociedades más o menos «primitivas».
Si alguien quiere saber cómo es «Europa» no piensa en ir a ver pastores de renos en Laponia o chicas traficadas en Moldavia o desocupados napolitanos en sus bloques de viviendas sociales pero a muchos se les ocurre venir a Chichi o ir al Cuzco para saber de «América Latina». El reparto de roles en la película global está bastante claro: los que van a París van a la torre Eiffel, gran momento de la máquina moderna, y en Nueva York se amontonan ante las pantallas de Times Square, técnica de punta, o en los malls de brillitos; los que vienen aquí buscan restos del pasado folkie. Y no es solo el turismo; en general, para muchos millones, a lo lejos, aquí lo auténtico es lo que ya no es; en otros sitios no cargan ese lastre.
Caparrós
 23
Deberíamos serlo y no termina de sucedernos: somos nuestro fracaso de nosotros.
Caparrós
 24
Pensamos que somos un fracaso permanente porque no somos lo que deberíamos, en lugar de pensar que esto es lo que somos.
Caparrós
 26
Inventar patrias es, antes que nada, establecer diferencias entre tierras que eran una y la misma. Convencernos de que un argentino correntino que habla en guaraní es algo radicalmente distinto de un paraguayo que habla en guaraní y vive del otro lado del río, y debía incluso ir a la guerra contra él, cuando había guerras, o recordarlas y cantarlas cuando no. Y que un peruano que habla quechua en una orilla del lago Titicaca es enemigo de un boliviano que habla quechua en la otra. Y que un colombiano que habla el mejor castellano en C��cuta debe pelearse y rechazar a un venezolano que habla tan parecido cruzando el puente en San Antonio —y así de seguido en todo el continente. Las naciones: el gran mito moderno. Sus fronteras.
(Hubo tiempos, tantos, en que no existían las fronteras porque no existían los países. Los límites se borroneaban, los espacios se confundían, los territorios se mezclaban. La frontera es otra de esas cosas que nos vendieron como eternas, naturales: como si no pudiera haber un mundo sin fronteras. Es falso: así fue la mayor parte de la Tierra durante la mayor parte de la historia.
Caparrós
 27
(Pensemos la metáfora del coro: un coro es un conjunto de distintas voces que terminan por formar una voz.) O sea, la pregunta: qué es Latinoamérica, qué es ser latinoamericano. Parece una pregunta tonta, pero yo aprendí a respetar antes que nada las preguntas tontas. Creo que cuando uno llega a la pregunta tonta es que está empezando a abordar realmente la cuestión, está acercándose a algún núcleo. Y entonces esa pregunta, aparentemente tonta, resulta central. Todo consiste, entonces, en saber qué sería ser latinoamericano, o sea: qué, más allá de las patrias —esas diferencias tan laboriosamente construidas—, nos asemeja, nos une, nos reúne. Dicho sin vueltas: qué carajo tenemos en común.
Caparrós
 28
En América Latina durante tres siglos no hubo patrias, porque un par de patrias lejanas la ocuparon. Y antes que eso no existía América. Mal o bien que nos pese, América como concepto es un invento de esa invasión: la invención de América.
Caparrós
  29
De las venas abiertas de América Latina caía almíbar: ese almíbar amargo que te endulza la desgracia con el relato de injusticias que siempre fueron culpa de otros, ese almíbar amargo de sentirse víctimas.
Caparrós
 30
Está claro que somos otros. Es obvio: nunca nadie es como lo ven, nunca nadie es como era. Pero hay grados, y es muy notorio que Ñamérica y sus habitantes hemos cambiado mucho en las últimas décadas, y ya no somos los que éramos: lo que muchos, distraídos, suponen que seguimos siendo. Somos otros.
Caparrós
  31
De ahí una de sus paradojas más notorias: los ñamericanos viven en las ciudades pero, en general, buena parte de las riquezas de las que viven —animales, vegetales, minerales— vienen de tierra adentro, de la naturaleza. Ñamérica vive de ella, y hay quienes pueden, por eso, pensar en nuestras ciudades como parásitos de esos dones naturales; la realidad, como siempre, es más compleja. Pero sigue siendo cierto que vivimos de lo que crece o creció en la tierra, arriba, abajo.
Caparrós
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lasvocesdelosotros · 1 year
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junio 2022
01
Quería traducirlo.
Quería traducirlo para ti, tenerlo para ti en este idioma. Tenerlo  que te digo: tornado. Tornado en la hoja que entenderías. Quiero  entenderlo. Y yo lanzaba(me) al origen, a traducir las palabras,  tornarlas para ti en este idioma. Quiero tender, quiero tornar al  origen. Avenirlo a un idioma que me sea, que me sea tornado //
y que me lleve.
Tarrab
  02
EL SILENCIO ES UNA SUERTE DE ESTRÉPITO ENSORDECEDOR.
Tarrab
 03
LO QUE TE DIGO SE DESHACE EN EL AIRE
Lo que te digo se deshace en el aire. 
Esto que te digo, escúchame bien, se enciende, se deshace en el aire. 
No palidece y cae para estrecharse entre las ramas y las brozas 
y los restos de una naturaleza ya caída, 
se pica y se impacienta, 
se enciende e incinera antes de llegar. 
Su destino. Esto que te digo, 
no es sublime, sino etéreamente irreconocible. 
Llega a tus oídos (pavesa, reliquia del carbón), porque lo que se alza y se arroja tiene que llegar, 
tocar algún punto en su impaciencia. 
Aunque lo hace —rebasa, quiere meterse— como algo ya crispado, 
ya molido en su agitación y su prisa. 
 De ser algo, esto que te digo, sería la neblina implacable de ese paisaje al pie del Lago. 
Un lago que, tras la vehemencia, descansa en sus heridas, 
un lago que no vi, pero que me mostraste como una imagen distante y blanca: 
aquí estuve sin ti. Éramos algo. 
 Antes de decir, lo que te digo, antes de rayarse en el aire, 
las palabras si acaso serían eso: eclipses, 
paisajes de nada que aparecen de pronto y vuelven a romperse. 
Ciudades derruidas, almas derruidas, consumiéndose en el aire. 
Pero lo que se alza y quiere penetrar nació para perderse: 
la palabra escucha, imperativa y perniciosa, la misma palabra protectora, 
con su bardo de maldición, la palabra sorda, auscultando los ritmos lentos, 
las palabras remanso de las palabras se queman y se acaban en el aire. 
Estas almas, estos seres convulsos que en algún momento fueron visos, 
señales de orientación para las civilizaciones farsantes
hoy crecen y se escuecen en la boca.
Yo las digo con una maldición. Yo  las digo
para verlas romperse y llegar a su destino incierto ya perdidas. 
Con un olor de inmisericordia en el aire. Esto que digo 
se deshace, se pierde como los emporios y las almas en su clamor contrario: 
la neblina de una embocadura. Esto, 
mi resabio negro todavía encendido, mi asolada y tonante, envilecida. 
Tarrab
04
señales de orientación para las civilizaciones farsantes
hoy crecen y se escuecen en la boca.
Yo las digo con una maldición.
Tarrab
 05
Sobre el sonido y el nombre y la muerte:
Y el carácter onírico
Tarrab
 06
GRANADAS
Los árboles estaban peligrosamente
entremezclados con la imagen del hombre.
Hay un campo. Como en un sueño bucólico, las granadas se inclinan hacia mí. Extiendo un brazo y las tomo. A veces escucho sus cuerpos estallar contra las losas, en mi patio. La gravedad no tiene que ver con ese estallido. Lo seco del golpe, lo sordo. Hay erizos, cabezas contrahechas, contra el suelo. Campos. Me inclino para verles el rocío sobre la piel, en la mirada: labios, esferas pequeñas a punto de estallar. Algunas granadas arrojan una leche densa y azul. Leche de almendras por las bordas del corazón. Olor a muerte en los hilos de la savia, olor a muerte, aire cargado de carne. Zumbidos sobre el tejido de la sábana, debajo de mis párpados. Insectos, frutos calcinados. En un mensaje lento parecen decir: Tienes el nombre de un pastor. Tu nombre corto para repetirlo en la muerte. En otro sueño, las granadas jamás caen. Se abren y desfloran en las ramas. Sus granos se pudren. Los picos de las aves penetran. Delirio: su mirada ensangrentada. Por las noches yo estoy mudo. Veo la fuerza de la sangre, bebo la leche. A veces extiendo un brazo para tomar una granada intacta. La siento arder entre las manos. A punto de volar, su centro. Cetro, savia oscura.
Tarrab
 07
Lo más aturdidor es el silencio por dentro.
Tarrab
 08
esta conversación en oídos de otros. Una violación, 
la penetración de las palabras en oídos de otros. 
Como en una novela de la tele, dicha así: 
líneas de diálogos o cultos. Lo más aturdidor.
Tarrab
 09
¿Y qué hay del mundo-No? Cuando alguien repasa la cabeza de alguien, 
animal de cabeza, la ética del mundo, el abuso oscuro contra la hierba.
Tarrab
 10
Yo respondí que había salido y se había liado con unos árabes. 
Así que puede que no se suicidase deliberadamente. 
 ��Suicidarse es meterse lías-
negras, nudos de cuerda lenta y punta cerrada? 
 Para no decir ¿cortar las palabras? 
O decir esas cosas con el cuerpo: me voy, 
me entona, claro, pero no puedo, diablo, ¿diablito?
Tarrab
 11
Toda su vida latiendo en la garganta.
Tarrab
  12
LLEGUÉ AL MAREMÁGNUM. 
TENÍA UN ENIGMA GRANDE EN LA CABEZA: 
UN ENIGMA NO FORMULADO.
Tarrab
 13
No me veía en los otros ni me veía en mí. 
No sentía el cuerpo ni me sentía muerto: 
era el prójimo. Era el ruido. 
Las ganas de echarte 
el lienzo contra la cara.
Tarrab
 14
TOQUÉ EL MAREMÁGNUM, QUE ES TOCAR LA CONFUSIÓN. 
ROCÉ LA ESPALDA SIN QUE SE DIERAN CUENTA.
Tarrab
 15
OUR ART. FIGURA DE DOS CABEZAS
 We’re here to hate each other. 
There’s a song whose lyrics say (I’m no good at translation): 
 We will take off our clothes 
We undress in the darkness 
We’ll take our clothes off in the dark 
And they’ll be placing fingers through the notches in your spine 
And my fingers will pass through the holes in your spine 
And my fingers my fingers will walk the crenellations of your spine 
 And when all is breaking everything that you could keep inside 
Now your eyes ain’t moving now 
They just lay there in their climb 
Tarrab
 16
Nació así. Yo dormía, pero no era seguro que estuviera soñando. Tenía un tumor en la cabeza o, mejor, el dolor de un tumor, una semilla. Cada vez que lo tocaba (tume- turbación) nacían palabras entre el dolor. Palabras que no eran mías y eran mías, en el umbral de otro idioma. Algo que había vivido y continuaba ausente
Tarrab
 17
THE LETTER
I am not feeling strong yet, but I am taking
good care of myself. The weather is perfect.
I read and walk all day and then walk to the sea.
I expect to swim soon. For now I am content.
I am not sure what I hope for. I feel I am
doing my best. It reminds me of when I was
sixteen dreaming of Lorca, the gentle trees outside
and the creek. Perhaps poetry replaces something
in me that others receive more naturally.
Perhaps my happiness proves a weakness in my life.
Even my failures in poetry please me.
Time is very different here. It is very good
to be away from public ambition.
I sweep and wash, cook and shop.
Sometimes I go into town in the evening
and have pastry with custard. Sometimes I sit
at a table by the harbor and drink half a beer.
(Linda Gregg)
 18
PREGUNTAS
¿Escribimos poemas para preservar la especie?
Escribimos poemas y trazamos rutas
para transmitir una información que muestre
cómo seguir la vocación de alegría:
luciérnagas
bacterias luminosas.
Echarse al lomo de la loba bosque arriba.
Detener es otra forma de fluir.
(Maricela Guerrero)
 19
COLLECTING STICKS
The girls wore the names of their fathers like little necklaces
 The boys wore the names of their fathers like jewels I mean like tattoos
 The names of the mothers fell off
 Like how a bird’s nest erodes inside months
 It’s okay     Months are always making new girls
 Girls make themselves into new mothers the way a bird collects sticks
 The girls wear their fathers’ names and then inscribe their husbands’ names:     a tattoo of a necklace around the throat
 The names of the mothers fell off
 Pryor     York     Bond     Moore
 There aren’t any others I know
 Mama York making biscuits in her little wood-burning stove
 A mother didn’t have a name to bestow
 The mother an antique lullaby     A nest is only made of sticks and spit and dirt
 A sweet voice breaks down into soil
 Shouting into the closed-off years
 Dies.     and here’s another little self
 Who dies.     and pushes a piece of herself into the future
(Emily Bludworth de Barrios)
  20
ULTIMA THULE, EL ASTEROIDE
Se llama Ultima Thule y también es un fin,
no es siquiera un planeta, es solo un asteroide
a 6500 millones de quilómetros
del Sol al que contempla desde su frontera,
a esa estrella incendiada que rige nuestras vidas,
la nuestra, humana, ínfima,
como la suya, lejana, sombría.
Treinta o cuarenta metros son su cuerpo
de piedra sin origen conocido,
que el telescopio Hubble descubrió
el 26 de junio, allá en 2014.
 El telescopio, monstruo de mil caras,
trajo la noticia a este planeta
que también gira como el Ultima Thule,
azul la Tierra, rojo el asteroide
2014MU69
que la nasa apodó Ultima Thule,
homenaje al país de los misterios,
y último ser celeste que obediente
orbita alrededor de un Sol que es nuestro y suyo.
 ¿Tampoco Ultima Thule podrá huir
de su lento, obediente gravitar?
Navega en el vacío y su año dura
unos 298 años terrestres
o más exactamente
108.273 días
El monstruo de mil caras lo escrutó,
lo fotografió en su último límite,
mágica piedra solitaria, casi
el más allá, casi el abismo, casi
una carrera libre en la galaxia
que él ya no correrá, ni ganará
el infinito en que los cuerpos leves
desafían los agujeros negros
que amenazan tragarlos para siempre.
Y juegan su carrera hasta la muerte
pero ya no orbitan alrededor
de la estrella inmóvil cuya luz
se va desvaneciendo entre planetas
y no alcanza a su último asteroide.
 No es siquiera un planeta y cumple su destino
alrededor del mismo sol que Mercurio,
Venus, la Tierra, Marte, Júpiter,
Saturno, Urano, Neptuno, y Plutón
y el cinturón de Kuiper, ese séquito final
de Ultima Thule. Y yo escribo este poema,
y es solo un devaneo, no sé
por qué lo escribo en la noche de Santos,
por qué no salto al último silencio,
mientras veo la Luna levantar mareas
con sus peces profundos y sus monstruos
que también viven sin saber por qué.
Giran los astros sobre mi cabeza,
sobre el océano y la ciudad de Santos,
como gira el destino, como gira
a quilómetros luz mi Ultima Thule
que tampoco sabe por qué gira al borde
del sistema solar donde es de noche
y no salta a la galaxia y desafía
su propio fin, como un reto, el destino sideral.
(Alfredo Fressia,
1948-2022)
 21
THE ONE WHO BROKE AWAY, SUDDENLY
where do we go and where do we come back from we bite our tails and go around in circles the sun is more brilliant than the day but can never break away from its orbit the countless stars are colder than the sun but can never break away from their orbits therefore we only go where we are going and we only know what we know and I was a body of nothing without home and temple and gruel and rice and I saw that if one breaks away just once there is no going back but there is that star, that shit falling out of the sky, tracing its brushstroke against the dark night, all too brief yet still making its mark, and I saw the ones who gave up, the ones who broke away, suddenly free
(Kim Joong-shik,
translated from Korean by Jack Jung)
  22
SUN TO GOD
 The children walked.
Then they began to run.
Why are we running, one asked?
No one knew. They ran faster.
They began laughing.
Why are we laughing?
Not one knew. They laughed more.
It was the eve of war but they didn’t know.
The children walked.
The children’s parents walked.
The parents’ parents walked.
Their shadows spilled ahead.
Their shadows lagged behind.
Then, they began to run.
No one was laughing.
(Ladan Osman)
 23
THE PAST STILL NEEDS ME
In a dream, rain ran past me.
Half-shouting, half-stumbling. Tripping over its dress of rain.
Beauty always seems to rush straight through me. On its way to someplace else.
Years ago, a younger, more innocent rain
fell across the doorway where my mother lingered, carrying laundry.
Behind her, cherry blossoms boomed across a cave of pure sky.
Which is how I remember it.
Which is maybe how it happened.
When I look back for too long, the beauty is gone.
In a dream, I walk across a plain carrying books filled with flowers.
People in books carry tulips and secrets and handwritten letters to each other.
Maybe my life is trying to tell me something. These days,
I want to wander. But the past still needs me.
How could I ever leave?
Anyways, a boat is no good in the rain.
I fill my useless boat with useless wildflowers. Sail uselessly across the sea.
When Ulysses asked for wind, it’s because he knew exactly what he would be losing.
My journey is this child made of rain. Already lost. 
When I come back to life, I hope to be more than our suffering.
Like, my god the storm is so shimmering, incredible and glad. I want to break like that.
Over everything.
(Hua Xi)
 24
Our dead
 Underestimate us, time machines drifting at the rate of future’s arrival,
 Venn diagrams of past and speculation
 Where will we repose. Collected. Finger- and jawbone; dusted dictionary
 Xenomorph, alien self, foreign
 You, incarnate in the disciplined nation of the contemporaneous, stranger
 Zealous for the sweet peace of the unborn, as yet unburied.
(Sun Yung Shin)
   25
ODA A LOS ANCESTROS
No hablo del abuelo y su breve lozanía,
 de sus manos ariscas, no hablo
 de su longevo padre, ni de la tía solterona
 que ordeñaba a las vacas,
 ni de aquella cuya muerte a la mitad de otoño
 interrumpió el cultivo de zarzas. Tengo
 demasiados huesos en la boca. Hablo
 de mis otros ancestros: Lucy, la chimuela,
 sus cincuenta y dos huesos,
 su muerte milenaria
 de veinte años,
 todas sus fracturas.
 Hablo de sus hijos
 no sabemos cuántos, dónde,
 y de sus allegados:
 Ardi, la de largas manos,
 hallada junto a un río, su cadáver
 recogido por partes y sus huesos
 constelados sobre un fondo negro
 son apenas el gesto borroso, movido
 de un cuerpo. Hablo de ese carnal agradable
 que primero encontró en su cara la sonrisa
 e hizo de la amenaza de los dientes
 una señal ambigua de afecto, y de una zarigüeya
 con nombre de tía, Juramaia Sinensis, escasa
 ascendienta de apetito fúnebre, animalia chordata,
 rápida, trepadora, dúctil,
 eutheria, la primera bestia verdadera.
 Y también de los otros, ese
de nombre y vocación heroica, Hynerpeton,
el primero en dejar el agua. Hablo del reino
Animalia, celebro con ardor y arrebato
a ese antecesor fogoso que inauguró el sexo
un buen día hace millones de años,
pero también a los ancianos platelmintos,
hermafroditas, parásitos, parcos,
con su acumulación humilde de neuronas.
Hablo de la simbiosis parasitaria
de eucariotas y procariotas,
de la incipiente mitocondria.
Celebro, al fin,
a esa primera célula organizada,
a la primera huérfana
y la última, a ella, inmaculada madre unicelular,
sin pecado concebida, bendita
entre toda la materia estéril.
A ella, he olvidado su nombre,
Melusina, Laura, Isabel, Perséfona, María,
y bendito es el fruto de su vientre.
(Elisa Díaz Castelo)
 26
I'VE BEEN THINKING ABOUT LOVE AGAIN
Those who live to have it and
those who live to give it.
Of course there are those for whom both are true,
but never in the same measure.
Those who have to give it are
like cardinals in the snow. So easy
and beautifully lit. Some
are rabbits. Hard to see
except for those who would prey upon them:
all that softness and quaking and blood.
Those who want it
cannot be satisfied. Eagle-eyed and such talons,
any furred thing will do. So easy
to rip out a heart when it is throbbing so hard.
I wander out into the winter.
I know what I am.
(Vivee Francis)
 27
MAN-KIND: IN IMAGE OF
we learn what it is to live
inside the enemy's skin:
ashes to ashes, dust to dust,
the spirit lodged in us
like a stone
riding out the difficult light.
(Lucille Clifton)
  28
We fought in my childhood bedroom.
I remember her face, her fury.
 . . .
 This afternoon I scolded my son away
from Mount Major’s steep places. I knew
I was embarrassing. I did not care.
  I have come to the edge of myself
and here can see how some furies
are also love. And how love, where
everything hangs in the balance,
can think of this as an acceptable trade:
Despise me, but survive.
(Jane Zwart)
 29
el hombre es por naturaleza un ser olvidadizo (animal obliviscens). Las percepciones del olvido propio y ajeno forman parte desde la juventud de las experiencias elementales de toda persona, y son una de las plagas de la senectud
Harald Weinreich
 30
"desobtener”. Esto casi es ya una definición del olvido
Harald Weinreich
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lasvocesdelosotros · 1 year
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mayo 2022
01
errores de razonamiento
nadie me ha seguido hasta la disonancia
hasta la especie de este árbol negado
digamos estoy solo en el paraje
de espaldas a mi árbol negado lo imagino todo 
en el puesto de la disonancia intervengo los ramales
las derivaciones de este árbol
en el puesto de la disonancia intervengo sus resinas
recreación
reformulación
engendro
la postproducción de mi árbol negado ofrece una nueva perversión
la postproducción de mi árbol negado es la misma esencia del árbol
la misma perversión 
el mismo escándalo
 la impureza que ofrece la alteración de mi árbol negado 
es un no imaginarse el árbol un no verlo en la disonancia
 como un modo de postproducirlo digo 
imagina en lugar de un árbol un cometa 
una incandescencia
 imagina ese cometa esa incandescencia entrando en la maldad
imagina esa maldad penetrando
rompiendo hacia lo profundo de un cuerpo
 digo un cuerpo inyectado por la maldad inyectada 
por una incandescencia
un cometa
 digo tres existencias —cometa maldad cuerpo— superpuestas
como una modificación de este árbol negado
 como una mediación para no afrontar la misma falsedad en un estado 
más puro
 un árbol negado es la exposición del árbol ante las variaciones
 un árbol negado son los ramales 
las derivaciones de un follaje remontando la intemperie
 serie de mutaciones
serie de no-árboles desprendidos de las llamas 
del viento
 ningún árbol es la-realidad-de-un-árbol
 ningún árbol es una negación
Tarrab
 02
vertical
 lista de preceptos para dotar un corazón
migrantes lectores de un país en otros países
inventario de arquetipos con que uno sobrevive
de golpe abre los labios cruza un sueño recurrente
viñetas coloridas para perder los ojos
uno su cuello dos contempla ahora mismo 
secuencia de una actriz en medio de un incendio 
no existe parlamento hasta la escena final
amigo tarrab pienso este fragmento imposible 
por razones agobiantes que ya van tardando en mi vida
 palabras para no insistir en palabras que repasen la llama
vehemencia con que digo o podría decir 
 letanía ya regreso vengo a buscarte 
sé que estuviste y sigues destruido
 lista de afectos familiares contendientes
en su ciclo terminal
 sueño de versos que nos deslumbraron
inmensidad that design might cover their face 
 especies de dudosa procedencia tractatus
Ypone en riesgo el orden del lugar
 parafraseos intertextos calcinantes
mediáticos usura la ansiedad
 antología de autores que tratan con insectos
diccionarios de la médica arcaica acónito vitriolo
 cadáveres de niños puestos en el corazón
milagros elocuentes sembrados al ropaje 
 las posibles de un amor en una lista de desmayo
de espaldas hasta el celo muestra el torso
 mi padre espera seis siete miradla arriba en el peñasco
rozar las ruinas 
 innovaciones científicas en un campo negativo 
antiopacidad antiquiebre antídoto
 ¿vienes de trento? preguntas ¿qué te parece
acá? ¿a dónde has ido? ¿te han llevado? ¿viste las pirámides?
 enumeración de enfermedades amigo tarrab
tiñas que ya tardan en mi vida 
 vuelta confortable a una galería 
a un mismo lavado dos sillones 30 bpm
 hacia atrás ¿cuál sería la fuerza del castigo?
 encore con unas ganas recitó esa lista
siempre de pie arroja el alma
Tarrab
 03
¿preguntas lo impreguntable? ¿tu ruina es nuestra ruina
ruina de todas las especies?
 ¿ves borroso en los bordes?
y si destrozas la obra cromática aquélla de tus padres ¿reconocerías
los colores?
Tarrab
 04
en algún espacio de la pieza
trastornados ¿soñamos épocas por venir?
 preguntas ¿llevamos cada uno en la parte honda
tirana nuestra propia muerte?
Tarrab
 05
de entre los huesos te crecen las ramas
en el estómago el dolor doblado la mordedura
 no puedo hablar de ti pero igualmente lo hago
Tarrab
 06
Al extremo, oculto, 
orden de los libros
Los plazos están marcados por las fechas. 
Nada de lo que se dijo en ese tiempo tiene que ver con este tiempo: la  velocidad no es invariable, las verdades, en cuanto verdades, fueron dichas. 
La alegría de pronunciar. 
(10 de diciembre de 2007)
 El acto primigenio de nombrar,
palabras primitivas en el Cratilo, fijó la cepa, la esencia de donde emanarían 
las voces, 
palabras derivadas. 
(06 de septiembre de 2006)
 Para un niño, el acto de nombrar 
procede de una serie de cuestiones: preguntas formuladas a partir de un 
grupo primario de palabras —conjunto cardinal—; preguntas puestas en el 
espacio para establecer redes derivativas, 
conjeturas.
Cuando pronuncia rojo 
sus pupilas recorren la gama. El rojo es un pasaje a través del amarillo, el 
siena. Cuando pronuncia rojo la lengua y la pupila —vista o imagen mental 
de ese color— ensamblan un vibrato, una sucesión de movimientos que 
lo vuelcan hacia el origen: la letra р expresa movimiento, “el autor de los 
nombres vio que la lengua, al pronunciar esta letra, lejos de permanecer en 
reposo, se agita fuertemente”. De ahí la palabra griega rein, correr,
ereikein, romper.
Tarrab
 07
Un concepto lleva en su esencia 
la fuerza de su contrario. La distancia guarda, en su condición más íntima, 
un acercamiento. Cuando te alejas pierdes el privilegio de cercanía; ganas, sí, 
la facultad de allegarte de otro modo, lejanía. Cuando te apartas del lienzo 
estás acercándote a la obra. “Lo que puede ser cortado, todo, lo que puede 
andar, puede igualmente no ser cortado, no andar. La razón de esto, es que 
todo lo que es posible no lo es siempre en acto, de suerte que lleva en sí 
también la negación”.
Tarrab
 08 (ensayar)
el texto escribible 
contrario a la serie de opiniones generales es una noción utópica pero ¿existe todavía el arrastre hacia alguna tensión? es la tensión  en sí un nudo que no queremos disolver conservo este amarre como una  resistencia el yo inocuo cansado pide el abandono de los escritos (el  desanudamiento) el yo discontinuo ofrece su pulsión 
su deseo hacia la obra
 una obra que perviva sin su autor 
más allá de los hombres
Tarrab
 09 (ensayar)
no pido fíjese bien 
un ser diluido direccionado hacia alguna suerte de unificación existe 
una traducción y un moldeamiento únicos ahí está el autor 
la obra se mueve como un ser único
un deseo la obsesión de intervenir 
este diálogo destruido
 uno está inmerso en las premisas 
en los fragmentos de algún tracto encallado deseo la turbiedad líneas 
dispersas nos mantienen lejos de la humillación 
(pretensión de babel)
 un deseo 
mantener cada obra como un precioso ser amputado 
como la prótesis persistente para mirar el cielo
Tarrab
 10
nos sabemos situados ante el residuo 
la incertidumbre aminorada conciencia de desdicha una conciencia 
ciertamente nostálgica pero mucho más desasida escribimos desde la 
indefinición desde un no-lugar 
sujetos a la nada travestida
Tarrab
  11
onen
con la promesa infinita lo devolvimos a la tierra
sin exponer el deterioro sin la espera iba ya ungido en su mortaja  en el lino de su arrepentimiento bajaron el cadáver con una grúa los  dolientes lo miramos relucir ante el cielo tatuados en el cuerpo aquel  lienzo impecable iba ganándose el subsuelo en la norma de luz en  aquella emisión magnética pude sentir su mano al desprenderse de la  sábana era un anverso largo y transparente las uñas un tanto crecidas  índigo porque no son los vasos llenos de ti los que te hacen estable ya que 
aunque se quiebren tú no te derramas relato oculto en la sangre sin lamento coloqué la eternidad de una piedra sobre tu sepultura 
¿es ésta mi fortaleza? repetí contigo
Tarrab
  12
La distancia es un sentirse abandonado
Cruzaron la luz del camellón lleno de palmeras. Los miraste cruzar  hacia lo que sentías lejos. Habías despertado sin nadie. En medio de  la luz buscaste su rastro, corriste a la ventana: la distancia es un sentirse  abandonado. Te miraste llorar en el reflejo de cristales, vertido como  una lluvia desviándose a través de la transparencia. ¿Te habituarías  después a viajar, a vivir solo?, ¿a hacerte el café y sentarte dolido en tu mesita americana a soportar el frío? Leerías simplemente algo 
así, lleno de miedo. Como un mamífero recién nacido, pequeñísimo  cordado y pulmonar, indefenso dado entre miles para la preservación.  Así, solo y boca arriba en la oscuridad,
acabarás tal como estás ahora.
Tarrab
 13
La elasticidad es una deformación 
Hablas de tu pesadilla. Hablas así no de un sueño, sino de un acto oscuro cometido por la noche: oscuridad en la oscuridad. Tu piel quiso  marcharse de aquel sitio. Tu mente permaneció ahí atrapada. Era el  acto de bracear, tirar, bracear, hasta deshacer la imagen de aquella  pesadilla. Pero los crímenes permanecen en su sitio. Pero las víctimas  y los criminales permanecen en su sitio. Por más que uno estire, nade  con un crawl perfecto hacia la orilla, se aplica una fuerza elevada y  seguidamente se le quita: el cuerpo no vuelve a su forma inicial, sino que  mantiene un cierto grado de deformación. Se dice ha sobrepasado
el límite de elasticidad del cuerpo.
Tarrab
 14
La negación de un árbol declara una abertura 
(un agujero en los hechos del mundo). La carga eléctrica de un árbol 
negado. Su momento en la perspectiva lo condena a un plano en 
apariencia desnudo de materia, como un agujero negro en lo profundo 
del bosque, como una marca plena no reconocida.
Tarrab
 15
¿Recordaste algo nuestro, sueño impuro,
o a fuerza de repetirlo diez, cien veces
quedó horadado,
sin posibilidad?   
Tarrab
  16
ESCOLIO
Soñé que éramos hordas 
y que había llegado el tiempo de mi muerte. Regresaba entonces, en el sueño, al lugar del nacimiento para terminar con mi vida. Regresaba ahí para  morir solo y encontraba el reflejo de mi alma vacía: el nacimiento es el contraespacio de los nichos, me decía. Era un sueño y no quería morir, era un  sueño y no quería regresar, así que me tumbé en lo que intuí el espacio de  mi nacimiento y me dispuse a soñar. Soñé entonces conmigo como un animal delirante. Rascaba la tierra de mi nacimiento con la ansiedad furiosa de  encontrar. Hundía las garras en la tierra repetidamente para terminar con mi  vida. Los filtros de la pesadilla tornaron la imagen cada vez más confusa. Mi  rostro comenzó a hincharse. Pude ver, dentro de mí, cómo iban creciendo  las entrañas de un tumor profundo. Los labios henchidos desprendían aún  más el peso de la cara, a tal grado, tuve que frenar. Me vi entonces dormido  en el nicho de mi nacimiento, muerto en el reflejo de ese espacio como 
siempre había sido:
—Hermosa y destrozada.
Tarrab
 17
En la piedra el drama, 
la alteración,
el nacimiento.
el aislamiento.
Tarrab
 18
En el cruce de una vía,
cuando pretendes ponerte a tono con los otros caminantes, algo  se endereza o tuerce ahí dentro. Una minucia en la cadencia de  los pasos, ¿dudas? Por una fracción tu corazón de síncopes queda  al descubierto. Como si una fuerza externa, extraña, que en realidad eres tú mismo, te orillara levemente hacia el derrumbe. No  hay risas ni aplausos. Muy dentro reconoces el daño: a) La letra de  esa canción alterada, no sólo el ritmo alterado: la condición de los  arpegios. b) Mientras te apartas de esta doble línea blanca y continua sales de cuadro.
Tarrab
 19
f) En la página 71, ¿lo recuerdas?, Maturana y Varela apuntan:  las máquinas autopoiéticas pueden ser perturbadas por hechos  externos y experimentar cambios internos que compensan esas  perturbaciones. Ergo, el contrahecho compensa el exterior monstruoso ¿Es la arritmia en sí un corte perverso?, ¿un arresto fuera de  su curso? Una línea de este paso de cebra, apunto, 
se desata sutil o aceleradamente.
Tarrab
 20
4. La luz traspasará el silencio de las estructuras.
Los pilares y las jácenas transmutarán hacia el cristal.
 5. En los filones de caliza hibernará el mármol.
Se buscará en el ónice la provisión para el invierno.
 6. Las fachadas no serán más las fachadas.
Naturaleza y estructura se turbarán despacio.
 7. Buscaremos el ingreso con la luz.
Con la luz el silencio: casi nada.
Tarrab
 21
Carmen Fernández. Segunda meditación
Pálida, con la espera marcada, 
pensó en colgarse frente al espejo. Mirar su pensamiento de ahorcada, onírica, en un vuelo de varias noches. Mirar su nombre, Carmen, y el legado hacia sus hijos que también pensarían  en colgarse, meterse hondo al pensamiento. Fijé la cuerda, después de dos generaciones, tuve el impulso. El dramatismo de la  lámpara, el cable eléctrico: su materia de luz. Miró los árboles  deshojados, la pendiente que se enreda varias veces. Calculó (espera) cuánto tardarían en hallarla, en ponerla nuevamente
en su sitio.
Tarrab
 22
Carmen Fernández. Tercera meditación
No llegó a enredarse, 
meterse hondo al pensamiento: dolencia, la curva de juicio de  los ahorcados. Pensó en sus hijos. Los hijos de sus hijos velando  el vértigo, rumiando la corteza de algún cítrico —más amarga la  palabra—. Algo de la creación, del pensamiento delirante en las  galaxias: el amor es otra cosa. Oculta la traición, el amor. Llama  en círculos, y yo espero. Una voz cercana a la espiral, un espíritu, un cuerpo, aniquilados. Pensó en colgarse: Mujer vértigo,  la tocada en las veces. Quise flotar con mis membranas, Mujer  monstruo, con mi ceniza de galaxia, quise flotar. Mujer pájaro,  ¡Mujer lámpara! El augurio improbable. Más cercana al fuego  que a la horca, 
quedé tocada.
Tarrab
 23
Evocaciones en torno al suicidio. Cuarta meditación
Yo soy el hijo de sus hijos, 
el amor, la llama en círculos. Alguna vez quise enredarme, lanzar  mi cuerpo y tal vez mi pensamiento. Jamás lo supe. Tenía nueve  y maldecía. Terrores nocturnos: series de números consecutivos  avanzando, primero despacio, cada vez más impacientes. Los  criadores intentan cubrir a una yegua. Se rehúsa. Finalmente lo  consiguen. El caballo, que sabe ha nacido de esa yegua, se precipita intencionalmente desde lo alto. No es el aniquilamiento. No  un algo contra sí, contra natura, sino el dominio de ese algo que  nos lleva. Hoy veo distantes mis días de la horca, mi paso por el  fuego. Casi nunca me recuesto desnudo, para soñar algún detalle en la impaciencia. Hablo de días satisfactoriamente oscuros:  sentir clavada una semilla. Enfermedad de generaciones
de generaciones en el cuerpo.
Tarrab
 24
PORQUE LA IMAGEN DEL PASADO ES UNA IMAGEN QUE AMENAZA CON DESAPARECER CON TODO PRESENTE QUE NO SE RECONOZCA ALUDIDO EN ELLA. ARTICULAR HISTÓRICAMENTE EL PASADO NO SIGNIFICA CONOCERLO “TAL COMO VERDADERAMENTE  FUE”. SIGNIFICA APODERARSE DE UN RECUERDO TAL COMO ÉSTE RELUMBRA EN UN INSTANTE DE PELIGRO. 
(WALTER BENJAMIN)
En Tarrab
 25
Retuve el peligro, 
el recuerdo de la ira 
con que despoja y nace.
Animales del tedio, yo mismo
abriendo mi relato. Intentando 
hacer materia, que son crías relumbrantes 
en el exceso: la ira.
Yo también brillé por la supervivencia,
afané con un grito un destello, 
un campo de antenas repetidoras.
Tenía el rostro de vidrios, templos 
cargados de argucia algo, 
como un golpe en la sonrisa 
algo, manadas de manadas a caballo.
Logré que me amaran tanto,
hazaña de arpones, 
esplendor con mi figura desfigurada.
Iba a morir.
Retuve entonces la cifra contagiada, 
sus plagas trópicas, palabras de palabras 
alargaron el recuerdo.
 Está forzado —dijo— a ser esclavo 
de otros hombres esclavos.
Un nuevo desorden de tristeza.
Así el recuerdo,
 nuestras crías relumbrantes 
en la línea del peligro.
Tarrab
 26
Tal como lo he soñado. Segunda Variación
Será mejor no decir, 
no decir será como un mugido,
un graznido desde la parte honda: 
una explosión en la caja del pensamiento.
 Abro la boca y continúo. 
Decir nada que aluda a algo o nada 
desde la parte que acaba, 
esto es, que termina el pensamiento, lo corta.
Queda entonces esto, sólo esto enfermo.
 Un mugido, un bramar que relumbre pesadilla.
Aleteos del padecimiento,
la descomposición. El sonido
tal como lo he soñado.
Tarrab
 27
SABOTAJE A UN PUENTE DE CALATRAVA EN VENECIA
Se pensó el vaporetto para los minusválidos. 
Se pensó el vaporetto que cruza el Canal en ese punto. Pero  hubo un error en las evaluaciones: amenazas, la suspensión de  las palabras fundacionales. Un daño para la ciudad. El alcalde  habría exaltado la obra con un nombre antifascista. Le habría  llamado Puente o Libertad, si las condiciones de advertencia no  hubieran traspasado. En Oviedo quiso construir unas torres a su  estilo: 22 pisos a 150 metros de la Catedral. En el aeropuerto de  Bilbao unas curiosas estalactitas brotan de los aleros. Lo siguiente  explorará la torsión, la idea del arco, el puente. El equilibrio estático del puente, el puente como un cuerpo. La condición suspendida, análoga al corazón. Cuando se mira un puente, de frente o  desde atrás, no puede pensarse sólo en el metal, se está mirando  la extensión: el vuelo. La obra se convertirá, tarde o temprano,  en un trazo nuevo y distintivo para la ciudad,
atraerá a más turistas.
Tarrab
 28
EVOCACIÓN DE UN RUIDO INTERIOR DE ROLAND BARTHES
UN DÍA, A MEDIAS DORMIDO SOBRE EL ASIENTO DE UN BAR, INTENTABA POR JUEGO ENUMERAR TODOS LOS LENGUAJES QUE ENTRABAN EN MI AUDICIÓN: MÚSICAS,  CONVERSACIONES, RUIDOS DE SILLAS DE VASOS, TODA UNA ESTEREOFONÍA CUYO LUGAR EJEMPLAR ES UNA PLAZA DE TÁNGER (DESCRITA POR SEVERO SARDUY).  TODO ESTO HABLABA EN MÍ (ES BIEN CONOCIDO) Y ESTA PALABRA LLAMADA
“INTERIOR” ERA MUY SEMEJANTE AL RUIDO DE LA PLAZA, A ESA GRADACIÓN DE VOCES QUE ME VENÍAN DEL EXTERIOR: YO MISMO ERA UN LUGAR PÚBLICO, UN  SUK; PASABAN EN MÍ LAS PALABRAS, LOS TROZOS DE SINTAGMAS, LOS FINALES DE FÓRMULAS, Y NINGUNA FRASE FORMABA, COMO SI ÉSA HUBIESE SIDO LA LEY DE ESE LENGUAJE. ESTA PALABRA, MUY CULTURAL Y MUY SALVAJE A LA VEZ, ERA SOBRE TODO LEXICAL, ESPORÁDICA, CONSTITUÍA EN MÍ, A TRAVÉS DE SU FLUJO
APARENTE, UN DISCONTINUO DEFINITIVO: ESTA NO FRASE NO ERA ALGO INFORME QUE NO POSEYESE EL PODER DE ACCEDER A LA FRASE, QUE FUESE ALGO ANTES DE LA FRASE, ERA MÁS BIEN ALGO QUE ETERNA, SOBRIAMENTE, ESTÁ FUERA DE LA FRASE.
(ROLAND BARTHES)
En Tarrab
 29
Está en mí, está fuera del aire,
del Tánger, de la frase Tánger descrita por sus plazas, por sus  sonidos de arrollo: he pasado años y años a la escucha en mí de algunas voces. Mi escritura ha girado alrededor de ellas como un  ciclón alrededor de un centro calmo. Frases discontinuas, masticadas en el exterior, trozos de palabras ardientes, brillantes trozos de sintagma, algo inquietante, frases fuera de la frase, ruidos  de sierra cercenando, acometiendo las conversaciones. Algunas  voces no se separan: la voz de mis padres diciendo, la propia voz  destrozada, material, fonética, su eco en el recuerdo.
La imagen astral de esa voz.
Tarrab
 30
VARIACIÓN A UNA IDEA DE DESTRUCCIÓN
DE WILLIAM CARLOS WILLIAMS
Complete destruction
It was an icy day.
We buried the cat,
then took her box
and set fire to it
in the back yard.
Those fleas that escaped
earth and fire
died by the cold.
(WILLIAM CARLOS WILLIAMS)
En Tarrab
 DESTRUCCIÓN
(Temblábamos)
Con las manos entumidas,
enterramos al gato. En el baldío,
detrás de la casa, 
le prendimos fuego: 
la caja, el gato.
Las pulgas, que escaparon a la tierra y al delirio, 
murieron junto al hielo.
Tarrab
 31
ARTIFICIO
Planteado desde el artificio 
de la iteración (anáfora, epífora, aliteración) un texto no puede  destruirse a sí mismo. Provoca, eso sí, el fastidio propio de lo  rutinario. Evocación de los mecanismos de reproductibilidad;  maquiladora; peroratas religiosas que amotinan la ilusión; fotocopiadoras en un trabajo de insistencia. Un sistema no puede 
(auto)destruirse utilizando los recursos de su propio sistema: palabra contra la palabra. La afirmación se suma a la serie de malentendidos derivados de los teoremas de incompletitud de Gödel,  pero también ilustra el artificio: con derruir no se derruye; devastar y devastar no suman la devastación. En todo caso, se entra en  un limbo; ruido blanco aguardando la liberación. Para mostrar  que un espacio, por decir un llano, se degrada con la insistencia  de la mirada, habría que exhibir la depredación de los elementos  del llano. No sólo la palabra desarticulada, desvinculada atrozmente, des dei, des dad. 
Siempre habrá algo fuera del alcance.
Tarrab
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lasvocesdelosotros · 1 year
Text
abril 2022
01
Tal como el estado del cielo no da la certidumbre  ni de la tormenta ni de la brusca restauración de un  cielo azul, tampoco las nubes que pasan anuncian exactamente el instante que recomponen en un  movimiento infatigable, siempre incierto. 
Para todos nosotros, que sufrimos del frío, que tememos a la canícula, a quienes la lluvia sume en  la tristeza, la meteorología es un perpetuo suspenso.  Hay tres temporalidades que no se corresponden. La temporalidad celeste (astral, mensurable  en eones). La temporalidad de la vida en la tierra  (la de las estaciones, biológica). La temporalidad  del mundo humano (métrica, la de la historia).
Quignard
 02
Dos vicarios temporales muy distintos están a  disposición de los mortales: la imagen, la palabra. 
La imagen ve aquello que falta. 
La palabra nombra lo que fue. 
Detrás de la imagen está el deseo: fantasma  durante el día, sueño durante la noche, oráculo,  la víspera. 
Del mismo modo en que tras cada biografía  humana está la Historia, e igual que tras el nombre de cada uno de nosotros hay un antepasado,  igualmente hay, tras cada palabra, un ser perdido.
Quignard
 03
Examinemos la rosa. La hemos visto florecer tantas veces en cuencos, la hemos relacionado tantas veces con la belleza en la flor de la vida, que hemos olvidado que permanece inmóvil y firme una tarde en la tierra. Mantiene un aspecto de dignidad y serenidad perfectas. La impregnación de sus pétalos es de una perfección inimitable.
Woolf
 04
¿qué  inglés nativo  se toma  libertades  con  el idioma?  Lo consideramos sagrado, y, por lo tanto, condenado a morir a menos que los americanos, cuyo ingenio es mucho más afor­tunado a la hora de crear palabras nuevas que en el manejo de las antiguas, acudan en nuestra ayuda y abran los manantiales
Woolf
 05
el cuerpo es una lámina de vidrio plano por el  que el alma ve directa y claramente y,  salvo por una o dos pasiones, como deseo y codicia, es nulo,  insignificante e inexis­tente.  Mas lo cierto es todo  lo contrario. El  cuerpo  interviene  todo  el  día,  toda la noche; se embota o agudiza, se embellece o se marchita; se vuelve cera en el calor de junio, se endurece como sebo en la oscu­ridad de febrero. La criatura de su interior solo puede  mirar por el cristal —sucio o sonrosado; no puede separarse del cuerpo como  la vaina de un  puñal  o de  un  gui­sante ni un momento; ha de seguir el in­terminable  desfile  de  cambios  completo, frío y calor,  bienestar y malestar,  hambre y saciedad, salud y enfermedad hasta que llega la catástrofe inevitable;  el cuerpo se desmorona  y  el  alma  se  libera  (dicen). Pero no  existe  registro de  todo  este coti­diano drama del cuerpo [...]
Woolf
 06
[...]
Se olvidan  esas  grandes  guerras  que  libra  el cuerpo con la mente esclava en la soledad del dormitorio contra el asalto de la fiebre o la llegada de la melancolía. No hay que buscar  lejos  la  causa.  Afrontar  estas  co­sas  requeriría el valor de un domador de leones;  una  filosofía vigorosa;  una  razón arraigada en las entrañas de la tierra. A fal­ta de esto, este monstruo, el cuerpo,  este milagro,  su dolor,  nos  harán  refugiarnos enseguida en el  misticismo o  a elevarnos con un rápido batir de alas en los arreba­tos del  trascendentalismo
Woolf
 07
Por increíble que parezca, los poetas han encontrado religión en la naturaleza; la gente vive en el  campo para aprender virtud de las plantas. 
Son reconfortantes por su indiferencia. La  nube visita el campo nevado de la mente  no hollado por el hombre, lo besa el pétalo  que cae, lo mismo que, en otra esfera, los  grandes artistas, los Milton y los Pope, que  consuelan no por su idea de nosotros sino  por su olvido.
Woolf
 08
La ola de la vida  se expande infatigable. Solo los yacentes  saben lo que la naturaleza no se molesta en  ocultar: que al final, vencerá ella; el calor  abandonará el mundo; agarrotados por  el hielo dejaremos de arrastrarnos por los  campos; el hielo cubrirá factoría y máquina; el sol se extinguirá. Y aun así, cuando  toda la tierra sea un helero resbaladizo, alguna ondulación, alguna irregularidad de  la superficie     indicará el lugar de un antiguo jardín, y allí, alzando la cabeza impávida a  la luz de las estrellas, florecerá la rosa, arderá el azafrán. Pero con el impulso de la vida  aún en nosotros, tenemos que movernos.
Woolf
 09
Necesitamos que los  poetas imaginen por nosotros. El deber de  crear el cielo debería corresponder al cargo  de poeta laureado. En realidad, recurrimos  a los poetas. La enfermedad nos hace reacios a afrontar las largas campañas que requiere la prosa.
Woolf
 10
43
Absolutely nothing
significant
except the growing
realization that 
with or without me
it is happening.
And that for
the first 42
I thought that
it needed my 
approval, my agreement.
It began a while ago.
It's been waiting
and not waiting
wishing
I would catch up.
I am catching up
to the day
accepting
that the Sun cares
and does not care,
that with or without me
it will spin and burn.
That I should
spin and burn
too.
 (Robin Coste Lewis)
11
Somos un poco de azúcar
en tejido blando.
 Un poco de sal en la punta de la lengua.
 Gajos de naranja
entre la saliva
del agua.
 (Ana Belén López)
  12
EL KILÓMETRO EXTRA
 No puedo comer el espacio,
y me pesa.
 Cuando miro adelante
el futuro me elude
como una lagartija.
 Todo lo ocupa eso
que me queda lejano.
 El kilómetro extra.
El horizonte en marcha.
 (Andrés Neuman)
 13
BEACHED WHALE
 One can project a lot on whales
But still: there are moments
when the unknown
cries in its own way
 (Aase Berg,
translated from Swedish by Johannes Göransson)
  14
COPIA (fragmento)
 Se produce en los márgenes. Tú eres tú y tu decepción. La descomposición de la luz. En gran copia. Tú y tu sombra. Tú y tu dejar libre. Tú eres tu y tu descaro, desde donde das órdenes. Tú y la construcción de la torre donde me señalas o me vigilas. Se produce en los márgenes. Acción de descomprimir, desaliño. Tú eres tú y la velocidad con la que te trasladas de un pensamiento a otro. Hacer es deshacer. Tú y tu repetición en otra boca. En la boca de la sociedad que se abre para adorarte. Tú eres tú y tu máscara. Perder. Perderla toda.
 (Dolores Dorantes)
  15
MY SON IS UNDONE BY MY HAIR
 I mean he buries his face in it
and breathes it in, holds it with his little hand
like an elephant as I carry him
post-nap, still halfway in a dream.
 I mean he asks to brush it, then does
for ten minutes—hours at two—
gently. Says again and again
Mama, I'm doing hair salon.
 But watch him find
a hair of mine,
one single hair,
separated from my head.
 Watch him lift it like a spider leg
mistaken for a string. See
the realization of what it is
creep across his gaze:
 a part of me
no longer part of me
and what
it could mean.
 (Alice White)
   16
AFRICAN GRANDMOTHERS
 Lacking the wings
of an eagle,
resigned, she admires
the distant moon,
cuddling cats and dogs
without asking them where
our neighbors have gone.
She spends all her time
at home and school, reading
or asking how the earth was made.
 Unable to find
the stairs to the stars,
and seeing that God
won’t answer
her questions, Sara
wants me to give her
the names and
the surnames
of our African grandmothers,
whom Darwin declined
to mention in his book.
(Ribka Sibhatu,
translated from Italian and Amharic by André Naffis-Sahely and the author)
  17
THE WORLD
God hid himself so that the world could be seen
if he'd made himself known there would only be him
and who in his presence would notice the ant
the handsome, peevish wasp worrying in circles
the green drake with his yellow legs
the peewit laying its four eggs crosswise
the dragonfly's round eyes beans in the pod
our mother at the table holding not so long ago
a mug by its big funny ear
the fir tree shedding husks instead of cones
pain and delight both ways to learn
equally mysteries but never the same
stones which show travelers the way
love that is invisible
hides nothing
 (Jan Twardowski,
translated from Polish by Clare Cavanagh and Stanislaw Baranczak)
 18
XVII
 Estudié la ciencia de la despedidaen los calvos lamentos de la noche.Ossip Mandelstam
 En Nataruk, al norte de Kenia, arqueólogos hallaron los restos de 27 seres humanos amontonados en la palma seca de lo que solía ser un lago. La datación por radiocarbono de conchas y sedimentos minerales permitióestimar que los cadáveres tenían entre 9.500 y 10.500 años de antigüedad. Se trataba de un grupo diverso: hombres y mujeres adultos–una de ellas embarazada–, ancianos, niños. Varios tenían las manos atadas. Todos presentaban traumatismos graves, señales de golpes realizados con objetos contundentes, como mazos, así como heridas producto de armas punzopenetrantes. Los expertos creen que los 27 sujetos fueron reducidos, ejecutados sistemáticamente y lanzados al lago, donde el limo se ocupó de conservarlos. Es así como los cuerpos aprenden a hablar, a decir la vida sin elocuencia, en kilos de carne, bilis, flema y saliva, polvo y brillo inclemente. La vida labios abiertos, dientes cariados, osamenta de plomo. Cuero extendidobajo la furia del mediodía, su ojo tosco ycóncavo. Desaparición, despedida, miembro fantasma, ciencia trunca.
   Adalber Salas Hernández
 19
MIGRACIONES (fragmento)
 arrástrame hasta la desembocadura del día 
déjame en su quietud 
en su aspereza 
 y el agua en su silencio de raíz 
en su lentitud de raíz 
se abre temblando 
 y la mañana se queja 
y se mece con las viejas palabras 
las largas las sumergidas palabras 
 dámelas para que pueda buscarte dámelas 
para que pueda abrirme no al conocimiento de ti 
sino al confuso presentimiento del camino hacia ti 
 desde esas palabras te hablo 
desde el pensamiento y la idea del pensamiento 
desde ti y el principio que emana de ti 
desde el deseo de llegar hacia ti
 (Gloria Gervitz,1943-2022)
20
Uno no puede entenderse cuando solamente existe el nombre propio, y tampoco puede entenderse cuando ya no existe más el nombre propio. Otorgando su nombre, un nombre de su elección, otorgando todos los nombres, el padre estaría en el origen del lenguaje, y este poder pertenecería con todo derecho a Dios padre. Y el nombre de Dios padre sería el nombre de este origen de las lenguas
 Derrida
 21
la distancia es un paso hacia la obra
preguntas cuánto te digo de este lado el corazón se agiganta llena de sangre tu pecho dos pasos hacia atrás me refiero a ti cuánto colores tendidos con la obra de lejos magritte es un buen imitador de lejos magritte es un pésimo pintor de lejos y de cerca le mouvement des images warning! enter at your own risk do not touch do not feed no smoking no photographs no dogs thank you dos pasos hacia atrás rothko malevich dos pasos de ribera tinguely performance de lavar tu cuerpo maquillarte el rostro los brazos las manos pálidas maquillarte perra tu parte oscura de animal proclamar tu cuerpo hediondo como una alteración contrato ready-made cuerpo como la gama ersatz una obra de arte maquillarte así
a una distancia con la muerte
la elasticidad es una deformación
Tarrab
 22
a través de las cepas
aquí está escrito el hombre
son letras cursivas   caladas
¿tienes miedo? sí
Tarrab
 23
hablo con el espíritu de mi barbarie hablo desde el último hombre en los pastizales en la mala hierba de mi elección vuelvo a ser el  cazador con el hábito de los toros práctica profunda de desgranar la especie las hordas de mi origen avanzo tercamente hacia la belleza hacia la sintonía de una lírica limpia y aburrida hubiese querido ese  alto para nosotros solípedos ultraveloces ataviados con la misma sangre querido los prados círculos de  familias protectoras atacan retro se detienen cortan la vida diseñé una trampa que te zanjará ficción súbita diseñé una palabra para la comunión las vocales se abren rancias en los labios manojos pasados por  la garganta
démonos primero la respuesta falsa
Tarrab
 24
mordía en las entrañas esa imagen  estúpida terón nos alcanzaba frenético como 
un bisonte brillaba se encendía desde el  plexo con una risa afilada con un susurro me  abrías los temporales reconocí algún autor en  la trama que urdías quizá olson o eliot algo cómico abandonado mi cabeza se enturbiaba tu  cabeza se enturbiaba turbia despedázame en trozos de sonidos azules mi cabeza se enturbiaba tu cabeza se enturbiaba turbia tal vez leónidas por el hedor que pasamos o     por el curso de poesía que habías tomado
Tarrab
 25
como si ahí en el centro
yaciera un antepasado
y quisiera arrastrar la voz
su final luminiscente
para limpiar los ojos
Tarrab
 26
hermano cazador
hermano avizor de praderas
dame tu lenguaje atemperado
para llamar las cosas
con el único designio
como si no hubiera espacio
como si sólo esta habitación
este río de alfombra en que surcamos
Tarrab
 27
hombre en los pastizales en la mala hierba de mi elección vuelvo a ser 
el cazador con el hábito de los toros práctica profunda de desgranar 
la especie las hordas de mi origen avanzo tercamente hacia la belleza 
hacia la sintonía de una lírica limpia y aburrida
Tarrab
 28
las murallas apiladas las babeles de cartón que sostenían este cielo 
como un mar del norte comprendí que esas columnas eran el confín 
el finisterre que lo que me decías al oído se perdería en aquel límite 
insondable
herido
en mitad de ese entramado
Tarrab
 29
declinar una exposición del sol hacia el fin 
se mira un territorio como buscar un pigmento que devuelva el día
se arranca la mirada en un decir no pertenezco
volveré con los otros 
con la fuerza anterior que me precede
Tarrab
 30
con las voces de todos
caminaré
dominaré el espacio
Tarrab
0 notes
lasvocesdelosotros · 1 year
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marzo 2022
01
El ensayo, al menos para algunos, tiene sus manchas e indignidades y de ellas es responsable la palabra misma. El ensayo, el golpe de prueba, no es más que una aproximación preliminar. Quien quiera llegar ¿no debe hacer algo más?
Starobinski
02
Deja entender que un libro merece ser publicado, aunque permanezca inacabado, aun si no trata de ninguna esencia, si sólo ofrece una experiencia inconclusa, si apenas consiste en unos ejercicios preliminares, con tal de que se relacione estrechamente con una existencia, la existencia singular
Starobinski
03
Pero los ensayos de su vida, al desbordar su existencia individual, conciernen a la vida de los otros, que él no puede separar de la suya.
Starobinski
04
lo que importa es remarcar que Montaigne no nos ofrece ni un diario íntimo, ni una autobiografía. Se pinta mirándose al espejo, es cierto, pero más a menudo todavía, se define indirectamente, como olvidándose, expresando su opinión. Se pinta con toques dispersos con motivo de asuntos de interés general: la presunción, la vanidad, el arrepentimiento, la experiencia. Se pinta hablando de la amistad y la educación, se pinta meditando sobre la razón de Estado, evocando las matanzas de los indios, cuestionando las confesiones obtenidas bajo tortura en los procesos criminales. En el ensayo según Montaigne, el ejercicio de la reflexión interna es inseparable de la inspección de la realidad exterior.
Starobinski
05
Pero no se detiene allí, todavía, la actividad del ensayo. Lo que se pone a prueba, precisamente, es el poder de ensayar, de poner a prueba, la facultad de juzgar y de observar. Para cumplir plenamente con la ley del ensayo, el ensayista debe ensayarse a sí mismo
Starobinski
06
Este es el aspecto reflexivo, la vertiente subjetiva del ensayo, en el cual la consciencia de sí se despierta como una nueva instancia del individuo, instancia que juzga la actividad del juicio, que observa la capacidad del observador. Desde su aviso Al lector, abundan las declaraciones en las que Montaigne asigna un papel primordial al estudio de sí, a la autocomprensión, como si el beneficio buscado por la consciencia fuera echar luz sobre el yo, para sí mismo
Starobinski
07
Montaigne, escribiendo, quería conservar algo de la viva voz, y sabía que «el habla pertenece por mitades a quien dice y a quien escucha». [...] el ensayo supone riesgo, insubordinación, imprevisión, peligrosa personalidad.
Starobinski
08
hablar de sí mismo hablando de otro, lo cual es inevitable. ¿No dijo Montaigne: «Todo movimiento nos descubre»?
Starobinski
09
A partir de una libertad que escoge sus objetos, que inventa su lenguaje y sus métodos, el ensayo, en el límite ideal donde sólo ensayo concebirlo, debería saber aliar ciencia y poesía. Debería ser, a un tiempo, comprensión del lenguaje del otro e invención de un lenguaje propio; escucha de un sentido comunicado y creación de relaciones inesperadas en el corazón del presente. El ensayo, que lee el mundo y se da a leer, reclama la puesta en obra simultánea de una hermenéutica y de una audacia aventurera.
Starobinski
10
Una imagen falta en el origen. Ninguno de nosotros pudo asistir a la escena sexual de la que es el resultado. El niño que proviene de ella la imagina interminablemente. Es lo que los psicoanalistas llaman Urszene.
Una imagen falta al final. Ninguno de nosotros asistirá, vivo, a su propia muerte. También el hombre y la mujer imaginan interminablemente su descenso hacia los muertos, al otro mundo, el de las sombras. Es lo que los griegos llamaban Nèkhuia.
Quignard
11
Soy la materia
que va a encenderse y bailar en el aire
como baila lo que nunca
había estado vivo
y va a morir. No tendremos más que eso,
el momento de esplendor antes de irnos
sin dejar huella de haber
estado aquí, y no es mucho pero alcanza
para las flores que se abren una vez
y se marchitan, por qué no habría
de ser suficiente para mí, para los dos.
 (Claudia Masin)
 12
¿cómo la imagen falta en la imagen? 
¿Cómo la imagen mata lo real?
Quignard
 13
Cicerón define la palabra  deseo: Desiderium est libido vivendi ejus qui non adsit. Palabra por palabra: deseo es la Libido de ver  alguien que no está alli. La desideratio se entiende  como la dicha de ver, a pesar de la ausencia, al  ausente
[...]
El arte busca algo que no está ahí
Quignard
 14
En francés se llama «gravidez» a la sangre que falta en las mujeres. La mujer descubre que está encinta al mirar ausente la sangre lunar (al descubrir suspendida la hemorragia mensual)
[...]
en cuanto la sangre ha reaparecido y mana  de nuevo cada mes, vuelven la fecundidad restaurada y  la sexualidad recobrada. Pero en esa secuencia 
de eventos, tan singular porque la duración que  abarcan es casi anual —un extraño relato que dura  diez meses lunares—, el signo es la sangre ausente;  la acción, el nacimiento; el efecto, el niño.
Así, cuando quiere volverse madre, la mujer desea  ardientemente mirar ausente su sangre menstrual  (lunar): a dicha ausencia de sangre entre sus piernas  la llama, y no deja de resultar curioso, un «niño».  Tal es el «Secreto» de las mujeres.
Un profundo deseo de no ver lo real permite  ver la imagen.
Quignard
 15
¿cuándo ve el hombre lo que no está? 
1. El acecho.
2. El sueño.
3. El pensamiento.
Quignard
 16
Para comprender un fresco antiguo -ya sea  egipcio, védico, etrusco, griego, romano- no sólo hay que conocer el relato que condensa, sino  hablar la lengua que lo cuenta
Quignard
 17
No podemos comprender una pintura si  no conocemos la lengua del pintor. Como en el  caso de los sueños, hay que saber hablar la lengua del soñador para comprender las imágenes que  alucina y que se yuxtaponen espontánea y desordenadamente en su sueño.  Para contemplar los frescos, hay que hablar la 
lengua del pintor.
Quignard
 18
El sueño, previo al pensamiento,  no plantea problema alguno. Ver lo que falta: eso 
es un sueño. Durante el acto de soñar el soñador  alucina aquello que desea: 
el banquete el hambriento,  la manta de lana el aterido,  el muerto la viuda, 
la botella de vino el sediento,  la ausente el enamorado, etcétera.
Quignard
 19
Medea es como la tormenta.
Medea es como la tormenta al instante en que el nubarrón se acumula en el cielo, antes de que  sepamos si pasa o revienta. 
Antes de la tormenta hay, de súbito, como una  calma momentánea. 
El viento cesa.
La luz se vuelve más intensa mientras la presión  aumenta. La luz es de pronto feliz, con cuerpo,  densa, tensa, justo antes de que el nubarrón reviente.
Quignard
 20
El verbo griego para decir  pensar, meditar, meditari en latín (hacer de Medea)  se dice mermèrizô y significa exactamente verse  dividido en dos opciones más o menos iguales. La  breve palabra griega meros significa parte. Mermerizó es pues estar «partido» como cuando duda uno en  tomar partido. Y partido es como Mérmero -a la izquierda, al lado de Tragos, el que lanza los  huesecillos (el contenido de la meditación)- va a  quedar: partido por su madre. 
La meditación es un embarazo, cuyo hijo es el  pensamiento.
Quignard
 21
La imagen falta: en Roma se ve un conjunto  de signos, un presagio en un rectángulo que hay  que interpretar. 
Piensen, para terminar, si son ustedes pintores,  si son fotógrafos, si son cineastas, cuán geniales  son los frescos de la antigüedad romana: le evitan  a la pintura figurativa el problema de la anécdota.  La belleza se mantiene resueltamente al margen  de lo visible, en el instante previo a la epifanía.  Jamás la anécdota es mostrada.
Quignard
 22
Entelekheia, esa palabra tan culta que constituye  el centro de la filosofía de Aristóteles, es en realidad muy simple: es aquella acción que está inacabada en 
la pintura.
Quignard
 23
La pintura romana muestra el instante en que  el alma va a mudarse en afecto. 
El instante en que el dios da el salto dentro del  cuerpo de su fiel. 
El instante en que el virus vira. 
Medea antes de ser Medea. 
César antes de ser César. 
Agavé antes de ser Agavé. 
Marsias antes de que Apolo lo desuelle, etcétera. 
La pintura romana fija el punto de inestabilidad  previo a la metamorfosis.
Quignard
 24
El gerundio describe la acción no como exteriorizada en el mundo sublunar, no como realizada  en el medio, no como actual en el tiempo, no  como efectiva en el mundo social: el gerundio  indica la acción como «estando-delante de ser  hecha». Como aún invisible en el espacio común.  Como aún interiorizada en el mundo psíquico. 
Un tiempo tal parece complicado al joven estudiante ya que es una especie de pasado que  participa del futuro. 
Es exactamente el tiempo de la pintura romana.
Quignard
 25
Estoy dispuesto a concederte, para los niños y para tu propio exilio, una prenda.
Es el verso 6 13.
La palabra griega que emplea Jasón es «symbola». Jasón se declara dispuesto a proporcionarle símbolos. Los símbolos, en griego, son los signos de reconocimiento en el caso del abandono de los hijos (un carta rota, una prenda de vestir desgarrada). Por lo que concierne a la hospitalidad, cuando los huéspedes quieren sellar su alianza, lo  que se quiebra es una tessera, o lo que se reparte es  una mano de huesecillos (astragalos). El anfitrión  y huésped conservaban, cada uno, una mitad del  símbolo. Cuando volvían a encontrarse -ellos o,  años o decenios más tarde, sus descendientes- y  los dos pedazos (symbola), al acercarlos uno al  otro (symballô), embonaban de pronto, probaban  la relación contractual pactada antaño. La alianza 
se veía refrendada. Una vez más, y de inmediato,  el contrato se volvía operante.
Quignard
 26
Cuatro  letras -como los nucleótidos de los genes. Para la  genética son A, T, G, c. Para el astrágalo de la Grecia  antigua el lado plano vale 1, el lado cóncavo vale  3, el lado convexo vale 4, el lado sinuoso vale 6. Al  lado sinuoso se le llamaba khoos. Khoos designaba  la fortuna. Los valores, dos por dos, son lunares,  6 + 1 = 7, 4 + 3 = 7. Por último, al usarse cuatro  huesecillos en cada tiro, treinta y cinco combinaciones son, cada vez, posibles. Cada una de esas  treinta y cinco combinaciones lleva el nombre de  un dios. Por ejemplo, recibir todas juntas sobre los  cuatro dedos palma abajo las cuatro posiciones era  el «tiro de Afrodita».
Quignard
 27
En griego de diccionario bilingüe: Los pintores muestran las acciones como a punto de acaecer,  los relatos los narran como ya acaecidas. [...] pareciera que Plutarco no hace sino  conjugar el verbo gignumai. Ginoménas frente a  gegeneménas. Las acaecientes frente a las acaecidas.  Las acciones que comienzan frente a los actos 
concluidos. La dimensión temporal se divide así de  manera equilibrada -de manera simbólica-entre  lo que todavía no está ahí y lo que ha desaparecido.  Entre por-venir y pretérito. Las formas verbales  griegas que se oponen aquí son muy cercanas de 
dos regímenes de la conjugación inglesa: present  continuous y past perfect.
Quignard
 28
otra oposición mucho más  profunda nos es señalada por el mayor pensador 
(junto a san Agustín) del fin de la Antigüedad:  mostrar no es lo mismo que narrar.
Quignard
 29
Se trata de dos mundos  distintos que exigen dos prácticas distintas. Por  una parte, la germinación de la epifanía; por la  otra, la evocación de la vida acabada de quienes  han muerto. Por un lado el presagio, por el otro,  el elogio fúnebre. 
Para ponerlo de alguna manera, se trata de dos  imágenes faltantes que son evocadas: por un lado,  la parte del feto, por la otra, la parte del cadáver.
Quignard
 30
Los pintores (zoographoi) muestran (deiknuozm)  las acciones (praxeis) como acaeciendo (ginonzénas)  -corriendo aún los treinta y cuatro kilómetros  que conducen de la llanura a la ciudad.  Los relatos (logoi) las cuentan (diegountaz) como  habiéndose cumplido (gegenhnénas) -incluida la  muerte al pie de la Acrópolis. 
La Historia es la muerte que grita. 
Los pintores sueñan, aspiran a una realidad que  no está aún ordenada, que no es aún consecutiva,  que no es aún lingüística, que aún no ha sido narrada, y que no puede por ende ser representada. 
La historia es una expiración dramática que tiende  sus muertos (los seis mil cuatrocientos muertos de  la batalla de Maratón)
Quignard
 31
Nuestra vida no es una biografía. El objetivo de la  vida no es narrativo. La interrupción de la vida es  la muerte, pero nada de lo que se buscaba en los mil 
caminos de la existencia viene a cumplirse en ella. 
El origen contingente y el enigma de todos los  instantes valen más que todo instinto biológico, que  todo modelo genealógico, que todo destino histórico, que toda integración social, que todo significado psicológico.
Quignard
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lasvocesdelosotros · 1 year
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febrero 2022
01
once
there were vast orange orchards in Tripoli,
and when they were in bloom
the whole city smelled like citrus—
it was like a beautiful woman's perfume,
it was like you could smell sunlight,
and during the war and after
and every time Tripoli burned—imagine
the fruit peeled in your palm,
now imagine that fruit is a city—
It was unlike anything, he says,
I'm telling you, anything.
 (Ruth Awad)
02
(el animal
entra en un periodo de reposo
antes de proceder a la muda)
todo artista
es el grito
y luego
pum
se muere
(Myriam Moscona)
03
Frases que se convierten en silencio. Frases que, de tan dichas, nadie escucha: hay 840 millones de personas que no comen lo que deben, cada cinco segundos un chico se muere por el hambre. La he leído, la he escrito, la he oído y dicho no sé cuántas veces: como quien dice llueve —incluso cuando llueve.
 Caparrós
 04
Es cierto que la mayoría de los gobiernos africanos son más que corruptos; en general son corruptérrimos. Pero lo que se roban no es nada comparado con lo que pierden sus países y sus ciudadanos a causa del orden internacional en el que están inscriptos desde hace siglo y medio. Los organismos internacionales usan la corrupción de los gobiernos del mismo modo que los gobiernos nacionalistas usan la avidez de los poderes internacionales: es fácil decir que millones de africanos pasan hambre porque sus gobernantes son corruptos y ladrones; es fácil decir que millones de africanos pasan hambre porque el capital globalizado es rapaz e insaciable. Las dos cosas son ciertas —y eso hace menos cierta a cada una de ellas si se la enuncia como razón única. Y las dos esquivan el problema de la propiedad privada y la distribución de la riqueza, esas minucias.
 Caparrós
 05
¿qué diferencia entre un petrolero tejano que se queda con tierras sudanesas y las explota y un funcionario de gobierno que le saca beneficio? ¿La forma de adquisición de la riqueza? Porque suponemos que tener la propiedad o la concesión de un terreno te habilita para quedarte con lo que hay ahí, y en cambio administrarlo en nombre del Estado no. Es lógico que administrar algo en nombre del Estado no te legitime para sacarle rédito. ¿Es lógico que tener un título de propiedad de eso mismo sí te legitime?
 Caparrós
 06
Siempre me sorprendió que envejecer fuera tal deterioro: nada en el funcionamiento físico de las personas mejora con la edad; el tiempo nos es pura decadencia. Durante siglos, muchas sociedades intentaron compensar esta penuria con la idea de que el saber era cosa de ancianos —«el diablo sabe por diablo/ pero más sabe por viejo»—; ahora, desde que suponemos que los saberes que valen son los más recientes, también ese valor simbólico se pasó al campo joven.
 Caparrós
 07
Siempre me pregunté por qué la naturaleza, que suele hacer mejor las cosas, nos somete a ese proceso de degradación. Hasta que entendí, bobo de mí, que la vejez contemporánea no es en absoluto natural: es uno de los grandes inventos de la cultura humana. En su estado «natural» cavernario los hombres no vivían más de 25 o 30 años: se morían antes de degradarse. Y hasta hace poco, la esperanza de vida media de los países ricos no pasaba los 60. Ahora, en cambio, esa media subió a más de 80, y sigue. Cantidad de mejoras técnicas lo consiguieron, pero estamos en plena transición, un momento mixto: hemos aprendido a prolongar la vejez, no a evitar sus estragos. Pero no es culpa de la naturaleza. Inventamos un estado antinatural —la vejez extrema— pero nos falta mucho: nos queda a medio hacer, lleno de errores todavía.
Caparrós
  08
we all know there are no true villains—we’re just a bunch of hungry animals.
 I would jump with you, I would. I would give it all for you—laughter at
 sundown, laughter at the feet crushing statuary, laughter until our very
 last word on this dying Earth that just keeps turning and turning its
 silhouette shadow figures slipping back into human skin at dawn
 (Jessica Q. Stark)
09
NOTIFICACIÓN
 A los que traten mal
a los prisioneros
se les avisa
que serán declarados
criminales
por desprestigiar
la guerra.
 (Rafael Cadenas)
10
Como esta piedra
es mi llanto
que no se ve
 La muerte
 se paga
 viviendo
 Giuseppe Ungaretti
 [traducción de Guillermo Fernández]
 11
Las cosas oscuras tienden a la claridad,
los cuerpos se agotan en un flujo
de tintas: éstas en música. Desvanecerse
es entonces la dicha de las dichas.
 Tráeme la planta que conduce
 adonde brotan rubias transparencias
 y la vida se evapora como esencias,
 tráeme el girasol enloquecido de luz.
 Eugenio Montale
[traducción de Guillermo Fernández]
  12
al hablar o escribir renunciamos a decir muchas cosas porque la lengua no nos lo permite. ¡Ah, pero entonces la efectividad del hablar no es sólo decir, manifestar, sino que al mismo tiempo es inexorablemente renunciar a decir, callar, silenciar.
Ortega y Gasset
 13
Cada uno está solo sobre el corazón de la tierra
traspasado por un rayo de sol
y de pronto la noche.
Salvatore Quasimodo
[traducción de Guillermo Fernández]
   14
El lenguaje poético se introduce en la medicina para hablar de lo invisible, para expresar una realidad que nada tiene que ver con las palabras, convirtiendo los "ríos de la tierra" en "arroyos de sangre", creando la poética del macrocosmos y el microcosmos. Igual que el lenguaje poético de la música.
 Menchú Gutiérrez
  15
Si hay un instrumento musical que sepa hablar del interior del cuerpo, de los latidos del corazón, del trasiego de la sangre en las arterias y de la relación de ese órgano con el espacio, de la sonda que la música lanza para palpar a su vez los latidos del espacio, ése es la tabla india. Formado por dos pequeños timbales, este instrumento de percusión puede tocarse con la palma de la mano, con los dedos, o arrastrando la muñeca por el parche de piel, produciendo expresiones de una variedad infinita. Su sonido parece el resultado de un cruce entre distintos órganos humanos. Quizá sea un órgano más que el hombre ha inventado para relacionarse con las realidades invisibles; quizá todos los instrumentos musicales finalmente sean eso.
Menchú Gutiérrez
 16
Carecer de "presagios", de "pulso", de ese órgano que palpa en la oscuridad.
Escribía Federico García Lorca en el Poema doble del Lago Eden: "porque yo no soy un hombre, ni un poeta, ni una hoja / pero sí un pulso herido que sonda las cosas del otro lado". Quizá nadie haya escrito una definición más profunda de ese órgano poético: "un pulso herido que sonda las cosas del otro lado".
Menchú Gutiérrez
 17
Cómo  saber qué es ver bien si siempre has visto igual, si no hay  referente alguno ni punto de comparación
Verónica Gerber
 18
La búsqueda de la página en blanco no es otra cosa que una guerra contra el imperio del lenguaje, una contienda para comunicar sin tener que usar una sola palabra, para  que el concepto deje de ser una justificación. Pero el lenguaje es ineludible. Desconfiamos de las personas y nos cuesta  trabajo dudar de las palabras. No sospechamos de las palabras sino de las versiones de un hecho que se enciman sin  corresponderse. No tememos de las palabras sino de cómo  se acomodan en los enunciados, de lo que podrían estar diciendo en realidad. No desconfiamos del silencio sino de la  ambigüedad que implica
Verónica Gerber
 19
Del texto a la acción. De la página al cuerpo, de la palabra al  espacio, al lugar; de la frase al suceso; de la novela a la vida  escenificada.
Verónica Gerber
 20
What is mine stays with me,
my heart in the glitter
of his heart. My dreams
have no bones. Love
is never saved in layers
of rock. So much of me
will never be found
on this earth.
(C. L. O'Dell)
 21
Tienen tal vez las cosas en sí mismas sus pesos, medidas y propiedades; pero adentro, en nosotros, el alma las talla a su antojo
Montaigne
  22
En  nuestra  propia  y  peculiar  condición  el  ser  tan  dignos  de  risa  como
capaces de reír
Montaigne
 23
ese reconocimiento de no poder ir más allá  es  una  característica  de  su  acción,  incluso  una  de  las  que  él  más  se  precia. Algunas  veces,  en  un  asunto  fútil  y  huero, el  ensayo  consiste  en  ver  si  hallará con  qué  darle  cuerpo  y  con  qué  sostenerlo  y  afianzarlo.  Otras  veces,  lo  llevo  de paseo  por  un  tema  elevado  y  muy  transitado,  en  el  que  nada  suyo  puede encontrar, por estar el camino tan trillado que solamente puede caminar tras las huellas  de  otro.
Montaigne
 24
The flowers are without reason,
without economy or moderation.
Pink and gold, they tower above
the double doors, a citadel of silk
impervious to logic. They glow against
the dark of December despite rain,
despite deprivation and mortality, as if
an entrance to some other winter,
some world in which the stream of time
runs slant, or in reverse
Hannah Hirsh
25
PERSONA
 el querido animal
cuyos huesos son un recuerdo
una señal en el aire
jamás tuvo sombra ni lugar
desde la cabeza de un alfiler
pensaba
 él era el brillo ínfimo
el grano de tierra sobre el grano
de tierra
el autoeclipse
 el querido animal
jamás cesa de pasar
me da la vuelta
 (Blanca Varela)
  26
CHANCE DARKENED ME
 Chance darkened me
 as a morning darkens,
preparing to rain.
 It goes against its arc,
betrays its clock-hands.
 The day was a dark-eyed giraffe,
its unfathomable legs
kept walking.
 A person is not a day,
not rain,
no gentle eater of high leaves.
 I did not keep walking.
The day inside me,
legs and lungs, kept walking.
 (Jane Hirshfield)
  27
Dearest Mother, how many rivers
did I run across your belly? 
Do you love
that they will never dry up? 
Dearest Mother, I’ll make all
this water worth it.
(Kayleb Rae Candrilli)
 28
Decir ensayo es decir pesada exigente, examen atento, pero también enjambre verbal que libera su impulso.
Starobinski
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lasvocesdelosotros · 1 year
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enero 2022
01
Empieza uno. Lo llamamos 2022, y hacemos como si de verdad algo empezara. El año es un invento extraordinario: más allá o más acá de ciertos dioses, hay pocas creaciones humanas que los humanos nos creamos tanto, pocas palabras que nos creamos tanto. Olvidamos que lo hemos inventado y lo vivimos como si existiera y así lo usamos, cada fin de él, cada comienzo, para creer que algo se acaba y algo empieza: que hay un corte, que seremos ligeramente otros. Estos días somos como niños con un año nuevo.
Caparrós
 02
Lo sabemos, lo vivimos: la potencia de ciertas ficciones es tremenda. Es esa potencia la que define cómo vemos el mundo, cómo lo pensamos, cómo lo sentimos: el que controla el tiempo controla mucho más que el tiempo. Y cuando esa potencia funciona ni siquiera la notamos: sentimos sus dictados como lo natural, lo verdadero.
Caparrós
 03
Here
there’s a season of fluted flowers
that can be eaten, a baby
scorpion pinned to a roll of toilet paper,
a thing the cliffs hew with their own shadows
                          before death
by sun, and if
you couldn’t do any of it ever
again, move your legs, sing, fuck, brush stray amaranth
from the tabletop, if you had to give those up and keep just one,
            you would talk,
you would tell you
all about it.
Robin Myers
 04
if the limit between one
part and another—the flounce of land,
the oceanic blank
too just-shy of eternal to say
anything halfway dignified about—swelled
or shrank, how
would you know? You wouldn’t,
 not at this distance, just as you’re too
close to watch your own fingernails
growing infinitesimally all
the time, which they appear to keep doing
 even after you’re dead, and
don’t.
Robin Myers
 05
Siempre pensé, sin pensarlo, en estos lugares muy lejanos —lejanos en el mapa, lejanos de los puntos conocidos, lejanos de mi historia— como progresivamente vacíos, despojados de gente. Era puro pensamiento mágico: el quinto carajo está repleto, pulula de personas. Miles y miles de personas en esta parte del fin del mundo, que va a acabarse así: no con una explosión sino con un bocinazo. Un día alguien va a apretar una bocina de más y todo va a estallar. Será casi tranquilo: no un gran fuego, no un trueno ensordecedor espeluznante, no la Tierra partiéndose en pedazos. Solo que ese toque de bocina —probablemente aquí en Biraul o quizás en Calcuta o en Yakarta— ya no tendrá lugar: terminará de completar el mundo.
Caparrós
 06
Posiblemente ningún escritor es original en sí mismo, sus palabras son un cúmulo de libros desestructurados, historias que pasan en su vida o en su mente, arquetipos que se organizan para decir lo mismo de maneras diversas.
Todo es repetición, eco de la eternidad.
José García Natera
  07
La plata de nuestra prosperidad es plata muy sangrienta. No es agradable reconocer que la paga el hambre de millones. No debería resultarnos tan cómodo, tan fácil, tan barato.
 Caparrós
 08
La asistencia es una forma de operar sobre los efectos de la pobreza —la falta de acceso a lo más indispensable— y no sobre sus causas. O, dicho de otro modo: una forma de mantener esa pobreza en el tiempo, de no producir las condiciones necesarias para que esas personas asistidas empiecen o vuelvan a valerse por sí mismas. La asistencia consigue que los pobres sigan siendo pobres y dependan brutalmente de quienes los asisten: un gobierno, el Estado, oenegés, iglesias varias. La asistencia salva personas en lo inmediato —y, con el mismo mecanismo, las hunde más y más en su condición de personas que necesitan ser salvadas. Entonces es difícil dejar de preguntarse si no es una condición del sistema, la forma en que un sistema de injusticias se preserva y mantiene.
 Caparrós
   09
(Los desechables tienen también su versión soft: los millones y millones que trabajan en trabajos perfectamente inútiles, entendido como trabajo inútil uno cuya desaparición solo afectaría a la propia estructura donde ese trabajo se realiza. David Graeber, profesor de la London School of Economics, dice que «es como si alguien anduviera por ahí inventando trabajos inútiles con la sola intención de mantenernos a todos trabajando». Empleados —infinitos empleados— de todo tipo de empresas de servicios, empleados —infinitos empleados— de los cuerpos burocráticos estatales, gerentes de todo tipo, abogados diversos, relacionistas públicos, vendedores, recepcionistas, secretarios, periodistas y tantos más estamos ahí para que nadie se dé cuenta de que no tenemos lugar genuino en la cadena productiva, de que si ocupáramos un lugar genuino alcanzaría con que todos trabajáramos diez o quince horas por semana, de que somos tan desechables como un campesino del Bihar —solo que en ciertos países las cosas son más complicadas. Los desechables con empleo tienen la ventaja de que, en general, nadie les dice que lo son —y ellos mismos tratan de no decírselo. Y comen cuando quieren.)
Caparrós
 10
La celda es el lugar donde el prisionero se recluye, pero es también, el lugar donde la abeja obrera (la hija del sol), produce la obra magna, el aurum (miel) y es también, el lugar donde el novicio monacal ordinario podía convertirse en santo, alcanzar lo absoluto. Solo el silencio, la meditación y los ejercicios contemplativos permitía que las grietas de la celda pudieran abrirse [...] Leer es someterse a la presión de las palabras, donde habita el lenguaje. Todos somos prisioneros esperando llegar al paraíso.
José García Natera
 11
¿No es el poema un aullido en el eterno vacío?, ¿no fue el inicio un grito desesperado del solitario original?
José García Natera
 12
Es la realización a través de lo tempestuoso, que por acción del tiempo revela lo sublime. El comienzo de todas las cosas habita el más allá en forma de idea, un desorden que debe pasar por una etapa de transformación. Solo cuando la claridad tome su forma, se logrará la realización de lo posible.
José García Natera
 13
Entrar en un sitio es, en última instancia, entrar en uno mismo. En el caos de la vida, lo más probable es perderse. Caos en un primer momento no significaba desestructuración, sino unión, lo todo completo, el punto central que dio origen a todo. Todas nuestros recuerdos, sueños, esperanzas, ambiciones, son laberínticos no tenemos una narración lineal en nuestra mente. Es imposible pensar que el impulso nervioso del cerebro, sea una línea y no una ramificación
José García Natera
 14
Toda crisis es signo de liberación. Todas las fuerzas son fuerzas complementarias. La serenidad es la ausencia de todo. A veces hay que hacerse a un lado, para que todo sea.
José García Natera
 15
El silencio de la creación solo puede ser mantenida con la eterna palabra que constantemente se pronuncia. La primera letra, el primer sonido está siendo pronunciada ahora. Somos testigos del principio.
José García Natera
 16
Llegar al centro es acabar con todo, es permitir que todo sea revelado. El fluir de la vida nos lleva a un sitio, pero pronto descubrimos que solo es una repetición. Lo que ha pasado y que sucede.
José García Natera
 17
soy lo que deseo. Si miro, no veo a través del aire y de la luz, veo a través de los recuerdos o de la ausencia, de lo que creo no ser o poseer.
José García Natera
 18
Todo escritor es un oyente que se convierte en una voz.
José García Natera
 19
El laberinto es una fragmentación, símil del universo, procede de tradiciones esotéricas antiguas y contiene en sí un significado metafísico, es el área de encuentro consigo mismo, es el espejo amorfo.
José García Natera
 20
La iluminación no es la separación hacia planos esotéricos diferentes, es descubrir con todos los poros abiertos, que nuestra realidad es el habitáculo de la existencia y que todo está vivo en constante vibración. Todo lo que es ya está frente a nosotros.
José García Natera
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El habitáculo del alma, el centro, la piedra de la locura, es la pineal. Es el centro y periferia. Ello, lo que se encuentra al principio, en medio y al final.
José García Natera
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En todas las palabras subyace su significado oculto. En todos los eventos hay conexiones invisibles, que apenas alcanzamos a ver o a desentrañar.
José García Natera
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sin posibilidad de exagerar: éste es el mundo que el capitalismo y la democracia americanos produjeron. La pobreza y el hambre de esos millones es el resultado de este mundo —no un error de este mundo. Que —cuando no pensamos— pensemos lo contrario es uno de sus grandes logros. Y toda su estrategia consiste en tratarlo como un error pasajero y corregible.
 Caparrós
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Ocuparse del hambre necesita cierta idea —débil— de internacionalismo o, mejor, de humanidad: postular que todos los hombres deberíamos ocuparnos de que todos los hombres tengan comida suficiente. Si no fuera así, ¿en nombre de qué nos preocuparíamos por la desgracia de abisinios, kazajos, bengalíes? Es un concepto extraordinario, un gran avance conceptual que no se concretó todavía en la práctica social. Puede que se extienda, que vuelva a crecer. Por ahora el grado de «humanidad» existente alcanza para lo que hay: declaraciones, lagrimitas, lágrimas de cocodrilo, ayudas, salvatajes. La humanidad como manera de la culpa. Alcanza para mandar bolsas de granos; no para privarse de ganar mucha plata. No para buscar el fin real del problema.  No para ponerlo en el mismo plano que las dificultades de los más cercanos: de los compatriotas.
Caparrós
   25
Los países no son solo una tontería; son una canallada. Son el mecanismo por el cual unas estructuras que llamamos Estados consiguen que sus súbditos tengan, en general, más que los de otras estructuras semejantes. Y consiguen, por supuesto, al mismo tiempo, que algunos de sus súbditos tengan mucho más que los demás.
 Caparrós
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No hay nada más resignado que pensar el mundo en términos de países —y pensar, por lo tanto, en el propio país más que en el resto. No hay ninguna razón para pensar que los países, esos inventos recientes, que en algunos casos tienen 200 años, en otros 500, en otros 50, son la forma en que el mundo «debe» organizarse. La nacionalidad es una reducción de la humanidad: una legitimación de cierto egoísmo. Si se acepta que tengo que ser más solidario con el grupo de los que tienen el mismo documento que yo, el principio de exclusión ya está sentado. Quien excluye a los de otro país puede, por el mismo procedimiento, excluir sin mucha dificultad a los de otra provincia, otra religión, otra elección sexual, otra raza, otras nociones sobre el consumo de gaseosas en el desayuno.
 Caparrós
27
La “divisa” del fascista, diceva Pasolini, è sempre stata qualcosa di meramente “esteriore” (almeno nella maggioranza dei casi): si era fascisti il più delle volte per le leggi del branco, per omertà, per inerzia, paura o coercizione, ma per i più era solo qualcosa di puramente esteriore. Per contro, la divisa del cittadino pienamente inserito nel sistema consumistico-capitalistico – denunciava sempre Pasolini – è diventata un “abito interiore”, una divisa che non si può togliere, che ci portiamo a letto, con la quale impariamo persino a “sognare” …sognando i sogni di qualcun altro. 
Igor Giuffré
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La tentación humanitaria consiste en dejar de pensar qué se puede hacer con el prójimo para preguntarse qué se puede hacer por el prójimo.
 Caparrós
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Son pequeños esfuerzos individuales surgidos de la culpa. Pero, al mismo tiempo, salvan chicos. ¿Entonces? Si uno hace solo eso permite que el sistema siga funcionando. Si uno no lo hace le niega a alguien la chance de comer. ¿Hacerlo y denunciarlo al mismo tiempo? Siempre recuerdo el día en que caí en la trampa.
 Fue hace unos años: Saratou me contaba su vida; yo la escuchaba y miraba la tabla. En su choza no había mucho más: un tapiz de cáñamo teñido, las paredes de barro, fogón al fondo, dos ollas renegridas. Ella hablaba y hablaba; yo le hacía de vez en cuando una pregunta, con esa cadencia lánguida de las entrevistas con intérprete: mucho tiempo para no entender nada, para esperar la traducción, para hacer fotos, para pensar en cosas. Yo pensaba, sobre todo, en esa tabla y Saratou contaba, en hamsa, su segundo parto. La habían casado poco antes de cumplir los doce, su primer hijo había nacido muerto; un año después llegó el segundo: —Cuando sentí que ya llegaba me encerré en un cuartito, me puse en cuclillas, me agarré a la pata de una cama, recé, rezaba mucho, y al final el bebé cayó sobre una esterilla que había puesto en el suelo. Saratou, después, tuvo otros once hijos y, por fin, una fístula obstétrica, una de las enfermedades más terribles, más clasistas en un continente donde mucho es clasista y terrible. Estábamos en Dakwari, otra aldea como cientos de aldeas nigerinas: casas de adobe, ni luz ni agua corriente, vidas que no han cambiado nada en siglos. Yo entrevistaba a Saratou para un proyecto del Fondo de Población de Naciones Unidas; su historia era conmovedora y yo no podía dejar de mirar esa tabla. Me sentía, por momentos, un canalla. —Entonces llegó la partera, cortó el cordón y puso la cabecita del bebé sobre una escoba para que no se ensuciara en la arena, y después me senté mirando hacia La Meca y la partera me dio al chiquito envuelto en un paño… La tabla era lo que los musulmanes llaman alluha, una madera donde los alumnos de la madrasa escriben con un cálamo los suras del Corán para memorizarlos. Después la lavan, escriben otro sura: una libreta con una sola hoja. Y yo me preguntaba qué era lo que me fascinaba en ella: si su olor de un tiempo muy pasado, si ese dibujo de las letras, si la madera como papel antiguo, el palimpsesto. Hablamos —yo la escuchaba, hacía preguntas— dos, tres horas. En algún momento, Saratou notó que yo miraba su tabla demasiado, y me preguntó —a través de la intérprete— por qué. Se sonreía: hacerme una pregunta era invertir los roles, un gesto de audacia que la puso nerviosa. Yo intenté ser amable: le dije que me parecía tan bella, que la felicitaba. Ahí estuvo mi error: después me explicaron que un elogio así, en su cultura, es un pedido que no se puede rechazar. —Se la quiero regalar. Por favor, llévesela. Me dijo Saratou, por interpósita persona, y yo por interpósita le dije que no, que muchas gracias, y ella que sí, que por favor, y yo que no le agradezco muchísimo y ella, la cara cada vez más seria, que si no la llevaba la ofendía. La intérprete me explicó que mi rechazo resultaba violento: como decirle que su tabla no estaba a mi altura, que ella no estaba a mi altura, que las despreciaba como solo los blancos saben despreciar. Estaba en un problema —y sonreí. Sonreír, cuando no se puede hablar, te compra tiempo. Nos sonreímos, con Saratou, un momento, mientras pensaba mi propuesta. Ella me había contado que cuando se enfermó no pudo cuidar su rebaño y solo le habían quedado dos cabritas que, sin macho, no se podían reproducir: que ahora, sin su rebaño, ya no podía hacer buñuelos para vender en la plaza del pueblo y que entonces había días en que no tenía para comer: que el hambre era más duro que la fístula. Entonces yo le dije que le quería regalar un chivo, y que me sentiría muy mal si me lo rechazaba. Saratou sonrió de otra manera: con una especie de alegría. No era fácil conseguir el animal: había que comprarlo en un pueblo a diez kilómetros que tenía un mercado de los jueves —y era martes. Convinimos en que yo le daría la plata y ella lo compraría; fue entonces cuando se me ocurrió la tontería. Le daría, además, dinero para alimentarlo por un año con una condición: que lo llamara Martín. Saratou soltó la carcajada. Después me dijo que ese chivo le iba a cambiar la vida y que me recordaría para siempre. Yo estaba contento por la tabla y tan contento por haberla ayudado: satisfecho, probo. —Si puedo volver a tener mi rebaño otra vez voy a poder comer todos los días. Me dijo, cuando nos despedimos. No fue fácil pasar con mi alluha por los aeropuertos: sobresalía del bolso y era visiblemente árabe. Por unos días fui un terrorista descarado, uno que no se resignaba a la clandestinidad. Llegué, por fin, a París una mañana muy temprano; antes de subir a casa de mi primo Sebastián compré unos croissants en la panadería. Mientras desayunábamos les conté la historia de mi alluha y el chivo Martín; nos reímos y Laurence, su mujer, me preguntó cuánto me había costado el animal. Recién entonces hice la cuenta y descubrí, con horror, que igual que esos croissants. O la ilusión, de tanto en tanto, de que uno entiende algo. Y el alivio —sordo, inconfesable— que da sufrir por otros.
 Caparrós
  30
Me sorprende: en vez de la ansiedad, la calma. Es como aquella vez del accidente: yo acababa de partirme la cara contra el volante de mi coche, y estaba por entrar al quirófano. Y en lugar del terror que había imaginado que tendría, solo una sensación de desapego: ya no puedo hacer nada. Ahora, en el fondo de Sudán del Sur, agotadas las chances de internet, en lugar del frenesí por encontrar el modo, mi sensación es parecida: todo lo mío, ahora, no es asunto mío. Aquí, para muchos, la forma de saber es ésa todavía: Justin, por ejemplo, el marido de Nyankuma, lleva meses sin saber nada sobre su otra mujer, sus otros hijos. Y le resulta tan normal. De pronto, esta necesidad —esta costumbre— de saber de inmediato me parece levemente monstruosa. Como quien quiere simular que el espacio no es tiempo.
 Caparrós
 31
no recordar quién fue que dijo que, vistas de a una, las personas son dramáticas, pero de a muchas son patéticas. Ni, tampoco, quién que, si la historia de una persona te emociona, la de un millón te aburre: no te permite ejercer esa escasísima facultad de imaginar.
 Caparrós
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lasvocesdelosotros · 1 year
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diciembre 2021
01
Suelo creer que la idea de que hay que volver a los cultivos orgánicos a escala individual o pueblerina es otro efecto del desconcierto: como no tenemos un plan superador, nos refugiamos en mecanismos de un pasado idealizado. Son maneras que servían más o menos mal en espacios donde vivían tres, cinco veces menos personas. Que no alcanzan —que, en realidad, nunca alcanzaron— para alimentar a los millones y millones.
 Caparrós
 02
Con esa reivindicación de lo tradicional disimulan —intentan disimular— su incapacidad, su renuncia a pensar un futuro distinto al que propone el capital global. Le entregaron el monopolio del futuro y se atrincheran en los buenos viejos tiempos. El arcaísmo es puro temor, fuga hacia atrás. No podemos con ellos, refugiémonos en los antiguos bosques. Para lo cual reivindican cosas impensables: el trabajo bestial, las herramientas más arcaicas, las plantas de bajos rendimientos. ¿Qué es lo que vale la pena conservar en todo eso?
 Caparrós
 03
Como la diferencia entre ese señor que sopla una bola incandescente de vidrio en la punta de un tubo hueco para hacer, con mucho aire y movimientos milenarios, una copa, por un lado y, por otro, la cadena de producción que escupe veinte copas por segundo en un trencito ordenado e invariable. Cualquiera sabe que la copa artesanal será más bonita, cara y exclusiva; cualquiera, que si queremos que miles de personas tengan copa habrá que usar las industriales. Que aquí también lo que se produce con esa dedicación individual solo está al alcance de unos pocos. Que a veces la belleza está en la cantidad, en alcanzar a todos: la ética como una forma de la estética.
 Caparrós
 04
—Y ahora, ¿sabe qué me pasa? Cuando no como estoy todo el tiempo con los dientes apretados, me chirrian los dientes. Pero después me dice que siempre le queda la cosa del riñón. —¿La cosa del riñón? —Sí, eso me tranquiliza. Yo sé que si estoy muy desesperada, si realmente nos quedamos sin nada de nada, siempre puedo vender un riñón. —¿Vender un riñón? Le digo, un poco demasiado fuerte. Avani me mira como si no entendiera mi energía: —Sí, muchos lo hacen. Bueno, no sé si muchos, pero algunos seguro. Mi amiga Darshita lo hizo y está bien. Dice Avani y se calla. Me mira, baja los ojos, me mira de nuevo. Yo le pregunto qué, ella susurra: se diría que no quiere escucharse. —Me da miedo. Me da mucho miedo. Ojalá pueda hacerlo, si lo necesito, por mis hijos. Pero mire si resulta que no puedo… ¿Usted cree que podré? Hay preguntas que ninguno de nosotros se ha hecho nunca.
 Caparrós
 05
La huelga de hambre es una forma de ejercer violencia contra sí mismo para que otro —el poder, el Estado— tengan que hacerse responsables de esa violencia: el huelguista decide empezarla, pero el poder tiene la posibilidad de terminarla otorgando lo pedido. Y, si no la termina, se vuelve verdugo. La huelga de hambre solo puede funcionar frente a un gobierno en que el huelguista de algún modo confía. Un verdadero tirano contestaría a una huelga de hambre con una carcajada o ni siquiera; la apuesta del huelguista consiste en suponer que un gobierno que se precia de alguna bondad —la democracia, la justicia— no querrá cargar sobre sí el peso de dejar morir a un hombre pacífico que solo pide que lo escuchen.
 Caparrós
 06
(A veces pienso que no es sorprendente que ahora, cada día, dejemos que tantos se mueran de hambre: que no nos importe, que sepamos mirar tan bien para otros lados. Somos, en última instancia, los mismos que éramos hace 70 años, los mismos que ya lo hicimos hace 70 años, cuando Hitler y Stalin y Roosevelt y los campos y las bombas.)
 Caparrós
 07
Ahora dar de comer a los hambrientos solo depende de la voluntad. Si hay gente que no come suficiente —si hay gente que se enferma de hambre, que se muere de hambre— es porque los que tienen comida no quieren dársela: los que tenemos comida no queremos dársela. El mundo produce más comida que la que necesitan sus habitantes; todos sabemos quiénes no tienen suficiente; mandarles lo que necesitan puede ser cuestión de horas. Esto es lo que hace que el hambre actual sea, de algún modo, más brutal, más horrible que el de hace cien años o mil años. O, por lo menos, mucho más elocuente sobre lo que somos.
 Caparrós
 08
Dice, sin pestañear, como quien repite una historia que ya se ha vuelto pura prosa, como quien no recuerda lo que acaba de decir
 Caparrós
 09
A primera vista uno diría —yo diría— que ser pobre es tener menos opciones: no poder elegir. Y en cambio ser pobre es elegir todo el tiempo: si comer o beber, si una ropa o un techo, si malvivir o malvivir. Ser pobre es, también, esa sensación de incompletud perpetua: que uno solo puede conseguir una pequeñísima parte de lo que cree que debería, de lo que necesita. Todo el esfuerzo de los publicitarios, de los marketineros, de los grandes vendedores de los países ricos consiste en reproducir entre sus consumidores esa sensación: que el mundo está lleno de cosas que uno quiere y todavía no tiene. Transformar a los ricos en pobres a los que siempre les falta algo más.
 Caparrós
 10
Daca es un fracaso perfecto y es, al mismo tiempo, gran ejemplo del éxito de las ciudades: un imán que atrae más y más personas y, al hacerlo, cae en el desastre. El éxito de las ciudades del OtroMundo conlleva su hecatombe: viven en una constante crisis de superproducción —de deseo, de atracción, de esperanza—: el mecanismo de las crisis del capitalismo.
 Caparrós
 11
La zozobra de ganarse la vida cada día. La ecuación es muy simple: no hay reservas. Si hoy consigue plata, su familia y él comen; si no, no. Vivir al día: saber que si hoy no gana lo suficiente, hoy no come. Y mañana, y pasado. Hay que salir y ver, y puede ser y puede no ser. La idea de reserva, de ahorro, de garantía —que fundó culturas, que constituye la nuestra— no existe: hay que salir y ver y puede ser y puede no ser.
 Caparrós
 12
Son sociedades que se van haciendo con retazos. Y la sobredeterminación de unas metas precisas: importa entender qué lleva a esas personas hasta ahí. La esperanza de comer todos los días; la ilusión de que sus hijos vivan vidas distintas; la aceptación de que lo que tenían no es viable; la convicción de que cambiar es necesario y la resignación de que el cambio posible es esta migración, estos hacinamientos. No hay historia; la historia es lo que dejaron, porque los condenaba. Debería haber futuro, porque para eso vinieron; lo hay, pero muy lejos, ilusorio: no es una construcción, un recorrido. Y, mientras, un presente continuo, hecho de seguir sobreviviendo. Tener más tiempos que un tiempo suele ser un lujo.
 Caparrós
   13
¿Cómo? O sea, yo: ¿qué es lo que hace que esta noche pueda volver del campo de batalla y meterme en la ducha y cambiarme y perfumarme y pedir en el restorán del hotel una cena gozosa y si acaso una botella de buen vino? ¿Qué es lo que hace que pueda hacerlo todas las demás noches? ¿La evidencia de que no hacerlo no va a solucionar nada de sus vidas y mientras tanto la mía sigue ahí? ¿La capacidad para dejar en el perchero eso que, al fin y al cabo, es mi trabajo? ¿La excusa de que yo al menos trabajo en este libro? ¿Cómo carajo?
 Caparrós
 14
Comer es escribirse, estructurarse: cada pueblo escribe su relato de sí mismo cada día con las comidas que come, con la forma en que las come, el modo en que las piensa, las recuerda, las desea. Una de las características menos pensadas del hambre es que te hace comer siempre lo mismo. La variedad alimentaria es un mito moderno, un mito de países ricos. A lo largo de la historia, la mayor parte de las personas comieron más o menos lo mismo casi todos los días de sus vidas.
 Caparrós
 15
Fatema paga 2.000 takas por mes por esta pieza de diez metros cuadrados; le quedan 1.000 para todo lo demás: ropa, transportes, la comida. Tres personas que tienen que vivir vestirse alimentarse con 13 dólares al mes: arroz, con suerte, dos veces al día. Se suele pensar el hambre como un problema de los que no tienen trabajo, los marginales, los perdidos; no de quienes se pasan media vida frente a una máquina produciendo mercancías apreciadas.
 Caparrós
 16
A veces me parece que no queremos contestarnos las preguntas fáciles: ¿Por qué son tan pobres y pasan tanto hambre en Bengala, alumno Mopi? Porque les pagan muy poco por su trabajo, señorita, los explotan. ¿Y por qué aceptan trabajar por tan poca plata, alumno Mopi? Porque no tienen otra opción, es eso o el hambre puro y duro, señorita. ¿Y quién se beneficia de esa explotación, alumno Mopi? Muchos, señorita, muchos. Sí, ya sé que muchos pero dígame alguno, alumno. Bueno, yo, por ejemplo, que me compro esta ropa que ellos hacen.
 Caparrós
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Hace décadas que abundan, amables, los papers biempensantes —americanos, europeos, «internacionales»— que suelen empezar por una verdad intrépida: que la causa principal del hambre en el mundo es la pobreza. Parece lógico, casi perogrullesco. Y, sin embargo, es pura mistificación retórica. Podrían decir, si acaso, y es del todo distinto: tienen hambre los pobres, porque no tienen suficiente para comprar su comida, pero pobreza y hambre no tienen una relación de causa y efecto; comparten, en realidad, la misma causa. Son formas de la misma privación, mismo despojo. La causa principal del hambre en el mundo es la riqueza: el hecho de que unos pocos se queden con lo que muchos necesitan, incluida la comida.
 Caparrós
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El etanol norteamericano está hecho de maíz, uno de sus cultivos principales. Los Estados Unidos producen el 35 por ciento por ciento del maíz del mundo, más de 350 millones de toneladas al año. Una ley federal, la Renewable Fuel Standard, dice que el 40 por ciento de ese grano debe ser usado para llenar los tanques de los coches. Es casi un sexto del consumo mundial de uno de los alimentos más consumidos del mundo. Con los 170 kilos de maíz que se necesitan para llenar un tanque de etanol-85, un chico zambio o mexicano o bengalí puede sobrevivir un año entero. Un tanque, un chico, un año. Y se llenan, cada año, casi 900 millones de tanques. [...] Va de nuevo: el agrocombustible que usan los coches estadounidenses alcanzaría para que todos los hambrientos del mundo recibieran medio kilo de maíz por día.
 Caparrós
 19
Los fondos de inversión son la plata que sobra en los países más ricos: esa que las personas no precisan gastar para vivir, su superávit, la basura. Es la plata que pone en escena la diferencia entre los sectores que necesitan todo lo que tienen para intentar sobrevivir y los que acumulan mucho más que lo que necesitan. [...] Es plata que no usan, y entonces quieren hacer algo con ella: comprar con ella el producto más buscado, la seguridad. Comprarse el lujo último de los países ricos: la garantía de un futuro.
 Caparrós
  20
Los fondos de inversión son la forma en que millones de personas «comunes» —jubilados, prejubilados, ahorristas de diez o veinte mil dólares, ejecutivos agresivos, inspectores coimeros, despedidos que cuidan su indemnización, médicos exitosos, comerciantes de calzado de lujo, billonarios del gas siberiano, maestros belgas, putas holandesas, estrellas del rock y todo el resto— participan del hambre de millones: contribuyen, de lejos, como quien no quiere la cosa, en el mecanismo que hace que los precios de la comida suban y más y más personas no puedan pagarlos. Su dinero es una porción muy importante de esos 320.000 millones de dólares que, según Barclays Capital, actúan en el mercado de las materias primas y desquiciaron el precio de los alimentos. Yo soy uno de ellos.
Caparrós
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La migración ya no es, como lo fue hasta hace cien años, el intento de hacerse rico en sociedades que se presentaban como en formación: «hacer la América». Ahora alcanzaría con formar parte de los pobres del país al que uno va para vivir mucho mejor que en el país de dónde uno sale, el que llamamos propio. Por eso la migración se presenta como la opción más populosa de estos tiempos, la esperanza o la amenaza, el campo donde se juega la disputa entre pobres y ricos de este mundo. Para millones, el futuro no es otro tiempo sino otro lugar. Pero todo puede fallar.
 Caparrós
 22
Las comparaciones siguen siendo odiosas: al lado de los pobres de Níger o de Bangladesh, éstos serían privilegiados absolutos. Pero no están al lado.
 Caparrós
 23
Acumulamos en el lugar equivocado: en lugar de almacenar fuera del cuerpo —en la despensa, en la heladera, en la tarjeta—, seguimos cargándolas. Somos cuerpos paleolíticos perdidos en un entorno post-industrial, inadaptados. La civilización es crear herramientas que hagan lo que antes hacía el cuerpo: un gordo es anterior. Un gordo es como un homeless que lleva todas sus pertenencias en su hato, doblado bajo el peso.
 Caparrós
 24
No es verdad: la obesidad es el hambre de los países ricos. Los obesos son los malnutridos —los más pobres— del mundo más o menos rico. En estos países la malnutrición pasó del defecto al exceso: de la falta de comida a la sobra de comida basura. La malnutrición de los pobres de los países pobres consiste en comer poco y no desarrollar sus cuerpos y sus mentes; la de los pobres de los países ricos consiste en comer mucha basura barata —grasas, azúcar, sal— y desarrrollar estos cuerpos desmedidos. No son la contracara de los hambrientos: son sus pares. La forma de la desigualdad en estos pagos.
 Caparrós
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A diferencia de las demás formas de la malnutrición —que suenan africanas—, ésta sucede en sus ciudades, se paga con sus presupuestos. Aunque puede ser que lo más duro sea la conciencia del fracaso: no es fácil aceptar que su sociedad —la sociedad más poderosa de este mundo— ha producido estas legiones de cuerpos descompuestos, personas que ya no pueden funcionar como personas. Esa cultura obesa, tan Simpson, tan Big Mac, tan Walmart, es el cadáver —graso— en el ropero americano. Otra vez: no es cierto que los gordos se coman lo que no comen los hambrientos; sí parece cierto que las mismas industrias que los llenan de basura controlan los mercados y se apropian de los recursos que podrían comer los que no comen. Los gordos y los hambrientos son víctimas —distintas— de lo mismo. Llamémoslo desigualdad, capitalismo, la vergüenza.
 Caparrós
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(Que el capitalismo es como los aviones: si se para se cae, debe seguir su interminable fuga hacia adelante —y simula que no puede aterrizar. Que el verdadero milagro del avión no es volar: es convertir el movimiento más veloz que sabemos alcanzar en apariencia de inmovilidad, de quietud entre nubes, una quietud que hace todavía más inexplicable inverosímil que sigamos colgados en el aire. Que el verdadero milagro del capitalismo es convertir la inmovilidad por excelencia en apariencia de movimiento furibundo.)
 Caparrós
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El 11 de septiembre de 2001, en Nueva York, casi 3.000 personas —2.973, dicen los archivos, aunque nunca se sabrá preciso— murieron a causa de dos ataques aéreos de nuevo tipo. Ese mismo día, en el resto del mundo, unas 25.000 personas murieron por causas relacionadas con el hambre. Y al otro día otras tantas, y al otro, y al otro. Las muertes de Nueva York sucedieron en Nueva York, la capital del mundo; las otras en sus márgenes más lejanos, arrabales del Otro. Las muertes de Nueva York tuvieron responsables, y a todos los que tienen poder mediático les convenía ponerlo muy en evidencia; las otras parecen no tener responsables y la mayoría de los medios prefiere mantener esa ilusión. Las muertes de Nueva York sirvieron para que los grandes poderes políticos del mundo justificaran un aumento exponencial del control social y la represión; las otras no les sirven, aparentemente, para nada. O, por lo menos, para nada que puedan proclamar.
 Caparrós
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La desigualdad no está solo en el relato de la muerte; también —sobre todo— está en la muerte misma.
 Caparrós
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Quizás ésa sería, provisoriamente, una medida de la igualdad urgente, irrenunciable: que nadie se muera de males para los que tenemos soluciones. Una mínima igualdad ante la gran igualadora. Es tan modesta. La igualdad de comer todos los días es más modesta todavía. Decíamos: en un mundo donde nada legitima más que ser víctima, el hambre produce víctimas —muchísimas víctimas— sin victimario aparente. ¿Qué es una víctima sin victimario? Un acto sin agente, un hecho que nadie ha hecho, la confusión de no poder completar una historia. Y, por lo tanto, una historia molesta, que tantos dejan pasar. Y hablan, si es que algo dicen, de la desigualdad.
 Caparrós
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Tirar a la basura es un gesto de poder. El poder de prescindir de bienes que otros necesitarían; el poder de saber que otros se ocuparán de desaparecerlo. El poder de poseer es placentero; nunca más que el poder de deshacerse: el poder de no necesitar la posesión. El poder verdadero es desdeñarlo.
 Caparrós
 31
La basura —la abundancia de basura, el desperdicio de basura— es una de las metáforas más obvias del sistema-mundo: que unos tiren lo que otros necesitan tanto, que a unos les falte lo que les sobra a otros.
 Caparrós
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lasvocesdelosotros · 1 year
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noviembre 2021
01
La religión necesita imponerse contrariando lo natural. Es la cultura en un sentido extremo: una cultura que no traduce este mundo sino creando otros. Ayunar es un triunfo de la cultura, un monumento al orgullo de la cultura. Para el pensamiento religioso —el pensamiento que imagina que hay algo mejor que los hombres o sea: que los hombres somos una raza inferior— comer es una debilidad. Seríamos mejores si no debiéramos comer. Comer siempre fue pensado como una obligación pesada, baja; los seres superiores están exentos de ella. En la tradición cristiana nunca se dijo que Dios comiera nada; en la grecorromana, por ejemplo, aquellos dioses tan antropomórficos comían néctar y ambrosía. Ayunar es de ángeles —decían los cristianos—: está más allá de la naturaleza.
 Caparrós
 02
No hay nada más vulgar que comer para matar el hambre. Pero para la mayoría de esa población la gula no era pecado, era milagro.
 Caparrós
 03
vi un odre y llevo un rato con la palabra odre rodándome en la lengua, gustándola, degustándola, doliéndome por todas esas palabras que quedan huérfanas de aquello que decían y, ya sin objeto, caen lentas en el sinsentido.
 Caparrós
 04
El capitalismo más reciente consiguió darles a todos la misma calidad que la comida o la bebida: son para ser consumidos, consumirse. Consumir es una palabra muy rugosa. Por eso, ahora, supongo, el mundo está tanto más lleno de comerciantes: porque nada se compra de una vez por todas, porque todo debe ser comprado y vendido infinidad de veces. [...]  ¿Qué pasaría si desapareciera esa actividad tan notoriamente innecesaria, el comercio? Los comerciantes son casi tan inútiles como esos tipos que te dicen que te dicen lo que pasa, cómo serían las cosas. Los comerciantes no hacen más que encarecer el acceso a lo que necesitamos. Algunos consiguen cosas que otros no y son, en el mejor de los casos, intermediarios eficientes. Pero la mayoría vende lo mismo que la mayoría —y sin embargo existen, sobreviven, cada vez son más.
 Caparrós
    05
En un puesto escondido un hombre vende pescaditos rojos: en una pecera con adornos de plástico, los pescaditos rojos. Es un salto civilizatorio. Occidente está tan mal —tan bien— acostumbrado que no suele recordar el valor de lo superfluo. Le superflu, chose très nécessaire —decía, sin la menor necesidad, el gran Voltaire. Lo superfluo es la marca del gran cambio: hacerte con algo que no necesitabas, pasar de la pura urgencia a ese estado de —muy leve— privilegio en que podés gastarte unas monedas en un pez rojo e inútil. Rojo importa, pero inútil es la palabra clave: la conquista del derecho a lo inútil, lo contrario del hambre. Tener hambre es vivir con lo estrictamente necesario, vivir para lo estrictamente necesario, vivir en lo estrictamente necesario —y muchas veces ni siquiera. Hambre es comerse los pescaditos rojos.
 Caparrós
 06
Me impresiona la naturalidad con que tragamos los productos más diversos: los procesos más complejos. En un mordisco de carne de vaca o una alita de pollo o un camarón se acumula tal cantidad de historias. Pero, sobre todo: la naturalidad de pensar que así es la vida sin tener claro que durante miles de años no fue así, que para miles de millones de personas no es así. Es un despilfarro de privilegio: ser tan privilegiados que ni siquiera recordamos que lo somos.
 Caparrós
 07
El problema es que se necesitan cuatro calorías vegetales para producir una caloría de pollo. Seis, para producir una de cerdo. Y diez calorías vegetales para producir una caloría de vaca o de cordero. Lo mismo pasa con el agua: se necesitan 1.500 litros para producir un kilo de maíz, 15.000 para un kilo de vaca. Una hectárea de buena tierra puede producir unos 35 kilos de proteínas vegetales; si su producto se usa para alimentar animales, producirá unos siete kilos. O sea: una persona que come carne se apropia de recursos que, repartidos, alcanzarían para cinco o diez personas. Comer carne es establecer una desigualdad bien bruta: yo soy el que se permite comer un alimento cinco veces, diez veces más costoso que el que vos comés. Comer carne es decir a mí qué carajo me importan los otros nueve. Comer carne es un alarde bestia de poder. [...] Digo: para que siguiéramos comiendo carne con cosas —no cosas con carne— debería mantenerse este orden de exclusión, de 3.000 millones usando los recursos de 7.000 millones. Parece un precio fuerte. La carne es estandarte y es proclama: el mundo solo se puede usar así si lo usamos unos pocos. Si todos quieren usarlo igual no puede funcionar. La exclusión es condición necesaria —y nunca suficiente.
 Caparrós
 08
Hubo tiempos en que el hambre era un grito, pero el hambre contemporáneo es, sobre todo, silencioso: una condición de los que no tienen la posibilidad de hablar. Hablamos —con la boca llena— los que comemos. Los que no comen generalmente callan. O hablan donde nadie los escucha.
 Caparrós
 09
El hambre es una de las razones principales para explicar que la esperanza de vida en España sea de 82 años y de 41 en Mozambique; 83 en Japón y en Zambia 38: que haya personas que nazcan con todas las chances de vivir el doble que otras solo porque nacieron en otro lugar, en otra sociedad. No se me ocurre forma más bruta de injusticia.
 Caparrós
  10
le pregunto cuál es su momento favorito del día y no me entiende. Se lo repito —le pido a la intérprete que se lo repita— y Rahmati dice, una vez más, que no entiende la idea: que no tiene un momento favorito, que todo es más o menos igual siempre.
 Caparrós
 11
Separarse viene de la sal amargamente.
 Alejandro Tarrab
 12
He notado que cierro la mandíbula hasta trabar la escotadura que trituro mis dientes gastados con ustedes que repaso entre las encías los odres de viejas pieles con ustedes. Mi lengua está muerta dentro de mi boca muerta.
Tarrab
 13
En la India hay, en cada momento, unos ocho millones de chicos en esa condición, la más bruta del hambre. Son, por ahora, números. Los números sirven para saber lo que ya sabemos: para convencernos de lo obvio. Los respetamos, creemos que dicen la verdad. Los números son el último refugio de la verosimilitud contemporánea. Y son, también, el mejor modo de enfriar las realidades: de volverlas abstractas.
 Caparrós
 14
Los humanos sobrevivieron, conquistaron la tierra porque saben adaptarse a tantas cosas: aquí se adaptaron a casi no comer y, por eso, millones son bajos, flacos, módicos, cuerpos que saben subsistir con poco.
 Caparrós
 15
Madres así de chiquitas que paren bebés muy chiquitos, nenes que llegan al año pesando cuatro kilos —y nunca caminaron. Es un fracaso estrepitoso: la adaptación darwiniana en toda su tristeza. La capacidad del hombre para ajustarse a la vida desnutrida y producir, para eso, cuerpos que requieren mucho menos, cerebros que también.
 Caparrós
 16
Le pregunto qué le gusta comer y me mira con odio mal guardado. Kamless tiene 26 años; es flaco, bajo, enérgico, muy dueño de sus opiniones. Kamless y Renu, su mujer, acaban de llegar al centro sanitario de Médicos Sin Fronteras en bicicleta, con Manuhar en brazos. —A mí no me gusta comer esto o lo otro; a mí lo que me gusta es comer. Yo soy pobre, no puedo pensar en comer algo en particular. Yo como lo que puedo, un roti, un plato de arroz, lo que sea. Lo que me gusta es poder comer, que mi familia pueda.
 Caparrós
 17
la primera vez que tuvo hambre y entendió que no le iban a dar nada de comer le gritó a su mamá que era mala y que le diera de comer y ella le pegó un cachetazo. Y que después vio que su mamá lloraba y entonces le dijo que era al revés, que la que tenía que llorar era ella porque ella se había ligado el cachetazo y entonces su mamá se rió y se reía y lloraba y que ella no entendía qué pasaba.
 Caparrós
 18
—un médico aquí, en medio de la nada, un médico solo en la tormenta—, se enfrenta a la realidad más extrema: será un buen médico si salva a ese chico. Si no lo salva puede decirse que el entorno que los medios que la fatalidad, pero no será bueno. Y, si lo salva, mañana ya no será el que lo salvó porque habrá otro, y otro: tendrá que volver a ser eso que es de nuevo, y otra vez. Lo tranquilizador y lo terrible de la vida de un médico es que le resulta mucho más difícil engañarse.
 Caparrós
 19
(A veces pienso que este libro debería ser una sucesión de historias mínimas, historias como éstas, sin más. Y que cada quien lea hasta donde pueda, y se pregunte por qué lee o no lee. Después caigo en la trampa de intentar explicar: de razonar, de buscar razones para lo intolerable. También en esto soy cobarde.)
 Caparrós
 20
La gran pelea de los MSF-Biraul no es contra ninguna enfermedad: es contra la resistencia de sus pacientes —los padres de sus pacientes— a creer en una enfermedad que se parece tanto a su estado normal. Es la crueldad quizá más cruel de la desnutrición: que, con frecuencia, los que la sufren no la reconocen.  No saben —no quieren saber, no pueden saber, no terminan de saber— que una vida podría ser distinta.
 Caparrós
 21
Dice Sadadi, y que no entiende qué le pasó, que ella siempre le da su arroz o su pan con verduras, por lo menos una vez por día. Que querría darle arroz todos los días pero a veces no puede. —¿Por qué? —Porque está muy caro. Dice, y me mira con tristeza: hay gente que no entiende lo más simple. Hay situaciones donde lo más simple es tan difícil de entender, tan alejado. Son, supongo, las que me hacen seguir errando por el mundo.
 Caparrós
 22
Sus vidas —sus historias— son demasiado parecidas. En eso consiste, también, esta miseria: historias repetidas, ineludibles como piedras. —¿Te parece bien o mal que haya personas que tienen tanta plata y otras que tan poca? —No está bien, está mal. —¿Y quién lo puede cambiar? —¿Quién lo puede cambiar? Sus vidas —sus historias— son, además, monótonas, sin grandes sobresaltos. Declives lentos, caídas paulatinas.
 Caparrós
 23
En este libro, en realidad, no pasa nada. O, mejor dicho: nada que no pase todo el tiempo. Lo más difícil de este libro es captar la cantidad, la escala: entender —entender en el sentido de tener presente, entender como quien dice hacerse cargo— que cada historia le podría suceder —y, con sus variantes, les sucede— a miles y miles de personas. Pensar que la pequeña historia de Sadadi es la gran historia de cientos de millones de indios, por ejemplo. Pero, también: ¿qué pasa cuando un individuo se vuelve parte de un concepto? Los que tienen hambre. ¿Qué pasa cuando deja de ser esa nenita adorable de sonrisa triste o ese hijodeputa que casi te roba el bolso o ese señor que trata de decirte algo en un idioma raro, y se vuelve una idea, una abstracción? ¿Facilita qué cosas, nos complica qué cosas?
 Caparrós
 24
(Me gusta la palabra expat, expatriado, que ahora se usa tanto. Alguien dice que un migrante es un pobre que se va a trabajar a un país rico y un expat un rico que se va a trabajar a un país pobre. Y sin embargo me gusta pensar que expat no significa el que está lejos de su patria sino el que ya no piensa en términos de patria: quien se fue del concepto de que la patria es lo que importa.)
 Caparrós
 25
El hambre es el problema ajeno por antonomasia. Nunca es directamente el nuestro. Nunca somos nosotros —los que sí nos preocupamos por el ecosistema, los derechos sexuales, la libertad de expresión, la paz en Medio Oriente. ¿Por qué tendría que importarnos? ¿En nombre de qué idea, qué principio, qué dolor, qué moral?
 Caparrós
 26
Y he sufrido, durante horas, la violenta imposibilidad de lo simple: mi absoluta incapacidad de ser, por un rato, esa señora que está sentada a mi lado en el tren, el velo blanco sobre las arrugas de su cara. Tendría que ser fácil: ella es nadie, yo soy nadie, que intercambiemos nadies no molesta a nadie, pero no. Es imposible. Y entonces —me pasa a menudo— la humillación, la claustrofobia de vivir toda la vida reducido a uno mismo: no poder, jamás nunca, pensar como piensa cualquier otro de esos siete mil millones. Vivir en una cárcel tan estrecha. Escribir para fingir la fuga.
 Caparrós
 27
Siempre recuerdo lo que me decía aquel ex jerarca del partido comunista polaco que conocí en Moscú, 1991, justo después de la debacle: que el comunismo era un sistema para personas casi perfectas. Y que no funcionó porque no lo somos, y entonces desechamos la búsqueda de algo realmente bueno y aceptamos este mundo de lo supuestamente menos malo, la democracia de mercado, donde supuestamente las imperfecciones de uno con poder son balanceadas por las imperfecciones de otros muchos. El hambre muestra que no hay tal balance. Pero el capitalismo difumina la culpa: siempre fue extraordinario para difuminar la culpa.
 Caparrós
 28
En la India se prohibieron, hace casi veinte años, las ecografías prenatales: muchas parejas las usaban para lo que la corrección política llamaba «abortos selectivos»: descartar el feto si era nena. La prohibición se cumple poco: hay muchas clínicas privadas que lo hacen todavía. Hay algo que el progreso indio está consiguiendo como nadie: usar la técnica más moderna al servicio de las costumbres más arcaicas.
 Caparrós
 29
un jeep —achacoso— de la policía de tránsito cierra el paso a una moto. La moto es grande y brishosa pero berreta, una de esas motos chinas con todos los atributos exteriores imitados en plástico. El motorista grita algo desde atrás; el policía le contesta algo, el motorista grita otra vez, el policía de nuevo, el motorista. Los gritos se hacen más y más fuertes. El motorista avanza, se para junto a la ventana del policía conductor, le grita más, levanta el brazo, le golpea la ventana. Está fuera de sí: sacado. Siempre me fascinaron esos momentos en que una tontería se transforma, de golpe, en un conflicto que puede ser terrible: en que alguien pierde los baremos habituales y se arriesga a cualquier cosa por algo que ni siquiera le importaría si pudiera pensarlo. Siempre me sorprendieron, todavía más, esos millones de momentos en que sucede lo contrario: cuando algo que sí te importa mucho no te hace reaccionar. La fuerza de la ideología.
 Caparrós
 30
La propiedad privada de la reproducción es un gran invento contemporáneo. Es un modo brutal de la idea de propiedad: no sobre un campo, no sobre el producto de ese campo, sino sobre un modelo natural —la semilla— que solo su «dueño» tiene derecho a producir: la propiedad intelectual de la naturaleza. Todo el proceso es una síntesis del funcionamiento del capitalismo: científicos consiguen un avance técnico que puede beneficiar a millones de personas. Pero trabajan para una compañía privada, así que la compañía se queda con los beneficios. Y, detrás, los Estados sirven para garantizar que los recauden: con las leyes de patentes se aseguran de que todos les paguen.
 Caparrós
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lasvocesdelosotros · 1 year
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octubre 2021
01
«yo le pregunté si realmente comía esa bola de mijo todos los días de su vida y tuvimos un choque cultural: —Bueno, todos los días que puedo.
 Me dijo y bajó los ojos con vergüenza y yo me sentí como un felpudo, y seguimos hablando de sus alimentos y la falta de ellos y yo, tilingo de mí, me enfrentaba por primera vez a la forma más extrema del hambre y al cabo de un par de horas de sorpresas le pregunté —por primera vez, esa pregunta que después haría tanto— que si pudiera pedir lo que quisiera, cualquier cosa, a un mago capaz de dársela, qué le pediría. Aisha tardó un rato, como quien se enfrenta a algo impensado. Aisha tenía 30 o 35 años, la nariz de rapaz, los ojos de tristeza, su tela lila cubriendo todo el resto. —Quiero una vaca que me dé mucha leche, entonces si vendo un poco de leche puedo comprar las cosas para hacer buñuelos para venderlos en el mercado y con eso más o menos me las arreglaría. —Pero lo que te digo es que el mago te puede dar cualquier cosa, lo que le pidas. —¿De verdad cualquier cosa?
 —Sí, lo que le pidas. —¿Dos vacas? Me dijo en un susurro, y me explicó: —Con dos sí que nunca más voy a tener hambre. Era tan poco, pensé primero. Y era tanto.
Caparrós
 02
Conocemos el hambre, estamos acostumbrados al hambre: sentimos hambre dos, tres veces al día. No hay nada más frecuente, más constante, más presente en nuestras vidas que el hambre —y, al mismo tiempo, para la mayoría de nosotros, nada más lejos que el hambre verdadero. Conocemos el hambre, estamos acostumbrados al hambre: sentimos hambre dos, tres veces al día. Pero entre ese hambre repetido, cotidiano, repetida y cotidianamente saciado que vivimos, y el hambre desesperante de quienes no pueden con él, hay un mundo.
Caparrós
03
El hambre como catástrofe puntual y despiadada solo aparece cuando una guerra o un desastre natural. Lo que queda, en cambio, es aquello tanto más difícil de mostrar: los millones y millones de personas que no comen lo que deberían —y penan por eso, y se mueren de a poco por eso.
 [...]
 nada me impresionó más que entender que la pobreza más cruel, la más extrema, es la que te roba también la posibilidad de pensarte distinto. La que te deja sin horizontes, sin siquiera deseos: condenado a lo mismo inevitable».
Caparrós
04
¿se imagina lo que es no saber si va a poder comer mañana? Y, más: ¿se imagina cómo es una vida hecha de días y más días sin saber si va a poder comer mañana? ¿Una vida que consiste sobre todo en esa incertidumbre, en la zozobra de esa incertidumbre y el esfuerzo de imaginar cómo paliarla, en no poder pensar en casi nada más porque todo pensamiento se tiñe de esa falta? ¿Una vida tan restringida, tan cortita, tan dolorosa a veces, tan peleada?
Caparrós
 05
La desgracia ajena —la miseria— sirve para vender, para esconder, para mezclar los tantos: para suponer por ejemplo que el destino individual es un problema individual.
 Caparrós
 06
Este libro es un fracaso. Para empezar, porque todo libro lo es. Pero sobre todo porque una exploración del mayor fracaso del género humano no podía sino fracasar. A lo cual, está claro, contribuyeron mis imposibilidades, mis dudas, mi incapacidad. Y, aún así, es un fracaso que no me avergüenza: tendría que haber conocido más historias, pensado más cuestiones, entendido algunas cosas más. Pero a veces fracasar vale la pena. Y fracasar de nuevo, y fracasar mejor.
 Caparrós
  07
Gobernar es aprovechar la ignorancia común para explotar al máximo la propia.
 Caparrós
 08
Hambre es una palabra rara. Del famen latino los italianos hicieron fame, los portugueses fome, los franceses faim; los castellanos hambre, con esa br que también se mezcló en hombre, en hembra, en nombre: palabras muy pesadas. No hay palabra, quizá, más cargada que hambre —y, sin embargo, es fácil deshacerse de su carga. [...] El problema con esos conceptos viejos y gastados, limados por el uso fácil, es que de pronto un día algo te hace volver a verlos como si fueran nuevos, y ahí explotan.
 Caparrós
 09
El hambre es un proceso, una lucha del cuerpo contra el cuerpo. [...] Cuando una persona no consigue comer sus 2.200 calorías por día, pasa hambre: se come. Un cuerpo hambriento es un cuerpo que se está comiendo a sí mismo —y ya no encuentra mucho más.
 Caparrós
 10
Comemos sol. Sol, algunos tanto más que otros. Comer es ensolarse. Comer —ingerir alimentos— es hacerse de energía solar. Fotones diversamente cargados caen incesantes sobre la superficie del planeta: por ese proceso sorprendente que llamamos fotosíntesis, las plantas los atrapan y los transforman en materia digerible. El diez por ciento de la superficie terrestre del mundo, unos 15 millones de kilómetros cuadrados, un cuarto de hectárea por cada ser humano, se dedica a eso: a criar plantas que hacen la clorofila que sabe transformar la energía electromagnética del sol en energía química que produce las reacciones que transforman el dióxido de carbono de la atmósfera y el agua de las plantas en oxígeno que respiramos e hidratos de carbono que comemos. Todo lo que comemos, en última instancia, directa o indirectamente —a través de la carne de los animales que las comen—, son esas fibras vegetales cargadas por el sol.
 Caparrós
  11
Los términos técnicos evitan la emoción. Supongamos que lo hacen por conciencia profesional, para definir más precisos sus objetos de estudio. O que lo hacen por corrección política, para evitar la ofensa de llamar perro a un perro. Supongamos que lo hacen de onda, para cumplir mejor con su trabajo; el resultado, en cualquier caso, es que los problemas de miles de millones se transforman en un texto que solo entienden unos pocos, mientras la mayoría se queda sin saber de qué va la cuestión. En síntesis: el burocratés funciona como una barrera contra el conocimiento generalizado [...] otro de esos prodigios del idioma burocratés: un concepto que no importa sino por lo que niega. Ninguna persona que tenga regularmente ese acceso piensa en su seguridad alimentaria; solo lo hacen, cuando pueden, los que no lo tienen. De ahí que la idea operativa no es la «seguridad alimentaria» sino su opuesto. Inseguridad alimentaria es uno de los eufemismos más tristes en un tiempo de eufemismos tristes.
Caparrós
 12
habrá que hablar de un mundo que ha cambiado derechos humanos por seguridad: bien usado, aplicado en la dosis conveniente, el terrorismo de los malos sirvió para eso y mucho más.)
 Caparrós
 13
Hay una diferencia central entre el hambre de un chico y el hambre de un adulto: un adulto desnutrido puede recuperarse sin sufrir grandes consecuencias —siempre y cuando, faltaba más, consiga la comida necesaria—; un chico de menos de cinco años que no come suficiente habrá perdido su oportunidad para formar las neuronas necesarias y nunca será lo que podría haber sido.
Caparrós
 14
Cuando tú me elegiste
-el amor eligió-
salí del gran anónimo
de todos, de la nada.
Hasta entonces
nunca era yo más alto
que las sierras del mundo.
Nunca bajé más hondo
de las profundidades
máximas señaladas
en las cartas marinas.
Y mi alegría estaba
triste, como lo están
esos relojes chicos,
sin brazo en que ceñirse
y sin cuerda, parados.
Pero al decirme: “tú”
a mí, sí, a mí, entre todos-,
más alto ya que estrellas
o corales estuve.
Y mi gozo
se echó a rodar, prendido
a tu ser, en tu pulso.
Posesión tú me dabas
de mí, al dárteme tú.
Viví, vivo. ¿Hasta cuándo?
Sé que te volverás
atrás. Cuando te vayas
retornaré a ese sordo
mundo, sin diferencias,
del gramo, de la gota,
en el agua, en el peso.
Uno más seré yo
al tenerte de menos.
Y perderé mi nombre,
mi edad, mis señas, todo
perdido en mí, de mí.
Vuelto al osario inmenso
de los que no se han muerto
y ya no tienen nada
que morirse en la vida.
Pedro Salinas [en Dalí Corona]
15
He intuido brutalmente tus ojos contra los míos, tus pliegues cerrados mentalmente contra los míos. Te he visto varias veces a la altura de mi boca.
 Alejandro Tarrab
 16
La migración de los que saben o pueden y quieren escapar a la miseria y las enfermedades produce enfermedades, más miseria. [...] Los países ricos —que ponen trabas muros lanchas ametralladoras para parar migrantes en vías de desesperación— se llevan con gusto a los pocos profesionales que consiguen formarse en estos yermos.
 Caparrós
   17
El hospital de Madaua también necesita más médicos: hay —y es su privilegio porque paga MSF— ocho para cubrir tres turnos con 400 chicos internados. Dos médicos por turno, 400 chicos. Abdelaziz dormía con la abuela Mariama. Le gustaba jugar con los otros chicos, dice ella, pero se cansaba siempre pronto. Y comía poco; incluso cuando había, no comía bastante. Era el segundo hijo de su hija; el primero se murió de pocos días: había nacido muy flaquito. Fue un año difícil, no habían tenido mucho que comer y parece que él lo sintió, dice Mariama. Después nació Abdelaziz, hace unos cuatro años, y después hace dos una nena y ahora, hace unos meses, otra nena que parece enferma. —Por eso mi hija se quedó, para cuidarla. Ella, en cambio, la abuela Mariama, tuvo once hijos, dice, y ahora los cuenta con los dedos y los nudillos de las manos, repite nombres, hace caras: —Ahora me quedan cuatro, dos hombres, dos mujeres. Los demás, tres mujeres, cuatro hombres, se murieron chicos: tres cuando tenían entre año y medio y dos, después de dejar la leche materna: otro, más grandecito, por una epidemia de rubeola. Pero hubo una, dice, que se murió grande, ya casada. —Yo estaba triste, pero como es la voluntad de Dios, qué podemos hacer… Dice, y se ríe de los nervios. Me asalta, de pronto, una idea incómoda: que aquí cada adulto —cada uno de estos hombres y mujeres que esperan que sus hijos se curen del hambre, cada uno de los que caminan por la calle de tierra que bordea el hospital, cada uno de los vendedores de tarjetas para el móvil, cada una de las vendedoras de buñuelos, cada enfermero, cada enfermo— es un sobreviviente, alguien que vive de prestado. Una especie de azar afortunado, el albur de que un chiquito viva para crecer y hacerse adulto. Lo cual, de algún modo, elimina cualquier idea de derecho adquirido: la idea de que las personas, aquí, son muertos escapados, deudores muy morosos, okupas de su vida. Por lo cual los blanquitos, a veces, queremos creer que para ellos no es tan grave: bueno, están acostumbrados, las muertes no les duelen lo mismo que a nosotros. Debe ser una forma de aliviarse, de aligerar las culpas. Aquella mañana, mirando la procesión silenciosa, digna de madre tía y abuela con bebé recién muerto caí por enésima vez en esa trampa. Y en el truco de pensar que hay un marco cultural —que debió existir también en Europa hasta hace un siglo o dos— por el cual un matrimonio sabe que para asegurar una cantidad suficiente de hijos debe producir algunos más, prever sus muertes —y que las personas lo aceptan con cierta naturalidad.
Caparrós
 18
—Si no como, mi leche no sirve. Pero si como, mis hijos no comen. Así que si como para tener leche buena estoy salvando a los más chiquitos y dejando a los demás. ¿Y para qué? ¿Para que cuando los chiquitos sean más grandes les pase lo mismo? —¿Qué hizo? —No sé, no sabía qué hacer, a veces comía, a veces no. Para lo que sirvió… Dice, y mira al suelo. En sus brazos, Hussina llora muy bajito. —A veces odio tener hijos. Dice, y yo dudo en preguntarle más: me da pudor, vergüenza. Pero ella quiere decírmelo: —Lo odio, porque tengo miedo de que ellos me odien a mí por hacerlos vivir vidas así.
 Caparrós
 19
En el mundo rico, donde se supone que las estructuras del Estado y otros fondos se hacen cargo de nuestra decadencia, tener hijos se ha convertido en una búsqueda de realización personal y afectiva, una forma de continuidad simbólica; en el mundo pobre es, también, todavía, la primera estrategia de supervivencia.
 Caparrós
 20
En general, justo antes de pensarlo, la agricultura nos aparece como algo levemente despreciable, el área más anticuada, menos dinámica y contemporánea del trabajo humano. Nos olvidamos de un detalle: todavía no descubrimos otras formas de producir alimentos —de transformar la energía solar en combustible para animales.
 Caparrós
 21
—Mi trabajo es hacer que el mijo dure. Mi marido lo planta, lo cuida, lo cosecha, me lo da. Entonces yo tengo que cuidarlo. A veces nos peleamos, él me pide que le dé más comida. Pero nunca me pega, casi nunca. Yo le digo: ¿vos querés seguir comiendo cuando tengas que salir a plantar? Entonces ahora tenemos que comer un poco menos, que nos dure hasta entonces. Y al final él entiende. Pero también tengo miedo de equivocarme, claro. Tengo miedo de calcular mal y que no dure lo que tiene que durar, que se acabe antes: algunas veces me pasó. —¿Y alguna vez te pasó que te equivocaste al revés, que te sobró? Hussena se ríe, me mira con esa mezcla de extrañeza y compasión.
 Caparrós
 22
cuando empezó la lluvia. —No sabe la alegría cuando cayeron las primeras gotas y vimos que eran buenas. Me dice Ahmad, la sonrisa triunfante. —Parecía que no iba a llegar nunca. Cada año parece que no va a llegar nunca, y al final llega, pero después al otro año parece que no va a llegar nunca. —¿Y siempre llega? —No. Hay veces que no llega. O, por decirlo de otro modo: la extrema fragilidad de todo.
 Caparrós
 23
La riqueza es tener opciones, un cierto respaldo: no vivir siempre a punto del desastre. Moverse en un terreno ancho, donde hay incluso lugar para caerse, donde incluso caído estás en algún lado; la miseria es vivir en un filo: cualquier caída es despeñarse.
 Caparrós
 24
Las remesas de los migrantes son una forma salvaje de redistribución de la riqueza, mezclada con explotación un poco más salvaje: pobres hacen en países más ricos los trabajos que los locales no quieren hacer y, a cambio, mandan dinero a sus países.
 Caparrós
 25
—¿Cuál es tu plato favorito, el que más te gusta comer? —La bola de mijo. —¿Sí? ¿Es mejor que el pollo? —¿Pollo? Pollo no puedo comer nunca. ¿Para qué quiero que me guste?
 Caparrós
 26
Nosotros sabemos que por allá sí van a tener buena cosecha. No se puede discutir con el que sabe. Sí pensar, si acaso, en la necesidad del mito: un poco más allá, siempre más lejos, hay algo (mejor), algo que uno merecería tener pero no tiene. De eso está hecha, entre otras cosas, la modernidad; de eso, también, las religiones. De eso, la historia.
 Caparrós
 27
Me pregunto cuándo habrá empezado a circular esa idea tan contemporánea de que hay que «hacer algo» con su vida: que hay que «darle un sentido», usarla para algo. Algo distinto de comer, trabajar, procrear, creer, olvidarse, morirse. Durante milenios muy pocos lo pensaron: para una mayoría abrumadora, vivir era más que suficiente. Pero ahora se supone que no alcanza: que hay que hacer algo más.
 Caparrós
 28
Siguen los problemas de vocabulario. Unos hablan de malnutrición, otros de desnutrición, pero todos están más o menos de acuerdo en que existe algo que llaman Desnutrición —o Malnutrición— Aguda. La desnutrición aguda es lo que le pasa a una persona que no come suficiente: el resultado físico del hambre. Decíamos: un cuerpo que se come a sí mismo. Un cuerpo que se consume: por eso la enfermedad más visible de los desnutridos se llama consunción.
 Caparrós
 29
Hay quienes dicen que el plumpy es un típico producto de la época del sucedáneo: dulzura sin azúcar, café sin cafeína, manteca sin colesterol, bicicletas sin desplazamiento, cigarrillos sin humo, sexo sin contacto, alimentación sin comida: un modo de simular que esos chicos que no comen comen, que esos millones de paupérrimos van a seguir viviendo.
 Caparrós
 30
Tengo hambre, esa exigencia en la boca del estómago, esa constancia insistente de un vacío que, de tanto insistir, se te vuelve dolor.
[...] Mi cuerpo se ha convertido en enemigo: soy rehén de mi cuerpo. (La sensación de que me estoy perdiendo algo. Que debería poder registrar mejor lo que siento, que eso me ayudaría a entender la situación del hambre, me ayudaría a contarla. La sensación de que no puedo. La enfermedad: la sensación de que me estoy perdiendo. Algo.)
Caparrós
 31
Una pelea constante por lo más inmediato, por lo básico: si pudiera tener todo lo que quisiera, le pregunté, y me dijo dos vacas. Esta miseria que también consiste en no creer ni haber aprendido ni sospechar que existen otras vidas y que las otras vidas no son siempre solo de los otros. No es solo un recorte de las fronteras materiales; también de las mentales, la reducción del campo de lo imaginable. Y, entonces, el sentido más estricto de la palabra supervivencia: miles y miles de personas que se levantan cada día para ver si consiguen qué comer. El sentido más breve de la palabra supervivencia: no es fácil, con esa idea del mundo, en esas condiciones, pensar en nada a largo plazo —un mes, tres meses, año y medio, un siglo. El futuro es el lujo de los que se alimentan.
 Caparrós
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lasvocesdelosotros · 1 year
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septiembre 2021
01
¿Qué pasa con quien se identificó con representaciones sociales indeseables, como la locura, la criminalidad, o el abyecto? 
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  02
A pesar de la aflicción en que se encuentra, produce un ajuste creador, denominado por nosotros ajuste de inclusión.  
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  03
La función personalidad, por lo tanto, no es un evento subjetivo, privado, sino el conjunto de lazos sociales por cuyo medio alcanzamos una representación de nuestra unidad posible (y no virtual, pues, como vimos, la virtualidad tiene que ver con los deseos)
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  04
la experiencia de contacto desencadenada por nuestros actos sociales (estén ellos acompañados o no de trasfondo sensorial) pueden no resultar representaciones sociales (otro social) junto a las que cada acto podría identificarse como persona, asumir una responsabilidad, encariñarse con un valor, comprender un pensamiento o heredar una institución. Entonces, el deseo del otro dominador puede exigir que alienemos nuestras representaciones a su favor. O, el deseo totalitario del otro soberano puede querer aniquilar nuestras representaciones.
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  05
La experiencia del contacto envuelve [...]: la preocupación actual (que incluye nuestras necesidades fisiológicas y las demandas por inteligencia social formuladas en el lenguaje), las excitaciones (que, una vez demandadas, retornan de un fondo impersonal de hábitos asimilados) y las soluciones venideras (que no son más que nuestros deseos formulados con base en la expectativa de nuestros semejantes).
 PHG en Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  06
concuerdo con Merleau-Ponty en que la comunicación comienza con los cuerpos de las personas [...]. No son mentes que se comunican, son personas. El uso de las palabras es en sí mismo un acto creativo, en parte físico, pero que produce sentidos (o pensamientos) que no existen en los pensamientos previos.  
 Goodman en Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  07
sufrimiento antropológico es el nombre que damos al sentimiento que podemos compartir con otros sujetos de acto frente al desfallecimiento de la materialidad de las representaciones (del otro social) con las cuales estamos identificados. 
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  08
en su forma genuina, sufrimiento es la expresión sin objeto, sin meta, sin origen, pues el sufridor no sabe lo que necesita, mucho menos como operar ante el otro, una vez que está despojado de referencias.
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  09
El gran desafío de los clínicos, en ese momento, es asegurar un espacio y un tiempo seguros en que los pedidos de inclusión puedan ocurrir y desarrollarse, hasta encontrar una expresión semántica que les valga la ocasión de buscar, en la realidad, una nueva representación que les pueda servir. En cierta medida, los clínicos deberían poder oír y acoger los restos de representación aún activos en las expresiones desesperadas, ayudando a los sufridores a reconstruir no exactamente lo que perdieron, sino una mínima realidad de donde estos podrán formular más claramente sus necesidades e intereses. No se trata de interpretar, dar sentido, hacer por quien sufre, o cosas del género, sino de asegurar un soporte para que el sufridor pueda ampliar un protagonismo del cual él nunca desistió, sino que no ejerce solo, razón por la cual nos incluyó. 
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  10
el sufrimiento es específicamente la vivencia de la imposibilidad de la identificación con determinada personalidad. Esto significa decir que, como consecuencia de una privación natural o de un conflicto político o ético, nuestra función acto no consigue encontrar datos de realidad (a los que también llamamos otro social), por medio de los cuales pueda, por un lado, abrir una dimensión de deseo a partir de las posibilidades ofrecidas por tales datos y, por otro, alienarse en estas posibilidades, de tal manera de alcanzar una imagen unificada de la propia experiencia de contacto, imagen ésta a la que denominamos nuestra personalidad. 
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  11
Política, por lo tanto, tiene relación –según la terminología que empleamos inspirados en el self– con la tentativa (siempre inminente y nunca realizada de hecho) de dominar al interlocutor, nuestras representaciones sociales, hábitos y afecciones espontáneamente surgidos, en un todo presuntivo al que llamamos deseo. 
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  12
Rorty, “los valores tenidos como necesarios y atemporales, por los universalistas, no son nada más que los valores del humanitarismo democrático moderno metafísicamente transferidos hacia el dominio de las entidades trascendentales”
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  13
Se trata de la gratuidad, entendida, al mismo tiempo, como modo de donación al otro y forma cínica de enfrentamiento a la excepción soberana.
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  14
hay que comprender que la felicidad de uno no puede comprometer la justicia debida a todos. 
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  15
En las situaciones de conflicto político, el sufrimiento no es la representación que perdemos en favor del banco, del usurero, del especulador. Tampoco es el trabajo futuro, que ahora pertenece a la deuda… El sufrimiento corresponde a la sensación de falta de alternativa, como si fuésemos atacados por un vacío, por una incapacidad de reaccionar, pues todo lo que antes nos inspiraba ahora pertenece a lo otro, especialmente nuestra expectativa.
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  16
la acogida a la alteridad que se muestra en la vida desnuda destapada por la excepción soberana tal vez establezca un tipo de ligazón insondable por parte de la justicia política, la ligazón en que no reclamamos adhesión a ningún significante político de nuestro deseo, en que no operamos con ningún deseo (político), solo con la gratuidad de la experiencia de contacto (sin awareness).
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  17
El sufrimiento –y correlativo afecto de aflicción– siempre está asociado a la vivencia de una pérdida, conflicto o exclusión. Pero el sufrimiento no es la representación perdida, en conflicto o en función de la cual fuimos excluidos. Sufrimiento es el saldo de la pérdida, del conflicto y de la exclusión, precisamente, la ausencia de una imagen social por la cual nos sentiríamos incluidos, aceptados, funcionales y respetados.
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  18
¿es posible constituir un dominio o región de relaciones intersubjetivas (de contacto) en que, más allá de la política (especialmente de la política descrita en los términos de Agamben), nosotros podríamos ocuparnos del sufrimiento, ahora ético, de aquellos que convalecen en las prisiones, en las instituciones manicomiales, en los campamentos de inmigrantes y fugitivos políticos, en los campos de explotación sexual a que muchas mujeres o niños están sometidos, en los bolsones de pobreza desparramados por el mundo alrededor de los grandes centros económicos?  
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  19
El cínico a que nos referimos es aquel que, en razón de la inconsistencia, o de la crueldad del Otro Social, tiene el coraje de suspender, aunque sea por un instante, su propia fantasía (política) o su condición social (antropológica), para así donar al otro la acogida (ética) que, por cuenta propia, este jamás lograría. El cínico es aquel que tiene el coraje de operar con el otro fuera de los valores, pensamientos e instituciones que le valdrían identidad, fuera de la curiosidad deseadora que le valdría poder, para así acoger lo inusitado, lo arriesgado, como si, de este modo, esta alteridad pudiese de ahí en adelante, sino autorizarse a desear, al menos participar de una identificación social compartida, que le valiese cierto placer. O, aun, el cínico es aquel que sabe autorizar en sí y en el otro, de manera gratuita, la praxis de la parresia, que es la práctica del “decir verdadero”⁸.
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  20
¿Cómo podemos percibir, más allá de nuestra subjetividad, a aquel que no se deriva de nuestros actos o de nuestras prerrogativas?
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  21
es exactamente en este punto, en este punto de indeterminación y ambigüedad, que define la porosidad de nuestra corporeidad donde, creemos pueda encontrarse el meollo de una posición cínica⁵.
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  22
Bataille (1987, p. 90), afirma que si “el crecimiento sucede en provecho de un ser o de un todo que nos sobrepasa, ya no se trata de un crecimiento, sino de una donación”. Aun según Bataille, “para aquel que la hace, la donación es la pérdida de su ser”. Sin embargo, “aquel que da se reencuentra en aquello que da, pero primeramente él debe dar; primeramente, de forma más o menos total, es necesario que él renuncie a aquello que, para la unidad que lo recibe, significa crecimiento”
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  23
para quien dona, el crecimiento ajeno es algo importante. Sin embargo, incluso así, el crecimiento que importa es el ajeno, es el crecimiento de aquello que no se es, de aquellos con quien jamás coincidiremos, aunque en él nos podamos reconocer a posteriori. Desde el punto de vista de quien dona, lo que realmente importa tiene relación con el perderse, con el perder su ser.
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  24
Imposibilitados de deliberar sobre el propio cuerpo, quedan totalmente privados de la principal representación con la cual podrían desear libertad, reacción, inclusión etc. Ya no podemos decir que haya ahí sujetos sujetados al deseo del Otro dominador. Hay tan solamente cuerpos desnudos, desprovistos de la condición de sujetos de actos, en cuanto reducidos a objetos de uso por las múltiples formas de terror. El sufrimiento aquí ya no es político: imposibilidad de disponer de identidades en razón del deseo del otro dominador. El sufrimiento ahora es ético: violación de la intimidad de los hábitos y de los afectos en provecho de los deseos del otro dominador.
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  25
La escucha no demandante puede representar el apoyo que necesitan para volver a disfrutar de una identidad sin la cual no se sentirán habilitados siquiera a desear. 
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  26
aunque el cínico no rompa con la ciudad, con su organización social, busca autorizar, en  sí y en el semejante, la libre manifestación de aquello que no necesariamente está de acuerdo con las leyes de la ciudad, como si, no obstante admitir que todos deben poder trabajar por el bien de la ciudad, en algún momento, es preciso autorizar el carnaval, la fiesta, el chiste y el luto.
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  27
Las intenciones de lo otro me ponen en contacto con las mías propias, posibilitando que yo descubra en mí un saber de mí, un cogito más antiguo que mis representaciones intelectuales, pero disponible apenas en la mediación de los comportamientos de mis semejantes y de nuestro mundo común.
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  28
Lo que finalmente hace de mí un yo, pero un yo que solo se sabe en la medida en que es precedido por otros yoes partícipes del mismo mundo. Soy un yo, aunque solo pueda apropiarme de eso en la mediación del mundo y de los otros, de tal manera que jamás consiga ser trasparente para mí. Por eso, soy un ego, pero no un ego cogito. Soy un cogito, mas solo tácito. Ese modo de proponer mi subjetividad y la percepción del otro, todavía, trae en su centro una mala ambigüedad: vivimos en un mundo colectivo, disponible para todos, pero cuyo acceso solo puede darse de modo fraccionado, con base en una subjetividad individual. 
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  29
Las acciones de mi semejante no me conducen al solipsismo de mis intenciones hasta entonces ignoradas y a partir de las cuales, de ahí en adelante, voy a representar la presencia de un doble. Estas acciones, esta vez, me conducen al propio otro, a este lo otro que habita mis propios comportamientos y, para mí, no es más que una extrañeza íntima, tal como aquella que experimento frente al mirar que me ojea de lejos y que me hace sentir pasivo. Es como si, partiendo de mi semejante, lo otro retornase a mí, donde siempre existió, no como un cogito, sino como un acontecimiento sorprendente.
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  30
no debemos entender “lo otro” como una consciencia, sino como el “habitante de un cuerpo, y a través de él, del mundo”. Y Merleau-Ponty se pregunta: “¿Dónde está lo otro en ese cuerpo que yo veo?”¹¹. A lo que, a continuación responde:
Es (como el sentido de la frase) inmanente a ese cuerpo (no se lo puede desprender para colocarlo aparte) y sin embargo, más que la suma de signos o de significaciones vehiculadas por ella. Es aquello de lo que ellos son siempre imagen parcial y no exhaustiva – y que sin embargo se comprueba completamente en cada uno de ellos. Siempre en curso de encarnación inacabada.  
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
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lasvocesdelosotros · 1 year
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agosto 2021
01
Cada minuto se abre y cae, maduro, pudriéndose. Cada minuto: recogí manzanas. En otro tiempo, estación diversa, eso hicimos. Algunas se habían caído sobre la tierra y nadie quería tocarlas. Obedecían las leyes sordas de la gravitación universal. Creo distinguir todavía su sombra breve sobre el pasto. Recogí alguna, por pena, la llevé conmigo. No recuerdo qué hice con ella. En la boca, bajo el paladar, ese sabor apagado. A veces pienso que el tiempo pasa, para nosotros, porque somos capaces de olvidar. Intento consolarme con esa idea pero persiste una duda: la sospecha de que el pecado no fue tomar la fruta sino olvidar qué se hizo con ella.
 Elisa Diaz Castelo
  02
Dice Eliseo Diego:
La eternidad por fin comienza un lunes
y el día siguiente apenas tiene nombre
y el otro es el oscuro, al abolido.
Y en él se apagan todos los murmullos
y aquel rostro que amábamos se esfuma
y en vano es ya la espera, nadie viene.
La eternidad ignora las costumbres,
le da lo mismo rojo que azul tierno,
se inclina al gris, al humo, a la ceniza.
Nombre y fecha tú grabas en un mármol,
los roza displicente con el hombro,
ni un montoncillo de amargura deja.
Y sin embargo, ves, me aferro al lunes
y al día siguiente doy el nombre tuyo
y con la punta del cigarro escribo
en plena oscuridad: aquí he vivido.
 [en Luis Felipe Pérez]
  03
La Noche de mi muerte
Para mis amigos
Dolor no, sería pecar de exceso.
Mejor vino, tequila y dulce charla.
Que me revivan. Que la gente evoque
mi amor por Wolfgang Amadeus, mis yerros.
Mi pasión por el cuerpo femenino
—y por alguno que otro masculino.
Que los deudos no hablen de inundaciones
o del alza frecuente de los precios.
Pero que rían mucho a costa mía.
No quiero nada más por esa noche.
Sólo faldas abiertas hasta el muslo.
Es todo. Lágrimas o carcajadas,
da igual. Pero que haya un cuarto vacío
para que los amantes se entretengan.
 Eusebio Ruvalcaba* [en Jorge Arturo Borja]
  04
Mi papá decía que si el mundo era una estación de trenes y la gente los pasajeros, los poetas no son los que van y vienen, si no los que se quedan en la estación viendo los trenes partir. Por eso lloraba mi papá cada vez que escuchaba tu voz rota, porque tú eres de los que ven los trenes partir.
 (Güeros,  Alonso Ruizpalacios, 2014) [en Arturo Loera]
  05
"Mi casa se estaba quemando y sólo podía salvar una cosa.
Decidí salvar el fuego.
No tengo dónde vivir pero tengo el fuego en mí.
Y me defiende discretamente de todo lo impuro.
Mi futuro ya no es importante
Sólo cuenta la intensidad del instante"
 *Jean Cocteau [en Cynthia Franco]
  06
"La danza es, sin duda, un sistema de actos; pero que tienen su fin en sí mismos. No va a ninguna parte. Si persigue un objeto, no es más que un objeto ideal, un estado, un encantamiento, un fantasma de flor, un extremo de vida, una sonrisa, que se forma finalmente en el rostro de quien la solicitaba al espacio vacío".
 Paul Valery [en Manolo Mugica]
  07
"La literatura es la defensa contra las ofensas de la vida. Dedicarse a escribir es en el fondo una reacción instintiva, de resistencia"
 Pavese [en Luis Felipe Pérez]
  08
Yo no soy yo.
Soy este
que va a mi lado sin yo verlo;
que, a veces, voy a ver,
y que, a veces, olvido.
El que calla, sereno, cuando hablo,
el que perdona, dulce, cuando odio,
el que pasea por donde no estoy,
el que quedará en pie cuando yo muera.
 JRJ [en Dalí Corona]
  09
"No me gusta mucho la primera escritura, sino las correcciones. Hay retos que son bien bonitos, esos de corregir y demorarte cada vez más escribiendo un poema. Para mí no hay una última versión. Los poemas se entregan a la imprenta por cansancio".
 José Watanabe [en Patricia Arredondo]
  10
“... el pudor de no darse por entero, de plegarse como las plantas sensitivas cuando
 se les toca”.
 Carlos Merida [en Jessica Canales]
  11
Así una:
Lo más difícil de reconciliarse con uno mismo
es asumir que uno está en guerra
es
dividir la trinchera que es el cuerpo
en vencedores y vencidas
y dejar que las perdedoras, adentro,
escriban la historia
que una, uno
borró de si mismo.
Lo más difícil de reconciliarse con una misma
es mirar a los puños propios,
reconocer en ellos
la anatomía exacta
que encaja
con la herida.
Ver al enemigo, dentro,
no como a un otro
que expulsar,
sino como a uno mismo,
una parte de tanto
que somos acá dentro
y aprender que curarse a veces
no consiste, tan sólo, en curar la herida.
A veces es, también, curar al puño.
La rabia del puño, el dolor del puño,
el arrepentimiento,
la culpa
e, incluso,
el rencor
del puño.
Lo más difícil de reconciliarse con uno mismo
es mirarse al espejo,
decir con total convencimiento
"fui yo"
y saber abrazarse
después
de confesar.
 -Cenix Callejo [en Cynthia Franco]
  12
“Yo te entregué mi sangre, mis sonidos,
mis manos, mi cabeza,
y lo que es más, mi soledad, la gran señora,
como un día de mayo dulcísimo de otoño,
y lo que es más aún, todo mi olvido
para que lo deshagas y dures en la noche,
en la tormenta, en la desgracia,
y más aún, te di mi muerte,
veré subir tu rostro entre el oleaje de las sombras,
y aún no puedo abarcarte, sigues creciendo
como un fuego,
y me destruyes, me construyes,
eres oscura como la luz.”
 “Lo que pasa”, poema de Juan Gelman [en Víctor Manuel Torres]
  13
“Cada vez que se encuentre usted del lado de la mayoría, es tiempo de hacer una pausa y reflexionar”.
 Mark Twain [en Jessica Canales]
  14
"No hemos nacido solamente para nosotros".
 [en Manolo Mugica]
  15
Cada quien ha tenido en la punta de la lengua una metáfora del otro; cada cual ha sido nombrado por medio de una metáfora por los otros. El uso del apodo, el apelativo o el sobrenombre es de una naturalidad cotidiana, pero surge, sin embargo, de un acto creativo e intencional, al menos dado de una comunicación más allá de la fáctica, viene de mirar al otro y de ser mirado.
 Luis Felipe Pérez
  16
“Matamos lo que amamos. Lo demás
 no ha estado vivo nunca”.
 Rosario Castellanos
  17
Pulpo
  El pulpo, con sus tres corazones,
ama con desmedida muda
y sus ventosas son infortunio,
son besos que la muerte llevan.
  Ama con tal entrega, tanto,
que es incapaz de ver todo aquello
que en su abrazo amoroso destruye:
lo sabe hasta probar lo inerte,
  cuando harto de estar dándolo todo
no recibe respuesta de nadie;
entonces aborrece y odia:
 él asfixia y se siente herido,
él asesina, lo echa a perder
y pese a ello reclama, clama.
 Manolo Mugica
  18
 Del perro
 Desde el horizonte el can,
pasado de pulgas,
besado de sarna,
me revienta los oídos;
padece de indigestión:
no digiere el hambre
ni la soledumbre
ni mastica bien el mundo.
  Como a recién nacido me resuena
en el poema su ladrar, su canto
moribundo de mendigo, de lúgubre poca cosa;
y yo, apenas, logro
darle algún reposo
mientras se me apaga, mientras agoniza.
Cesa su respiración:                                      todo es correr tras el viento.
 Manolo Mugica
  19
 Un poema que se apoye de los otros. Un poema que grite en el camino, que se detenga, que abrace. Un poema al que se le vean los dientes, un poema vencido, lento. Un poema como un anillo dorado en el hombro de un amigo. Un poema que se canse. Un poema exhausto. Un poema que llegue a la meta último, completo.  
 Arturo Loera
  20
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove 'l sol tace
 Dante
  21
«A te convien tenere altro vïaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo' campar d'esto loco selvaggio;
 ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;
 e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha più fame che pria.
 Dante
  22
Unos a voces y otros suavemente
hablan, según su impulso, en esta zona,
y es su voz más tranquila o más vehemente;
 mas del bien que de día se razona
no hablaba yo tan sólo, aunque a mi lado
no elevase la voz otra persona.»
 Dante
  23
Limítrofe = con finante. Esta pista y la epónima del disco la sitúan en el trono de oro esculpido de las siguientes décadas. Limítrofe = aledaño. Alejandra Guzmán revienta un estadio de fans que por primera vez en vivo en la historia de la historia de este alambre de púas que es la patria. Con finante = que con fina = que destierra a alguien, señalándole una residencia obligatoria. “Ten cuidado con el corazón”, lanzallamas musicales. Con finar = lindar = estar contiguo. Eternamente bella, publicado ese mismo año. Y Madonna, espiga de tantalio, dándole la vuelta al mundo. Y Alejandra como un aguijón de piedras a todo lo ancho de la estepa sudamericana. Dicho de una tierra: que linda con un pueblo o campo o Mundo Material en que vivimos y accesorio de rubíes
 José Luis Rico
  24
¿Cuál es la meta o el objetivo de una intervención psicológica? Al final, ¿no serían las prácticas psicológicas formas de readaptar a los sujetos a las metas económicas, sociales y políticas de las ideologías dominantes? Por consiguiente, ¿en qué las intervenciones psicológicas se diferenciarían de los programas de incentivo a la producción y al consumo, difundidos por los medios de comunicación virtual? 
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  25
la función personalidad designa mi participación en un social, en un social disponible y heredado, junto al cual me experimento como identidad. Podríamos decir que la función personalidad es la manera como adquiero identidad, valor y responsabilidad a partir del otro. Se trata, en verdad, de la manera como el otro me ve y me constituye como su prójimo, socio, compañero, en fin, humano.
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  26
El sujeto dominado, abducido por la promesa de que la participación en la sociedad de consumo le asegurará una identidad aún más placentera que aquella que él ya tiene, renuncia de sus representaciones (étnicas, geográficas, como su tierra, su casa) para entonces buscar lo que ahora ya no es una representación, sino el deseo del otro dominador, o sea, el poder de compra, de consumo, en fin, la felicidad. Asume un lugar en la “cadena productiva de deseo en el otro”, que se configura en el lugar del empleado, del asalariado, que ya no es dueño de su propia tierra, ni siquiera de su tiempo.
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  27
las prácticas psicológicas deberían alinearse a los saberes inter y multidisciplinarios, contribuyendo a la producción de proyectos terapéuticos singulares, que envolviesen no solo al sujeto del sufrimiento, sino a su comunidad, de tal manera de favorecer el protagonismo de los sujetos tratados.
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  28
El sujeto dominado queda totalmente preso al proyecto del otro dominador, desprovisto de representaciones que le sean propias (pues todas están hipotecadas al otro), inclusive de deseos propios (pues necesita pagar las deudas o, lo que es la misma cosa, debe trabajar por el deseo del otro). Y es ahí que surge un sufrimiento político, resultante de esa expropiación de las representaciones y deseos a favor del otro dominador.
[...]
Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  29
[...]
Encontramos tal sufrimiento en casi todos los lugares en que haya trabajo asalariado, sumisión a la lógica del consumo, o deuda y cobranza abusiva de intereses. Al final, en tales lugares, las personas no son más las titulares de las representaciones con las cuales operan. Estas pertenecen al otro dominador. Con excepción del salario, que incluso siendo excepción, no se puede encontrar alguien que se reconozca valorizado por medio de él. 
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
  30
la función personalidad es “el sistema de actitudes asumido en las relaciones interpersonales, es la asunción de lo que uno es y lo que sirve de base a partir de la cual se podría explicar el propio comportamiento si se nos pidiera una explicación así”. 
 Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
 31
el sentimiento de aflicción, consecuencia del hecho de no encontrar un lugar ético en el que podamos establecer relaciones políticas y antropológicas.     
      Müller-Granzotto (Rosane y Marcos)
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lasvocesdelosotros · 1 year
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julio 2021
01
Hablamos de solidaridad pero nos tememos unos a otros como a la peste. Ahora cualquier persona es la amenaza: todas las personas. La belleza del truco consiste en que cada cual es temible aunque no quiera. No es necesario ser un terrorista para sembrar el terror: alcanza con ser un ser humano
Caparrós
  02
Deshacernos del miedo y sus efectos y aprender a vivir con la duda.
Caparrós
  03
¿Qué hago con el cuerpo que me dieron?
Este cuerpo tan único, tan mío.
 ¿A quién le doy las gracias por la dicha
tranquila de vivir y respirar?
 Yo soy el jardinero, soy la flor,
en la celda del mundo no estoy solo.
 Se tendió en el cristal de lo perenne
el hálito del cuerpo, mi calor,
 en el cristal se estampa una voluta
que no se reconoce al poco tiempo.
 ¡Que se resbale el poso del instante!
 ¡Que la amable voluta no lo raye! 
Ossip Mandelstam [traducción de Rodrigo García Bonillas]
  04
Los grandes momentos de la historia solían consistir en que el mundo se movilizaba para matar personas; este consiste en que el mundo se detiene para salvar personas. Aparece, entonces, la idea de que detener puede ser un arma tan fuerte como movilizar. Sobre todo si se trata de salvar. Todo consistirá, quizás, en moverse para detener ciertas movidas, ciertos movimientos: la acumulación y el despilfarro. Detenerse es moverse.
 Y dudar en lugar de creer: repensar en vez de repetir. No temer a la duda sino a la certeza. O seguiremos insistiendo en el mismo fracaso, y fracasar no habrá servido para nada.
Caparrós
  05
Walter Benjamin—Dirección única—: «Cada piedra que encuentra, cada flor arrancada y cada mariposa capturada son ya, para él, el inicio de una colección. Aún no ha entrado del todo en la vida y ya es un cazador: atrapa los espíritus cuyo rastro husmea en las cosas».
 06
La felicidad infantil proviene de esa aglomeración azarosa, solitaria y placentera, parecida a laque experimentará más tarde el poeta moderno, encarnado para siempre en Baudelaire, cuando proyecte sobre las cosas su mirada alegórica, transportando sus objets trouvés al desorden de la poesía. Los cajones donde el niño guarda sus tesoros son arsenales y zoológicos. Los del poeta serán reservas de imágenes y retazos de lenguaje. En ambos casos se trata de un objetivo muy simple y muy complejo: habitar un «tiempo perdido». 
María Negroni
  07
Como los niños, los poetas intuyen el vínculo exacto entre curiosidad y memoria, melancolía y resistencia, aventura y tolerancia. [...] La poesía es la continuación de la infancia por otros medios.
María Negroni
  08
Segovia describe the experience of translating as walking across a bridge and then watching it catch on fire behind you. 
Robin Myers
  09
Para Loftus, la palabra ‘mentir’ resulta engañosa: los testigos, después de todo, no mienten; por el contrario, creen en la verdad de lo que declaran. “Eso es lo aterrador —concluye—: la idea ciertamente espeluznante de que nuestros recuerdos pueden cambiar y alterarse sin remedio y que lo que nos parece saber, lo que creemos de todo corazón, no es necesariamente cierto.”.
César Tejeda
  10
“Lo único malo que podría tener la muerte es no haber vivido lo suficiente como para disfrutar el hecho de morir”. John Leland infirió que “la buena vida” de Sorensen se debía a que había creado, con sus recuerdos, la historia de una buena vida en el pasado. O —lo que resultaba todavía más astuto— que había aprendido a usar la pérdida de la memoria a su favor, a contar su historia de tal forma que lo bueno prevaleciera sobre lo malo.
César Tejeda
  11
Ruth Willig, una mujer de 91 años que había tenido que dejar una residencia asistida por otra de peor categoría, que solía llevar al periodista a los mismos recuerdos del pasado, una y otra vez, como si su vida constituyera “un pequeño joyero de un brillo exquisito”
César Tejeda
  12
“Los recuerdos no sólo se borran, simplemente, como nos induce a pensar esa forma tradicional de decirlo, sino que también crecen. Lo que se pierde es la percepción inicial, lo que se vivió en realidad, pero, cada vez que recordamos un acontecimiento, tenemos que reconstruir su recuerdo y, con cada reconstrucción, éste puede cambiar.”.
Loftus [en Tejeda]
  13
El primer resentimiento que la ayudó a sanar fue hacia sus padres, mis abuelos, quienes —culpables del alcoholismo de mi madre o no— siguieron bebiendo con dipsomanía hasta el último día de sus vidas. Pero, lejos de buscar que mi madre se convirtiera en una jueza implacable, Julio debió modelar sus preguntas con cuidado, llevando a mi madre hacia el camino del perdón y la responsabilidad. La historia que ella iba a contarse a partir de ese momento debía ser distinta por una sencilla razón: la historia que se había contado hasta entonces era dolorosa y destructiva. Mi madre aprendió de su primer padrino —y yo también por añadidura— uno de los conocimientos que más tratamos de poner en práctica, aunque con motivos distintos: que podemos transformar nuestro pasado en un presente significativo.
César Tejeda
  14
Walter Benjamin —“Cuanta más cautela pongas a la hora de anotar una ocurrencia, más madura y permanente se te entregará”— 
[en Margo Glantz]
  15
La posibilidad de disponer del propio cuerpo es básica para la libertad individual, y en las mujeres siempre está en entredicho.
Margo Glantz
  16
Traduje Historia del ojo, de Georges Bataille, y un amigo, que resultó no serlo, la describió como “una traducción piernabierta”. No hubieran dicho eso del trabajo de un hombre. El protagonista de la novela es una niña que se rebela abriendo las piernas porque el padre quiere que las mantenga cerradas como una señorita. Hoy las modelos posan despatarradas. Antes era indecente: las piernas solo se abrían para hacer el amor o dar a luz.
Margo Glantz
  17
tuve una relación clandestina, con un hombre casado, que para mí fue muy importante porque me hizo sentir que mi cuerpo, que me disgustaba, era un cuerpo entero.
Margo Glantz
  18
¿Bailamos como somos? Soy demasiado consciente de mí misma. Me cuesta relajarme. Ha sido una batalla constante.
Margo Glantz
  19
Uno hace ficción incluso con material verdadero.
Margo Glantz
  20
Me genera compasión ver que la gente necesita las redes sociales para confesarse. Antes lo hacían con el cura o el psicoanalista. En las redes, los problemas se quedan en la nada: las respuestas son efímeras. 
Margo Glantz
  21
El conflicto en México está vivo, las desapariciones siguen ocurriendo, la guerra aún no se ha terminado y la lucha tiene dos vertientes: encontrar con vida a las personas desaparecidas y ponerle fin a la violencia.
Lucia Pi Cholula
  22
El nuestro se ha convertido en el país de las desapariciones, las fosas clandestinas, la impunidad. Sin importar quién se encuentre en el poder, luego de tres gobiernos, la guerra continúa.
Lucia Pi Cholula
  23
No fue hasta el 2011, cuando la caravana del Movimiento por la Paz con Justicia y Dignidad llegó a Michoacán, que María Herrera encontró el apoyo y la solidaridad que necesitaba. Este movimiento surgió cuando torturaron y asesinaron al joven Juan Francisco Sicilia Ortega, de 24 años, junto con otras seis personas en Temixco, Morelos; después del crimen, su padre, Javier Sicilia, decidió abandonar la poesía y se convirtió en el líder de un movimiento en el que se aglomeraron los reclamos de cientos de personas que buscaban paz y justicia y que se sumaron a él en su recorrido por el país.
Lucia Pi Cholula
  24
“¿Dónde están?, ¿dónde están mis hijos?” es el primer grito que lanzó en Morelia y que le dio la vuelta al país. Después, lo cambió al plural: “¿Dónde están nuestros hijos?”, porque una persona desaparecida, reitera, nos falta a todos.
—Soy María Herrera Magdaleno y he perdido cuatro hijos en esta guerra que ustedes iniciaron en nuestro nombre, pero que nosotros no aceptamos —dijo en el Castillo de Chapultepec en 2011, cuando encaró a los del poder.
Lucia Pi Cholula
  25
Llevábamos 300 pañuelos y regresamos con cero: los perdimos todos en medio del caos.
 Algunos tenían bordados en rojo los nombres de las víctimas del atentado del 25 de agosto de 2011 en el Casino Royale de Monterrey, donde murieron 52 personas; además de los pañuelos bordados con hilo verde que también se perdieron en la trifulca. Pero para ese momento ya habían formado una comunidad amorosa y solidaria y los pañuelos pronto fueron recuperados uno a uno.
 —Personas de otros colectivos los rescataron. Los 300 pañuelos volvieron con nosotras.
Lucia Pi Cholula
  26
el gobierno no considera la búsqueda de personas desaparecidas una actividad esencial durante la emergencia sanitaria. Esa pausa en los procesos de búsqueda, de por sí incompletos y deficientes, es una tortura.
Lucia Pi Cholula
  27
CONSEJOS PARA UNA BUENA TRADUCCIÓN
1.   ¡Respeto ante el autor!
2.   Desconfianza ante el autor: Si es posible, comprobar todos los datos, indicaciones, ortografía y estilo.
3.   Traducir lo más textual posible –con la mayor libertad necesaria. (¡Lema vetusto que sigue vigente!)
4.   No perder de vista la economía del idioma. La traducción no debe extenderse más del diez por ciento del original. Contar líneas y pulsaciones por minuto. Hoy ya se ha hecho automático.
5.   Paciencia.
6.   Primero comprender el texto, luego comprender el contenido. No a la inversa.
7.   Paciencia.
8.   Consultar todas las palabras, en especial aquellas que creemos conocer mejor.
9.   Paciencia.
10. Los diccionarios no son libros sagrados: No incluyen todo, ni siquiera en internet. Las librerías de viejo, también las actuales, los niños, los catálogos de arte, la policía, los conventos, las ferias y mercados, los bares, etcétera, son minas de lenguaje.
11. Paciencia.
12. Las ocurrencias no son casuales –casi siempre les precede una búsqueda larga y pertinaz, con frecuencia inconsciente.
13. Tomar decisiones, sostenerlas y ser capaz de defenderlas (por ejemplo ante o contra editores).
14. Paciencia.
15. Tras la primera corrección, no pasar en limpio de inmediato –¡dejarla reposar!
16. De vez en cuando leer también algo sobre teoría de la traducción (no científica).
17. Paciencia.
18. Integrarse a una asociación de traductores.
***
 MARÍA BAMBERG
(Alemania-Argentina, 1915-2016)
[30 de septiembre, Día Internacional de la Traducción]
  28
No, no sé cómo contar la historia de cada una de las personas desaparecidas, pero me rehúso a volverlas una lista. Habría que hacerlo: contar las historias de todas, escuchar a las madres, hermanas, hijas, porque su lucha es un recorrido que ha abierto el camino a otras y de ahí la importancia de pensar en el fenómeno como una lucha colectiva. Es una realidad que a este conflicto no se le ve fin en el horizonte próximo. Habrá que seguir nombrando, buscando, exigiendo la presentación con vida de una persona que no volvió a casa.
Lucia Pi Cholula
  29
Ese niño ardiendo (Viet Nam)
Ese niño que lentísimo corre ardiendo
en busca de la gota de la vida que le niegan,
la bocanada de aire que lo inflama, el pecho
imposible de su madre, y que tropieza y cae,
y que ya muerto sigue ardiendo, arrastrándose inmóvil,
no hay palabras, las palabras tendría que ser carne,
huesos, ojos,
y arder y arrastrarse por la tierra,
tendríamos que arder con las palabras quemdas como él
y aún así no sabríamos qué decirle
Cintio Vitier
  30
Nunca he podido decirle tiempo al clima. Ya sé que tiempo es el término adecuado para hablar de la temperatura, la luz diurna, si va o no a llover o si hará frío, pero tengo tan poco que no quiero malgastarlo usándolo para lo que realmente es.
Elisa Diaz Castelo
 31
El año es un tren de cobre y humo. A veces es otoño junto al río, los huesos de mis pies hablan entre ellos, zumban en monosílabos. Increpan a las pequeñas piedras redondeadas por el agua. Quieren cambiar de giro, deben cambiar su vida. Por Zoom una amiga entrecortada me pregunta: ¿cómo está el tiempo allá? Miro las líneas de mi mano, mi huella torpe de carbono. No sé cuánto queda, respondo.
Elisa Diaz Castelo
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lasvocesdelosotros · 3 years
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junio 2021
01
«Hay errores de traducción que enriquecen momentáneamente una obra mala. Es casi imposible encontrar los que puedan empobrecer una de genio: ni el más torpe traductor logrará estropear del todo una página de Cervantes, de Dante o de Montaigne. Por otra parte, si determinado texto es incapaz de resistir erratas o errores de traducción, ese texto no vale gran cosa. Los ripios con que el argentino Bartolomé Mitre se ayudó no enriquecen a La divina comedia, pero tampoco la echan a perder. No se puede».
Monterroso
 02
«La traducción de títulos es cosa aparte. Los cambios que algunos experimentan al pasar de una lengua a otra generalmente no son errores del traductor. […] Digan lo que digan sus críticos es difícil que los editores se equivoquen. Si un título contemporáneo cambia totalmente, lo normal es que haya habido un acuerdo entre autor y editor. El gusto de verse traducido hace que al primero le importe muy poco cómo se llame su libro en otro idioma».
Monterroso
 03
«No cabe duda: el mejor amigo del traductor es el diccionario, siempre que éste no se halle en manos del lector».
Monterroso
 04
Yo creo en pocas cosas. O, mejor dicho, en dos: en la duda y en el humor. Y creo que el humor es la mejor forma de sembrar la duda. Ese tipo de humor: no el que te confirma, sino el que no te deja estar seguro, el que no terminas de saber si sí o si no
Martín Caparrós
 05
No me interesan los objetos. Y eso me da mucho gusto: porque me parece que vivimos en un mundo sobrecargado de objetos innecesarios.
Martín Caparrós
 06
Tuve la posibilidad, tuve su número de teléfono durante meses sobre mi escritorio y me pareció mejor no conocerlo, seguirlo pensando como un fantasma extraordinario mejor que como un viejo más o menos baboso.
Martín Caparrós
 07
Try again. Fail again. Fail better
Samuel Beckett [en Caparrós, en sus libros, en una entrevista, porque lo persigue]
 08
A Caparrós le obsesiona el tiempo. Suele decir de sí mismo que es una persona impaciente. Su agenda del día es intensa. Dictará una conferencia por Zoom en la mañana, será invitado de honor en un festival de literatura, recibirá homenajes y un largo etcétera de compromisos. Mañana estará en otra parte y pasado quién sabe.  Echar un vistazo a ese potente itinerario puede agotar a cualquiera. Pero él acepta con gusto la entrevista. Y, en medio de ese torbellino, siempre encuentra tiempo para escribir. 
Eduardo Ponte (entrevista a Caparrós)
 09
—Usted ha confesado ser neurótico del tiempo. ¿Cómo hace para no desperdiciarlo? 
 —Escribo. Eso me hace sentir que lo usé para algo. O lo desperdicio con toda intención, lo cual también me hace sentir que lo usé para algo. 
 Ponte / Caparrós
   10
“El tiempo, entonces, se estira suavemente o se contrae, pierde esa majestad de mármol que es su bien más monstruoso: se hace ligeramente falible”, escribió en uno de sus libros (Larga distancia)
Caparrós
 11
“El miedo se ha convertido en el factor ordenador de la sociedad global en la pandemia. Pero ¿cómo orientarnos ahora que el miedo está desnudo? Fracasamos. Nos creíamos tan poderosos y un virus nos deshizo. Estamos encerrados, muertos de miedo, vivos de miedo, sin más recursos que dejar de hacer lo que hacemos, de ser lo que somos —y esperar que la desgracia tampoco nos toque—”.
Caparrós
 12
hemos descubierto que las cosas que nos parecían indispensables eran totalmente superfluas. Tonterías de formas de vida que desaparecieron con la pandemia. Mucha gente me dice aquí en España ‘yo siempre estaba acostumbrado a hacer esto o tal cosa y ahora me doy cuenta de que no era tan indispensable’. Hay algo que fue decisivo en medio de la pandemia: el miedo. Actuamos por el miedo, por miedo nos quedamos en nuestras casas, por miedo aceptamos muchas cosas que en otras circunstancias no hubiésemos aceptado. Todo por el miedo a la enfermedad y a la muerte. El miedo se instaló muy explícitamente en la escena y seguimos con miedo. Mi gran pregunta es en qué medida seremos capaces de sacudirnos ese miedo o cuánto de ese miedo se quedará instalado en nuestras vidas. 
Caparrós
 13
Una aldea de Níger. Martín Caparrós pregunta a una mujer: “Si pudiera pedir lo que quisiera, cualquier cosa, a un mago capaz de dársela, qué le pediría”. “Quiero una vaca que me dé mucha leche, entonces, si vendo un poco de leche, puedo comprar las cosas para hacer buñuelos para venderlos…”. “Pero cualquier cosa, lo que le pidas”, insiste Caparrós. “¿Dos vacas? Con dos sí que nunca más voy a tener hambre”. Otra mujer responde así a la misma pregunta: “Comida todos los días. Eso le pediría”.
  14
Me frustra de algún modo, aunque tampoco me frustra del todo, porque yo no esperaba que eso cambiara cuando escribí mi libro El hambre. Sabía que no iba a cambiar nada. Los libros solos no pueden cambiar nada. No tengo la vanidad de pensar que puedo modificar nada. Pero me importa haber puesto por escrito todas estas cosas.
Caparrós
 15
—¿Cocina todos los días? ¿Sus textos también se cocinan a fuego lento?
 —Cocino todos los días, sí, como en general hacen las mujeres. Y me gusta mucho: me paso el tiempo trabajando con la nada, es muy agradable volver a la materia. Pero el fuego lento es una opción entre tantas. Hay cosas que se cocinan mucho mejor en un salteado rápido. Todo está en saber elegir
 Ponte/Caparrós
   16
Me parece que si acaso la función de un padre o un amigo y hasta de un escritor es despertar intereses y que cada cual después satisfaga esos intereses como mejor quiera y pueda.  La idea de maestro —en cambio— supone decirle acá al discípulo o al alumno lo que sea como satisfacer sus intereses y nada me parece menos interesante.  Por eso digo, alguien que provoque interés, no que lo colme, no que lo satisfaga. 
Caparrós
 17
La entrevista es una situación muy particular en la cual dos personas simulan por su propio beneficio: uno de ellos lo hace porque trabaja y le van a pagar por eso y el otro lo hace en general para vender algo; un libro, una película, una canción o a sí mismo. En ese beneficio mutuo los dos simulan tener una conversación en general bastante más intensa y más profunda que la mayoría de las conversaciones que uno tiene.  La entrevista es en ese momento realísimo en que uno le pregunta a alguien, que no conoce, cosas que no le preguntaría a su mejor amigo. Al saber que esto es así, evidentemente rompe cualquier posibilidad de autoengaño, pero me parece que hay momentos en que en una entrevista uno se deja ir y se establece una corriente más personal y empieza a hablar en serio un poco más allá que esa simulación de beneficio mutuo.
Caparrós
 18
entendí que era un fotógrafo mediocre, en el mejor sentido de la palabra: alguien que hace medianamente lo que hace. No lo hago tan mal pero tampoco particularmente bien: soy correcto, puedo hacerlo, puedo publicarlas y demás, pero no tengo un talento particular y eso me permite disfrutarlo más, porque es una actividad en la que no me juego la imagen que tengo de mí mismo
Caparrós
 19
¿Qué elementos debe tener un cronista cazador de historias?
 —No  tener paz y mirar, mirar mucho, mirar todo (un ejercicio del que ha hecho un hábito necesario y tan natural como dormir y comer). Querer encontrar cosas que contar en todo lo que uno ve. Eso es lo básico: pensar que todo es susceptible de ser narrado y ver entonces dónde hay esas cosas que valen la pena ser contadas.
 Ponte/Caparrós
   20
El periodismo objetivo no está ni bien ni mal, simplemente es imposible. Para contar tiene que haber un sujeto que cuente: narrar es un acto subjetivo. El problema es que nos han acostumbrado a confundir la objetividad con honestidad y subjetividad con engaño. 
Caparrós
 21
El buen periodismo es un género literario que consiste en contar algo que alguien no quiere que se sepa. 
Caparrós
 22
—¿Sus textos tienen una melodía, un ritmo?
 —Es lo único que tienen. O eso espero. Sin música, un texto no es más que una suma de pretensiones mal amontonadas.
 Ponte/Caparrós
23
—¿Qué hubiese sido de Caparrós si hubiese sido venezolano?  
 —Un milagro, porque habría nacido sin madre -que sí es argentina-. Que dos personas se encuentren y creen una tercera es una de las más altas expresiones del azar en un mundo regido por los azares. Uno se cree algo, y resulta que si aquel día a las 6:14 pm esa chica que después fue su madre hubiera mirado para el otro lado, no existiría. Es humillante, ¿no?—, suelta otra carcajada, primero ligeramente, después a quijada batiente hasta perder el equilibrio por tanta carcajada que se le acumula en el estómago. Es Caparrós en estado puro. 
 Ponte/Caparrós
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 el mejor trabajo de un editor consiste en hacer que cada autor encuentre su mejor forma propia
Caparrós
   25
Venezuela, entonces, la palabra Venezuela, la palabra venezolano, han cobrado en nuestros países una fuerza que nunca tuvieron. Nadie habla de ellos y de ella cuando habla de ellos y de ella; a la mayoría de los que la nombran les dan igual sus 32 millones de ciudadanos, sus cuatro o cinco millones de desterrados, sus búsquedas, sus penas. Venezuela, la palabra Venezuela, se ha vuelto un arma de la gran derecha, un lastre de las pocas izquierdas, una incomodidad constante, una palabra que dice lo que no debiera. Es extraño. Todo un país tendría que cambiar para que esa palabra, por fin, recupere el sentido. O, quién sabe, todo un continente.
Caparrós
 26
La idea de influencia me resulta extraña: no lo sé. Pero sé que escucho música siempre que puedo –lo cual incluye escribir, pero no corregir– y que ver fútbol me resulta cada vez más aburrido. Aunque, de tanto en tanto, cuando un partido me atrae, no cambiaría esos 90 estúpidos minutos por ninguna otra cosa –o casi.
Caparrós
27
Somos el miedo. No hay nada más antiguo, más natural que el miedo. Cualquier animal tiene miedo; por él dejamos de ser animales y buscamos las formas de evitarlo: acumular comida para combatir el miedo al hambre, domesticar el fuego para calmar el miedo a los ataques, inventar dioses para luchar contra el miedo a la muerte, y así de seguido.
Caparrós
 28
No hay nada que los Estados usen más para controlar a sus súbditos que el miedo. Y el miedo los justifica: explica que, entre otras cosas, les permitamos ejercer su violencia sobre nosotros por nuestro propio bien, porque ellos saben lo que necesitamos.
Caparrós
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El mecanismo es clásico: tenemos miedo de algo — siempre tenemos miedo de algo: de quedarnos sin comida, de que nos mate el enemigo, de envejecer, de los vecinos— y entonces el Estado nos protege y alguna religión nos protege. Para eso tenemos que creer: creer que hay un buen rey o presidente o líder que sabe lo que hace y nos guiará del otro lado del Mar Rojo, que hay un dios que nos quiere y nos cuida y es más fuerte que el dios de los del otro lado.
 Ahora nuestro miedo está desnudo: no sabemos en qué cuernos creer.
 Caparrós
 30
Hubo tiempos, decíamos, en que un hecho como este habría sido asunto de religiones y otras magias. Ahora está copado por la ciencia: medicalizado. Son ellos supuestamente los que saben, debemos escucharlos, hacerles caso, creer en ellos. Y, sin embargo, desde que empezó la enfermedad se dedican a contradecirse. Dijeron que los asintomáticos no contagiaban, después dijeron que sí contagiaban; dijeron que no había que usar mascarillas, después que sí; dijeron que los curados no se contagiarían, después que quién sabe; dijeron que sí, que no, que no, que sí. Empezamos siendo fieles seguidores de sus órdenes; poco a poco nos convertimos en testigos asustados —aterrados— de sus contradicciones: cómo creerles hoy si no se sabe lo que dirán mañana. [...]
Y aún así intentamos creer en la ciencia. Pero lo intentamos de forma equivocada: como si fuera una creencia. Querríamos una ciencia infalible como una religión. La ciencia es lo contrario de la religión: no está hecha para creer sino para dudar. Para creer que no se puede creer en nada, salvo en que creer es una tontería.
Es lo que nuestros clásicos llaman “método científico”: el ensayo y error, intentarlo, saber que uno puede equivocarse, intentarlo otra vez, equivocarse menos, saber que se puede seguir estando equivocado. En estos términos es difícil creer. Se puede, si acaso, confiar; creer es otra cosa.
 Caparrós
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