Tumgik
fabriziofalco · 4 years
Photo
Tumblr media
1 note · View note
fabriziofalco · 4 years
Photo
Tumblr media
0 notes
fabriziofalco · 4 years
Text
Considerazioni a margine del misantropo
E’ strano dover parlare di qualcosa che non è ancora andato in scena…Eppure lo abbiamo allestito e alla prova generale ci siamo inchinati davanti ad un teatro vuoto e spettrale…Si perché ad un certo punto gli spettacoli dal vivo sono stati sospesi e noi ci siamo trovati a provare tutto lo spettacolo, per poi interromperci e aspettare il debutto, rinviato a data da destinarsi.
Questo in realtà ci ha dato uno strano entusiasmo, abbiamo lavorato con maggiore intensità di prima, abbiamo sentito dentro di noi una sorta di resilienza che non ci ha fatto mai abbattere, ma ci ha dato la forza di andare avanti.
Tutto questo è stato possibile grazie ad un lungo lavoro di preparazione dello spettacolo, che ho svolto insieme a Davide Cirri (che interpreta Alceste), che ci ha fatto scegliere accuratamente i giusti compagni di lavoro. Si perché il misantropo è stato, e spero sarà, un grande lavoro di squadra.
Di sicuro, senza nulla togliere agli altri lavori che ho fatto, rappresenta una delle più straordinarie avventure umane della mia vita: ho avuto la possibilità di sperimentarmi nella totale libertà del giudizio mio e degli altri, di stare dentro questa storia meravigliosa che mi ha fatto crescere e mi ha dato nuove prospettive sulle cose, ma soprattutto ho sperimentato un nuovo modo di lavorare con gli attori.
Ho messo in discussione innanzi tutto il famoso lavoro a tavolino, sostituendolo con un lavoro più agito e vissuto nel corpo: troppo spesso si ha la tendenza a vedere come sacre delle cose che possono benissimo essere rimesse in discussione. Il lavoro a tavolino, in pratica, è stato sostituito con degli studi sulle scene, delle improvvisazioni con delle regole precise, ma che ci hanno permesso di entrare nel testo, da un punto di vista più sensibile che intellettuale. Ho cercato di portare gli attori a vivere davvero i rapporti tra i personaggi, così tanto da non dover neanche più pensarci e quindi non “fare”, ma “essere”. Come con il lavoro sulle relazioni, così ho cercato di fare per tutti quei meccanismi che per le persone sono inconsce, ma che a teatro assumono sempre un aspetto volontaristico: questo ha spostato la prospettiva, facendo in modo di deresponsabilizzare gli attori dal dover “fare” qualcosa. Non ho niente da fare, devo solo aver fiducia in tutto il lavoro che ho fatto e vivere nel qui e ora, nient’altro.
Ho notato che lo spettacolo ha preso una piega notevolmente emotiva: se studiando il testo pensavo che il tema centrale del testo fosse la verità, facendo le prove mi sono reso conto di un altro elemento centrale che è l’amore. Non è sicuramente un tema secondario del misantropo, al contrario lo metterei sullo stesso piano, l’amore. La verità e l’amore sono quindi i due temi principali del misantropo. Un'altra cosa particolarissima che ho notato in queste prove è stata una sorta di sintesi che sta avvenendo dentro di me, tra le esperienze precedenti ad Arizona e questa ricerca di verità su cui lavoro da qualche anno. Mentre tempo fa ho sentito la necessità di dovermi allontanare volutamente da certe esperienze che ho fatto in passato, in questo lavoro ho sentito una sorta di armonizzazione maggiore con le mie esperienze passate: in tante occasioni mi sono tornate in soccorso in modo utile, una sorta di più serena convivenza tra due anime molto diverse, in cui una è stata al servizio dell’altra.
Noi ce l’abbiamo messa tutta per risollecitare le parole di Molìere, non ci siamo lasciati abbattere, nella convinzione che qualcosa presto succederà…Aspettiamo, in questo limbo, il giorno del debutto. Aspettiamo, in questo vuoto, di tornare in scena. Ma il vuoto, serve a scavare per preparare dentro di noi un’accoglienza….Speriamo di poter presto accogliere gli altri con tutta la gioia, l’amore e la vita di cui siamo capaci.
0 notes
fabriziofalco · 4 years
Photo
Tumblr media
0 notes
fabriziofalco · 4 years
Text
Resistenza Culturale
“Gli eventi culturali hanno importanza massima per la nostra vita. Questo vale anche per questo periodo di pandemia da coronavirus. E forse è solo in questo momento che ci rendiamo conto di cosa ci manca. Perché nell’interazione degli artisti con il loro pubblico si aprono prospettive completamente nuove per guardare alla nostra vita. Ci confrontiamo con le emozioni, noi stessi sviluppiamo emozioni e nuovi pensieri, siamo pronti ad entrare in discussioni interessanti. Comprendiamo meglio il passato e possiamo anche guardare al futuro in modo completamente nuovo. [...] Che il nostro vasto e diversificato panorama culturale possa continuare ad esistere anche dopo che la pandemia sarà stata superata. Questa rimane una priorità assoluta per il governo tedesco.”
Queste parole fanno parte di un discorso tenuto dalla cancelliera Angela Merkel in video conferenza al popolo tedesco. Un discorso che traccia una chiara prospettiva culturale attraverso cui il governo tedesco ha deciso di orientarsi per guardare oltre la pandemia da coronavirus. Appare oltremodo lampante la sproporzione con i politici nostrani: il presidente del consiglio Conte ha deciso di utilizzare dei termini molto significativi per parlare degli artisti, cioè coloro che ci fanno divertire e appassionare. Non voglio qui entrare nella polemica sterile e ignorante che è arrivata persino a dire “suca” al nostro presidente del consiglio. Cercherò di articolare un ragionamento lievemente più complesso che cerchi di andare più a fondo.
E’ evidente che il tentativo di Conte di parlare degli artisti è stato fatto in buona fede, e che nel decreto sono state stanziate delle somme consistenti in favore della cultura. Il problema però è che sembra più una doverosa necessità per evitare problemi che una chiara scelta culturale e politica: la scelta dei termini ne è una conseguenza. Il problema non è definire gli artisti divertenti, ma considerare l’arte un’ importante risorsa per creare una società più evoluta, una risorsa politica; cosa paradossale visto che possediamo una fetta importante del patrimonio culturale mondiale.
Nel 2018 il filosofo canadese Alain Deneault, nel suo libro “La mediocrazia” parla di un’epoca, la nostra, in cui il potere è finito in mano ai mediocri, che lo esercitano senza destabilizzare troppo, posizionandosi in un fantomatico generico centro. Gente che si pone obiettivi di breve scadenza, senza una visione ampia, che non rischia per non compromettersi nel gioco a scacchi sociale: una sorta di conformismo mediano. In questo strepitoso e illuminante libro, appare evidente la deriva che si sta prendendo: non si vede una prospettiva futura che abbia un orizzonte “culturale”, nell’accezione più ampia possibile. Viviamo invece in un insidioso periodo di mediocrazia, in cui alla fine dei conti tutti i problemi si restringono a quello economico (non si parla di altro al telegiornale). Il problema è che questo tipo di dinamica è solo un tentativo di nascondere la polvere sotto il tappeto senza una chiara e sanamente ideale, visione del futuro. Infatti l’idea diffusa della “governace”, cioè di una mera amministrazione di contigenze economiche senza una prospettiva culturale, rischia di riportare a galla più potente di prima la deriva fascista rimasta sottotraccia nel nostro paese, di cui ormai non ci rendiamo neanche più conto (basti pensare al caso di Silvia Romano). Durante la nostra quarantena si facevano molti discorsi: cambierà tutto , niente sarà più come prima….Io spero solo che non sia peggio…Intorno a me vedo più di prima violenza verbale, individualismo, frustazioni, una macchina economica che vuole ripartire ostinatamente, esattamente, come prima… Non mi sembra di vedere un’evoluzione, ma un’involuzione. La cultura è la nostra unica ancora di salvezza, va rivendicata e difesa; e insieme alla cultura il pensiero critico, a prescindere dalla mediocrazia.  Dobbiamo resistere a tutto questo, soprattutto quando finirà questa pandemia e credo, purtroppo, molto più di prima.
0 notes
fabriziofalco · 4 years
Photo
Tumblr media
0 notes
fabriziofalco · 4 years
Text
Il misantropo: un percorso di guarigione
Il lavoro sul misantropo vede la genesi tanto tempo fa. Affonda le radici in un laboratorio in Sardegna con Toni Servillo, dove quel testo si impose alla mia coscienza e mi folgorò per la forza dei sentimenti in esso contenuti. Più volte ho avuto la tentazione di affrontarlo, rimandando sempre il momento in virtù della mia troppo giovane età. Non capivo tante cose perché ancora non le avevo vissute, ma allo scoccare dei trent’anni la lampadina si è nuovamente accesa. Mi trovavo a Milano, stavo vedendo un bellissimo saggio dell’accademia Paolo Grassi e improvvisamente ho capito che era arrivato il momento di farlo. Avevo davanti a me una buona fetta della compagnia che mi avrebbe accompagnato in questa avventura, tra cui il mio grande amico Davide, persona che mi avrebbe poi affiancato in una fase molto importante della mia vita.
Inizio perciò a lavorare per rendere possibile quella che era soltanto un’idea. Ne parlo con Davide e iniziamo a guardarci intorno per trovare una produzione che sostenga il nostro progetto, trovando alla fine il pieno appoggio nel teatro Biondo di Palermo, il teatro della nostra città. Il debutto viene fissato per Ottobre 2020. Nel Dicembre 2019 iniziamo a lavorare al testo, prima leggendo numerosi saggi sul teatro di Molìere e sulla storia della Francia nel 600’. Nel Gennaio 2020 cominciamo il lavoro vero e proprio sul testo, studiando incessantemente per un mese e mezzo. Nel frattempo comincia a salire una certa preoccupazione per un virus che si sviluppa in Cina, denominato covid-19, si teme possa arrivare in Italia. Cosa che avviene intorno al 20 Febbraio. Io dovevo partire per Milano dove mi aspettava un lavoro alla Scala di Milano, un balletto intitolato Madina, dove avrei partecipato in qualità di attore/narratore. L’emergenza corona virus dilaga e iniziano le misure restrittive che bloccano tutti gli assembramenti. Lo spettacolo salta. Decido di tornare in Sicilia, poco prima del blocco totale che mi avrebbe impedito ogni spostamento. Vado da mia madre a Scaletta Zanclea in provincia di Messina, il paese dove sono nato (dove mi trovo tuttora), facendo un isolamento domiciliare di venti giorni in solitudine. Solo dopo questo isolamento mia madre e potuta tornata a casa con me.
Qui inizia un nuovo capitolo, incerto, fatto di alti e bassi, di cambi di umore, di entusiasmi e depressioni, di tempo sospeso, il tempo che mi permette di scrivere queste parole. Riprendiamo a lavorare sul testo cercando di sfruttare al massimo la tecnologia, attraverso le videochiamate principalmente. Decidiamo di continuare a lavorare sul testo, a pensare al nostro futuro, per non darla vinta alla paura e perché la vita deve vincere sempre. Ma le preoccupazioni sono tante…Quando finirà? Dopo cosa succederà? Si potrà riprendere a fare il nostro mestiere? Lo spettacolo quando andrà in scena? Sono domande a cui ancora oggi non si può rispondere…Una cosa però è certa, questa situazione ci lascerà una ferita, ci lascerà un marchio e credo che ce lo porteremo dietro per molto tempo. La mia parte ottimista pensa che la gente avrà una gran voglia di tornare alla socialità e il teatro è la socialità per eccellenza. Ma penso soprattutto che la gente avrà bisogno di sentirsi viva, di condividere il medesimo tempo presente con altre persone, avrà voglia di specchiarsi nel teatro, perché se c’è una cosa che abbiamo capito è quanto importante sia la fisicità (di cui abbiamo una grande mancanza) e quanto abbiamo necessità degli altri visto che siamo degli animali sociali. Ho accolto i propositi di molti di pensare al futuro del teatro, e anche se tutto adesso appare incerto, credo che il processo che ho innescato in me da un anno a questa parte, sia perfettamente in linea con il proposito futuro. Cioè: niente… se non gli attori, i sentimenti, i rapporti e il momento presente. Da questo bisogna ripartire. E’ il grado zero, in fondo tanto auspicato. Sicuramente saranno tempi duri, per via di una crisi economica epocale, ci sarà una profonda crisi economica anche per il teatro visto che forse sarà tra le ultime cose a ripartire, ma tutto passerà…Si prospettano tempi in cui ristabilire le priorità, tempi in cui si arriverà ad una sintesi, tempi in cui ci si libererà da zavorre passate, in cui bisognerà riflettere seriamente e ripensare radicalmente tante cose. Sembra incredibile che stia accadendo, e non so se sia una sfortuna che sia capitato proprio mentre lavoravo sul misantropo di Molìere.  
Comunque sia, noi in questi giorni lavoriamo, e lo testimoniamo attraverso piccoli video quotidiani (non so ancora a cosa serviranno). Lo facciamo con tutte le nostre fragilità quotidiane, con il fuori che entra prepotentemente nella nostra vita, ma sempre proiettati al futuro, a quando tutto sarà finito, a quando ripartiremo. E da cosa si ripartirà? Per quanto mi riguarda, dal contatto umano. Quella è la nostra infinità forza: essere uomini e condividere con altri uomini le gioie, i dolori, gli amori, le passioni.
Forse in questo momento il misantropo non è venuto a caso. E come se fosse un grande cantiere dei rapporti umani. Alceste cerca i veri rapporti umani, cerca la profondità, la verità. Penso di poter dire che il testo parli della verità. Oggi, davanti all’evidenza di essere soli e di trovarci come unico mezzo per restare in contatto con gli altri un surrogato di realtà, l’agogniamo questa realtà, speriamo di riappropriarcene e di viverla per davvero. Cerchiamo quindi la verità, proprio come Alceste e forse finalmente vivremo con intensità (cosa che dovrebbe succedere sempre a teatro) il momento presente. Ecco che allora il teatro, credo, si renderà necessario perché ci sarà bisogno di una verità che si realizzerà nella socialità. Dopo tutte le crisi d’altronde si riparte dal teatro, in questo caso non soltanto per riscoprirsi comunità, ma per riscoprire gli altri nella socialità.
Mi capita di pensare in questi giorni difficili a quanto sarà gioioso poter riscoprire il valore del corpo, della fisicità degli altri, quanto sarà meraviglioso poter fare accadere qualcosa sul palco, poterci rimettere piede insieme agli altri attori, insieme al pubblico.
Sono sicuro che ricentreremo tante cose, riscopriremo il valore del presente, dello stare insieme, della condivisione. Mi auguro che sarà un rinascimento dell’arte, in cui il teatro, soprattutto, sarà una imprescindibile necessità. Sono contento di poter avere l’onore di lavorare su questo testo adesso. Immergermi nelle sue parole mi sta aiutando a vivere questi giorni tristi, mi sta insegnando tanto e mi sta accompagnando in questo passaggio, in questa sorta di percorso di guarigione.
0 notes
fabriziofalco · 4 years
Photo
Tumblr media
0 notes
fabriziofalco · 4 years
Text
La fine del lungo letargo
Sono giorni convulsi, imprevisti e difficili. In queste settimane due visioni contrapposte si sono avvicendate, creando grande confusione. Da una parte la negazione del problema e dall’altra la serietà più assoluta con cui è stato affrontato. Nel mezzo un interstizio di spaesamento. Ho avuto difficoltà a partorire un punto di vista sensato su tutto questo. Ero circondato da informazioni contrastanti, fake news e psicosi collettiva. Guardavo con stupore la sicurezza con cui tante persone esprimevano opinioni così perentorie e mi chiedevo come mai io non riuscissi ad averne una, ma ero semplicemente atrofizzato dalla situazione. Adesso che tutto sembra più chiaro, anche dentro di me si è fatta chiarezza.
La cosa che ho capito è che la situazione è molto seria, ma non starò qui a dilungarmi sul perché visto che ormai mi sembra evidente. Invece la cosa che mi preme evidenziare è cosa questa situazione può portare di positivo.
Da piccolo ricordo i racconti della guerra che mi facevano i miei nonni. La mia mente cercava in tutti i modi di immedesimarsi nella situazione che avevano vissuto, ma capivo che per molti versi era impossibile vista la mia situazione. Non potevo mai immaginare cosa significasse per loro il concetto di coprifuoco, ad esempio. Ricordo anche alcuni racconti di Luca Ronconi sulla guerra: lui era molto piccolo e costretto a stare a casa lesse tutta la biblioteca a poco meno di dieci anni. Mi sono sempre ritenuto fortunato di non aver avuto mai la sensazione di una minaccia alla mia libertà. Oggi il coronavirus ci sta imponendo una sorta di clausura obbligatoria. Dobbiamo fermarci!
E’ una situazione inedita per noi ragazzi occidentali viziati, che pensavamo di essere immuni da tutto e che niente potesse imporci una sosta.
Fermarsi significa rallentare, dare il giusto valore alle cose… Mi sembra che stia succedendo qualcosa. Nell’assenza sentiamo diverse esigenze: di aver vicine le persone che ci vogliono bene e a cui vogliamo bene davvero, di dare finalmente il giusto valore alla tecnologia (di cui stiamo vedendo anche gli aspetti positivi), di avere del tempo per studiare e pianificare un futuro ricco di energia creativa.
Adesso ci manca la libertà, e forse questa mancanza ci fa rendere conto di quanto sia importante, di quanto non vada mai data per scontata. Stiamo vivendo un momento che rimarrà nella storia. Non si sa quali ne siano le conseguenze, ma di sicuro è qualcosa che porterà un cambiamento, spero. Non so se si può paragonare ad una guerra, ma sicuramente è la cosa che ci si avvicina di più. D’altronde dopo ogni guerra si prepara la resurrezione…
Nonostante sia una situazione molto triste io mi sento insospettabilmente felice…Credo che sia un’occasione di rinascita, non riesco a vederla negativamente e basta.
Forse sono troppo idealista e fiducioso nelle nostre possibilità, ma ogni qualvolta ci sono dei periodi bui nella storia, l’utopia non è morta ma semplicemente è andata in letargo. Forse questo è il punto zero, lo spartiacque, qualcosa che ci sta facendo prendere coscienza di quello che siamo diventati, forse tutto questo dovevamo affrontarlo per accorgerci domani che dobbiamo prendere questo mondo tra le mani e accudirlo, come si fa con un bimbo piccolo e fragile, svegliare dolcemente l’utopia e ricominciare a sognare….      
0 notes
fabriziofalco · 4 years
Photo
Tumblr media
0 notes
fabriziofalco · 4 years
Text
Qui e ora
Cosa ci attrae realmente del buon teatro? A mio avviso il momento presente. Mi ricordo che Carlo Cecchi diceva spesso che la maggior parte degli attori in realtà ha paura di stare nel momento presente, oscilla continuamente tra il ricordo del passato (di come ha recitato ieri) e la visione del futuro (cosa dovrò fare tra poco), facendosi sfuggire l’unica cosa importante, il qui e ora. Stare nel qui e ora è l’attitudine basilare per un attore, ma anche la cosa più difficile. D’altronde però il brivido di vivere realmente nell’attimo presente, quando attraversa la scena, è qualcosa che si sente fortemente sia in chi lo fa che in chi lo riceve. Si fa parte di un flusso vitale. Che grande lezione di vita può essere questa…Il teatro ci può fare ricordare come si sta al mondo, come si attraversa la vita. Vivere il qui e ora nella vita, infatti, ci può salvare da questo mondo distratto, cinico e insicuro. Tonare a vivere l’attimo presente, fregando la mente, ci può fare riscoprire il valore di ciò che sentiamo, di ciò che ci circonda, e tornare a fare apprezzare il valore delle persone che ci stanno vicine. Forse tornando alla realtà dell’attimo ci potremmo liberare da tanta irrealtà, fatta di fughe nostalgiche nel passato e di ansie legate al futuro…Potremmo riscoprire l’amore, quello profondo, vero, puro. Solo attraverso l’amore d’altronde si può combattere la superficialità dei rapporti, l’ignoranza, il cinismo, il disincanto che imperano nel mondo odierno. In un momento di totale sfiducia, l’amore può farci tornare a credere in qualcosa. Lo può fare perché è fatto di sensibilità, lo senti dentro, ti fa sentire vivo, presente… Anche se lo dicono tutti da millenni, continuiamo a non riuscire ad accettarlo….Esiste solo il presente, la nostra ancora di salvezza, solo il qui e ora.
0 notes
fabriziofalco · 4 years
Photo
Tumblr media
0 notes
fabriziofalco · 4 years
Text
L’alibi della disillusione
Qualche anno fa folgorato dalla lettura dello scritto di Leopardi “discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani” mi imbarcai nella follia di metterlo in scena. Quello spettacolo e quelle parole mi hanno segnato profondamente. Lo sguardo di Leopardi è mostruosamente acuto e attuale, rintracciando le cause della malattia che tutt’oggi persevera negli italiani. Allora come oggi i discorsi sono sempre gli stessi: L’incapacità della classe dirigente di dare una direzione alla società, l’individualismo esasperato, il non sentirsi parte di una comunità, il cinismo e il disprezzo dell’altro.
La cosa che però mi ha più colpito è stato il discorso di Leopardi sulle “illusioni”.
Le illusioni sono per Leopardi la condizione fondamentale per non lasciarsi trascinare dal cinismo, per via di un sentimento della vanità della vita (eccessivamente sviluppato negli italiani secondo Leopardi). Questa disillusione, credo sia uno dei maggiori problemi dell’Italia di oggi.
La disillusione porta ad una sfiducia nel futuro con la conseguente denigrazione degli illusi a cui bisogna per forza (per avere un alibi verso la propria mediocrità) tarpare le ali. Non dico che non ci siano i problemi, ma l’atteggiamento morale delle persone credo che sia la principale spinta di cambiamento dello stato di cose. Bisogna straripare di energia, di entusiasmo, di utopia per contrastare questa palude insidiosa che è la disillusione…Essere disillusi porta a non stupirsi più di nulla, a non mettersi mai in gioco, a dare tutto per scontato, a guardare gli altri con un sorriso sornione, ad un’infinità di atteggiamenti negativi e depressivi.
Non è un discorso generazionale, ma di atteggiamento verso la vita…
In un’epoca in cui tutto va a rotoli, bisogna rimboccarsi le maniche e non assecondare passivamente questo andazzo. Bisogna coltivare i sogni, le utopie, le illusioni…Sento nell’aria che si stanno risvegliando, forse le abbiamo mandate in letargo per troppo tempo.
0 notes
fabriziofalco · 4 years
Photo
Tumblr media
0 notes
fabriziofalco · 4 years
Text
Per un teatro spoglio
Viviamo in un’epoca in cui siamo sopraffatti dalle immagini. Questo tripudio visivo fa in modo che l’immagine perda completamente il suo valore simbolico ed evocativo, svalutandosi, diventando vuota ed intercambiabile. Che rapporto prende il teatro con questo stato di cose? Anche se trovo lodevole il tentativo di tanti registi di ridare forza alle immagini, proponendo una ricerca fondata sull’aspetto visivo che si proponga di dare alle immagini la loro reale potenza, trovo tuttavia che sia più interessante un altro tipo di riflessione. Partendo dal prologo dell’Enrico V di Shakespeare in cui il coro, a causa degli scarsi mezzi di cui possiede il teatro, prega il pubblico di mettere in moto la propria immaginazione, per ricostruire con la mente ciò che non è possibile portare in scena. Se pensiamo al nostro momento storico, in cui imperano i monologhi e il teatro è visto dalla politica come un inutile spesa superflua, mi sembra doveroso prendere atto che bisogna ritornare ad un teatro spoglio. Quando dico spoglio intendo privo di tutto ciò che può essere considerato superfluo e che vada a ricercare solo gli elementi necessari alla comunicazione con il pubblico. Fare di necessità, virtù. Cosa ci può distinguere da tutto il resto infatti, se non mettere al centro l’uomo: con i suoi conflitti, la sua interiorità, i suoi rapporti e soprattutto cercando di riscoprire il valore dell’immaginazione. L’immaginazione è forse la più grande mancanza nella nostra società. Altro che immaginazione al potere (come dicevano i dadaisti e poi Marcuse), qui non si vede nulla oltre il proprio naso…Nessuna idea di futuro. Siamo schiavi di una filosofia ignorante/materialista.
Assuefatti come siamo da un infinito bombardamento di immagini vuote, spogliare tutto e immaginare, potrebbe essere una potente rivoluzione ostinata e contraria. Dare un’alternativa umana a tutto questo. Sappiamo, da molti studiosi e filosofi, che il pensiero umano funziona per immagini. Quando parliamo costruiamo una serie di immagini, che appartengono al nostro mondo interiore, e cerchiamo di traferirle agli altri. I nostri interlocutori, sedotti dal nostro racconto, produrranno delle loro immagini appartenenti al loro vissuto. Ecco tutto…Questa e la nostra forza! Un processo che tutti noi sperimentiamo continuamente nella vita, ma di cui spesso ci scordiamo a teatro, nella convinzione che serva altro. Se gli attori riuscissero a padroneggiare tutto questo, non ci sarebbe bisogno di altro, tranne che di sapienza e di duro lavoro. Se io vedo, gli altri vedono quello che vedo io, filtrato dal loro vissuto. Questo crea la vera comunione tra chi recita e chi ascolta. Credo, che in questo momento, sia questa la nostra necessità, ma anche la nostra virtù.
Magari non lo sanno, ma le persone hanno fame di immaginare. Non bisogna, a mio avviso, bombardarli di segni di cui hanno fatto indigestione. C’è bisogno di pulizia… C’è bisogno di uno spazio vuoto (lo diceva Peter Brook negli anni ‘60), c’è bisogno di spogliarsi.
0 notes
fabriziofalco · 4 years
Photo
Tumblr media
La compagnia di Arizona
0 notes
fabriziofalco · 4 years
Text
Mitomania, narcisismo e teatro
La mitomania e il narcisismo sono la malattia della nostra società. In un recente sondaggio si stima che il 95% delle persone pensa di essere una persona speciale. Peccato che non sia così purtroppo, di persone speciali nel mondo ce ne sono veramente pochissime. Una così grande percezione distorta della realtà non può che portare conseguenze nefaste nel nostro modo di comportarci nel mondo. L’utilizzo dei social ha ulteriormente peggiorato questa discesa in basso. Quanti dei nostri amici di facebook o instagram, ad esempio, ritraggono sè stessi nei loro post. Basta contare in quante foto compaiono per avere la misura di questo fenomeno. I social sono diventati il palcoscenico per tutti, la possibilità di esibirsi senza nessuna abilità, il far vedere agli altri quanto siamo importanti. Sia chiaro, in questa rete, siamo tutti imbrigliati, siamo talmente assuefatti che nessuno ci fa più caso, ma non è una cosa esattamente normale…Siamo al limite di un patologico culto di sé stessi, che porta ad un individualismo esasperato, ad un’incapacità di vero ascolto dell’altro e quindi alla solitudine.
Tutto questo è l’opposto del teatro che il culto del rito collettivo, della condivisione, della socialità reale. Si sente dire spesso, con una grande retorica da parte degli “intellettuali”, spegnete i telefoni, la tv, e venite a teatro, dove avvengono le cose per davvero. Ma sarà davvero così? O forse in teatro, di questi tempi, subiamo l’avvento di un'altra virtualità? Quella vanitosa e narcisistica di un teatro che parla solo a sè stesso.
Io ritengo che la malattia di cui parlavo, imperi più che mai nelle nostre scene. Il teatro è spesso la patria di tanti millantatori, di venditori di fumo, di irrecuperabili narcisi che appestano i nostri palcoscenici. Dove, se non a teatro, ci potrebbe essere un così fertile luogo per la proliferazione dei narcisi…. Siamo pieni di grandi registi che firmano i loro spettacoli…Nelle locandine vedi prima i loro nomi. Prima dell’autore, del titolo, degli attori. Vedi grandi attori che vedono le cose a modo loro, riproponendo in fondo sempre l’immagine che hanno di loro stessi. Cos’è questo se non un perfetto delirio di mitomania e narcisismo. Si pensa di essere tutti creativi, speciali… Mi dispiace, ma certi grandi personaggi sono veramente rari, sono pochi, ed è giusto che sia così.
A mio avviso gli anticorpi a tutto questo andazzo si dovrebbero trovare nelle scuole di teatro. Già il termine scuola di teatro è riduttivo se non generico (le parole sono importanti), già meglio sarebbe scuola di recitazione…Anche quest’ultima parola però andrebbe suddivisa in due …Scuola di performer e scuola di interpreti. Intendiamoci non ho nulla contro la performance, ma non è il mio campo di interesse, l’accostamento attore/performer la trovo una moda, e Leopardi ci insegna che la moda e la morte vanno a braccetto. La cosa che interessa me invece, senza ambiguità di sorta, è la scuola di interpreti.
Cosa vuol dire essere interpreti di teatro?
Significa sparire, togliersi di mezzo. Educare i giovani attori a tenere a bada il narcisismo, in favore di una maggiore attenzione alla lettura del testo, allo studio, attraverso un processo metodologico che prenda come solo e unico punto di partenza l’osservazione della vita reale. Faccio un piccolo inciso per chiarire un aspetto importante, non si tratta di un ragionamento stilistico. Lo stile non c’entra nulla, sto parlando di un grado zero da qui poi si potrà andare ovunque.
Nelle scuole oggi ci sono, viceversa, metodi di insegnamento totalmente sbagliati, che sono il punto di partenza per un teatro autoreferenziale. Non è più concepibile un approccio a questo lavoro dogmatico che parta dalla forma. La forma è morte…Tuttavia non è concepibile neppure pensare di risolvere una scena, correndo e sbattendo la testa al muro. La scena non si risolverà ugualmente, nonostante lo sforzo…Il presupposto da cui si parte è la visione personale del lavoro o ancora peggio la visione creativa. La creatività se non è supportata da un approccio metodologico è libero arbitrio…Facciamo come cazzo ci pare. Quindi?
A mio avviso, bisogna partire dalla nudità della persona, dall’umiltà al testo, dalla sottomissione. A vedere l’interprete, come dice la parola stessa, un tramite dell’autore, un messaggero, un fattorino. Solo così ci possiamo sbarazzare di noi stessi. Coltivare un approccio creativo, fondato sul come lo vedo io, lo trovo profondamente diseducativo. Bisogna puntare a formare interpreti seri, puntuali, trasparenti, capaci di essere visti attraverso, liberi da sovrastrutture inutili date da insegnanti incapaci, egocentri e autoreferenziali. Insegnare, a teatro come nella vita, si porta dietro un grande carico di responsabilità e non tutti lo dovrebbero fare.
Solo grazie ad un’ attenta educazione ai futuri interpreti ci si potrà smarcare dalla virtualità e dal narcisismo e creare un fatto di realtà evidente.
Bisognerebbe fondare una vera “scuola”, ma intesa come la scuola dei pittori secenteschi, una corrente, un filone di pensiero. Una “scuola” che permetta di avvicinare il pubblico e soprattutto le nuove generazioni al teatro, attraverso un modo di farlo, non più autoreferenziale, non più arroccato sull’io ma proiettato sul noi. Una voglia di condivisione, di diventare uno specchio per gli altri: trasparenti come l’acqua, puri come i bambini, semplici come i sentimenti e vivi come il cuore.  
2 notes · View notes