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#ti palpo la vita
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Ecco dunque la vita - pensai. - Stracciona e ronzante: una polpa di semi e di sangue.
E io la mangio, la palpo, la odoro...Certo oscilla fra contrattempi e incastri senza numero il gioc’a tombola della nostra vita. Non si conosce mai chi si vuole, ma chi si deve o chi càpita, secondo che una mano sleale ci rimescoli, accozzi e sparigli, disponendo o cassando a suo grado gli appuntamenti sui canovacci dei suoi millenni. Abituarsi a guardare la vita come una cosa d’altri, rubata per scherzo, da restituire domani. Convincersi ch’è uno sbaraglio per temerari, che la precauzione suprema è morire…Dove ritrovare il me stesso ragazzo, come sanarlo di quell'infezione: l'ingresso dell'idea di morte nell'intimità di un cuore innocente?
Dove sei ora, dove cammini? In quale notte?
Con che nome mi chiami, con che nome devo chiamarti? Ci sono fiumi dove abiti ora? da varcare a nuoto? su passerelle che tremano? E sei sola, siete tanti, ti ricordi ancora di me?
Tornami in sogno. Anche se l'aria duole sotto i tuoi piedi scalzi, e non trovi labbra per dirmi le parole che vuoi.
Gesualdo Bufalino
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Le due ancore di Jacopo
Firenze, 17 Settembre
Tu mi hai inchiodata la disperazione nel cuore. Vedo oramai che Teresa tenta di punirmi d'averla amata. Il suo ritratto l'aveva mandato a sua madre prima ch'io lo chiedessi? – tu me ne accerti, ed io credo; ma guardati che per tentare di risanarmi tu non congiurassi a contendermi l'unico balsamo alle mie viscere lacerate.
O mie speranze! si dileguano tutte; ed io siedo qui derelitto nella solitudine del mio dolore.
In che devo più confidare? non mi tradire, Lorenzo: io non ti perderò mai dal mio petto, perché la tua memoria è necessaria all'amico tuo: in qualunque tua avversità tu non mi avresti perduto. Sono io dunque destinato a vedermi svanire tutto davanti? – anche l'unico avanzo di tante speranze? ma sia così! io non mi querelo né di lei, né di te – non di me stesso, non della mia fortuna – ben m'avvilisco con tante lagrime, e perdo la consolazione di poter dire: Soffro i miei travagli e non mi lamento.
Voi tutti mi lascierete – tutti: e il mio gemito vi seguirà da per tutto; perché senza di voi non sono uomo: e da ogni luogo vi richiamerò disperato. – Ecco le poche parole scrittemi da Teresa: “Abbiate rispetto alla vostra vita; ve ne scongiuro per le nostre disgrazie. Non siamo noi due soli infelici. Avrete il mio ritratto quando potrò. Mio padre piange con me; e non gli rincresce ch'io risponda al biglietto che mi ha ricapitato da parte vostra; pur con le sue lagrime a me pare che tacitamente mi proibisca di scrivervi d'ora innanzi – ed io piangendo lo prometto; e vi scrivo, forse per l'ultima volta, piangendo – perché io non potrò più confessare d'amarvi fuorché davanti a Dio solo”.
Tu sei dunque più forte di me? Sì, ripeterò queste poche righe come fossero le tue ultime volontà – parlerò teco un'altra volta, o Teresa; ma solamente quel giorno che mi sarò agguerrito di tanta ragione e di tale coraggio da separarmi davvero da te.
Che se ora l'amarti di questo amore insoffribile, immenso, e tacere e seppellirmi agli occhi di tutti, potesse ridarti pace – se la mia morte potesse espiare al tribunale de' nostri persecutori la tua passione e sopirla per sempre dentro il tuo petto, io supplico con tutto l'ardore e la verità dell'anima mia la Natura ed il Cielo perché mi tolgano finalmente dal mondo. Or ch'io resista al mio fatale e insieme dolcissimo desiderio di morte, te lo prometto; ma ch'io lo vinca, ah! tu sola con le tue preghiere potrai forse impetrarmelo dal mio Creatore – e sento che ad ogni modo ei mi chiama. Ma tu deh! vivi per quanto puoi felice – per quanto puoi ancora. Iddio forse convertirà a tua consolazione, sfortunata giovine, queste lagrime penitenti ch'io mando a lui domandandogli misericordia per te. Pur troppo tu, pur troppo, tu ora partecipi del doloroso mio stato, e per me tu se' fatta infelice – e come ho io rimeritato tuo padre delle affettuose sue cure, della fiducia, de' suoi consigli, delle sue carezze? e tu a che precipizio non ti se' trovata e non ti trovi per me? – Ma e di che dunque mi ha egli beneficato tuo padre, e ch'io oggi nol ricompensi con gratitudine inaudita? non gli presento in sacrificio il mio cuore che insanguina? Nessun mortale mi è creditore di generosità; – né io, che pur sono, e tu 'l sai, ferocissimo giudice mio posso incolparmi d'averti amata – bensì l'esserti causa d'affanni, è il più crudele delitto ch'io mai potessi commettere.
Ohimè! con chi parlo? e a che pro?
Se questa lettera ti trova ancora a' miei colli, o Lorenzo, non la mostrare a Teresa. Non le parlare di me – se te ne chiede, dille ch'io vivo, ch'io vivo ancora – non le parlare insomma di me. Ma io te lo confesso: mi compiaccio delle mie infermità: io stesso palpo le mie ferite dove sono più mortali, e cerco d'esulcerarle, e le contemplo insanguinate – e mi pare che i miei martirj rechino qualche espiazione alle mie colpe, e un breve refrigerio a' dolori di quella innocente.
Questo estratto fa parte di le-ultime-lettere-daily, una divulgazione de Le Ultime Lettere di Jacopo Ortis, di Ugo Foscolo
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ma-pi-ma · 3 years
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Ecco dunque la vita - pensai. - Stracciona e ronzante: una polpa di semi e di sangue. E io la mangio, la palpo, la odoro...Certo oscilla fra contrattempi e incastri senza numero il gioc’a tombola della nostra vita. Non si conosce mai chi si vuole, ma chi si deve o chi càpita, secondo che una mano sleale ci rimescoli, accozzi e sparigli, disponendo o cassando a suo grado gli appuntamenti sui canovacci dei suoi millenni. Abituarsi a guardare la vita come una cosa d’altri, rubata per scherzo, da restituire domani. Convincersi ch’è uno sbaraglio per temerari, che la precauzione suprema è morire…Dove ritrovare il me stesso ragazzo, come sanarlo di quell'infezione: l'ingresso dell'idea di morte nell'intimità di un cuore innocente? Dove sei ora, dove cammini? In quale notte?
Con che nome mi chiami, con che nome devo chiamarti? Ci sono fiumi dove abiti ora? da varcare a nuoto? su passerelle che tremano? E sei sola, siete tanti, ti ricordi ancora di me?
Tornami in sogno. Anche se l'aria duole sotto i tuoi piedi scalzi, e non trovi labbra per dirmi le parole che vuoi.
Gesualdo Bufalino, da Diceria dell'untore
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dildomentale · 6 years
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La Signorina V.
Arrivo sul tardi. Lei è già seduta che mi aspetta. Un sorriso che fa tremare. V è bellissima. Seni piccoli ma occhi grandi. Gambe lunghe e belle. Bel culo. Tacchi a spillo. E la metà dei miei anni. Si alza. Mi abbraccia prima che io possa impedirglielo. Mi bacia sulle guance. La stringo un po’. Profumata e morbida. La cameriera, una ventenne carina, ci guarda incuriosita. Sicuramente non capisce come una bellissima ragazza come V sia attratta da un vecchio catorcio. In effetti non lo capisco nemmeno io. Sediamo. Ordiniamo. Parliamo nell'attesa. Lei mi racconta di V. Lavora in proprio adesso. Una targa d'ottone sulla porta. Vive in affitto nell'attesa di comprare un attico in centro città. Sotto il tavolo mi fa piedino. Ti prego V, smettila. Lei ride. Non smette. La cameriera porta gli antipasti. Iniziamo a mangiare. V riesce a parlare e mangiare e a farmi piedino senza sbagliare un colpo. Ogni minuto che passa, ogni parola che pronuncia io mi sciolgo un po’ di più. Tornano i ricordi. Un anno fa. La prima volta che la incontrai. A casa sua. Tralascio il prima. Vengo al dopo. Nel suo letto. Lei in mutandine e canotta. Vestito io. Con la voglia di V stampata sul mio volto sudato. Lei sdraiata pancia in su. Le chiedo di toccare il suo seno. V sorride e annuisce. Allungo la mano. Non perfettamente ferma. Accarezzo il suo seno da sopra la canotta. Piccolo e sodo. Il capezzolo turgido. La sua mano che si posa sulla mia. Una mano calda. Una mano sicura e ferma invece. Il suo sguardo che mi dice fallo. E io che ritiro la mano. La paura mi attanaglia. Mi sento pesce fuor d'acqua. Mi alzo dal suo letto. Mi scuso. Farfuglio qualcosa. Esco dalla sua camera. Dalla sua casa. Dalla sua vita. Passa il tempo e ora di nuovo vicini. V mangia o meglio divora. La guardo. Mangio svogliato. Il suo piede cerca il mio. Passiamo ai primi. Poi un dolce. Il caffè. Pago e usciamo. La cameriera ventenne sempre più non capisce. Cerco il suo sguardo un'ultima volta. Siamo in due a non capire il perché. V invece sa perché. Fuori mi prende per mano. Camminiamo. Mano sempre calda. Dentro di me la voglia di fuggire. Non ci riesco. Più tardi in una camera d'albergo. Piccola e angusta ma non importa. V si toglie i vestiti. Nuda è fantastica. Mi si rizza il cazzo. Lei lo sa. Mi fa sedere sul letto. Mi spoglia. Mi ordina di non fuggire. Mi mette disteso. Mi sale sopra. Mi stringe forte il cazzo e poi mi guida dentro di lei. E si stende su di me come una coperta caldissima. Allungo le mani sul suo sedere. Palpo quelle natiche sode. Lascio che sia lei a scoparmi. Non so come, resisto e la assecondo. In effetti non ci vuole molto. V ne aveva voglia quanto me. Solo che sapeva cosa voleva molto meglio di me. Si prende il piacere. Poi si sfila e scivola giù. Trova il mio cazzo bagnato di rugiada e lo bacia. Lo accarezza. Ne saggia la virilità. Lo assapora pienamente. Le sborro in bocca. V non si ritrae. Accoglie il mio sperma come una benedizione. Lascia che mi sfoghi fino all'ultima stilla. Poi risale il mio corpo e viene a baciarmi.
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