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#non mi pare poi un piano così terribile
dilebe06 · 3 months
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La prima stagione di The Gifted non era male.
Ragazzi con dei superpoteri - di cui alcuni molto strani - che lottavano contro un sistema scolastico ingiusto racchiuso nella figura super potente del Preside.
La scoperta dei poteri ed il loro rovescio della medaglie, le prime amicizie e le inevitabili litigate, le collaborazioni tra gente che non penseresti mai possano stare anche solo seduti sullo stesso banco, drammi d'amore... il tutto condito da questa "guerra" per riscrivere un mondo migliore e più ugualitario.
Anche se la produzione, recitazione e regia non era perfetta, si lasciava guardare volentieri. Mi ha onestamente divertita.
Ma la seconda stagione - ed ho passato più di metà - la trovo un mezzo disastro.
Si salva solo Wave...la mia divinità personale.
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Per tutta la serie non ha fatto altro che pensare che gli autori si siano sbronzati pesantemente mentre scrivevano sta roba.
Se da una parte apprezzo che la serie si concentri sulla fallacità di Pang come leader del gruppo e sulle dinamiche relazionali che finiscono inevitabilmente a scatafascio dall'altra non posso fare a meno di essere confusa dalla trama messa in campo e da come essa viene narrata.
Abbiamo la lotta dei ragazzi contro il Preside che si complica con l'entrata in scena del Ministero dell'Istruzione che anch'esso è contro il Preside. Ma è anche contro i ragazzi.
Qui per ricordare quando la tizia del Ministero portò all'interno della scuola composta da minorenni, un arma batteriologica.
In questo gioco del "ti dico non ti dico, ti mento, non ti mento, ti dico la verità forse sì, forse no", che vede il Preside ed il Ministero farsi la guerra usando Pang ed i ragazzi come arma da mandarsi contro e dove tutti gli adulti raccontano balle e scaricano la responsabilità su altri, sento una fatica atroce nel tentare di stare dietro a tutto. La sensazione è che la serie stia facendo" il gioco delle tre carte ": complicare tutto e renderlo confuso così gli spettatori non si accorgeranno di quello che sta davvero andando in scena.
Ciò è amplificato dalla figura di Pang, banderuola che si fa infinocchiare da chiunque e passa da un lato all'altro in base alle stronzate che gli raccontano:
Il preside è cattivo? ci si schiera con il Ministero contro di lui.
Si scopre che il Ministero non la racconta giusta? Si lavora assieme al Preside contro il Ministero.
Oh no, il preside ha mentito ed il realtà è lui il cattivo? Io tornerei a lavorare con il Ministero. Giusto per rimanere nel mood.
Pang io ti voglio bene ma per l'amor di Dio, scegliamo un lato e atteniamoci a questo.
Tra l'altro, devo ancora capire perché Pang è stato nominato leader del gruppo dei Dotati. Era stato acclamato come tale nella prima stagione e non me lo ricordo?
Perché, dati alla mano, Pang è un leader terribile:
Crede ciecamente in chiunque - pure ai nemici dichiarati -non ascolta gli altri, se prende una decisione e non sei d'accordo farà lo stesso come gli pare. Si getta nelle battaglie senza pensare alla gente attorno a lui. Non so' stupita poi che tutti gli altri gli si ribellano contro.
Ed ha questo punto io mi immaginavo che la serie prendesse in esame questo: come il carattere e le scelte di Pang lo abbiano allontanato da tutti. Ed invece no.
In questa stagione Pang è il male sulla terra. Seriamente, lo accusano di tutto. Tutti pendono dalle sue labbra aspettandosi che sia lui ad dire cosa fare, fanno piani TUTTI ASSIEME e poi quando il piano fallisce, danno la colpa a Pang.
Time si offre di aiutare Pang usando il suo potere nonostante stia male e quando effettivamente sta male, Grace da la colpa a Pang. Ma scusate: è TIME che si è offerto! ha fatto tutto da solo e anzi Pang gli aveva detto di no. PERCHé è COLPA DI PANG?!!!!
Che poi, Pang in un episodio ha visto morire due suoi amici. E manco un cane che sia andato da lui a consolarlo.
Ed è proprio questo che mi ha spinto ha pensare che questa serie sia stata scritta male:
hanno creato una dinamica problematica e di tensione tra Pang ed i suoi amici... e si rifiutano di risolverla, facendo finta che non esista.
C'è sta scena dove Pang chiama a raccolta gli altri per aiutarlo nella battaglia contro il Ministero e dove gli altri gli dicono di NO. Sono stanchi, non hanno più voglia ed insomma...alla fine rimangono solo Pang e Wave. Il loro piano va avanti e da soli riescono a fermare il Ministero davanti ai loro compagni che se li guardano fermi e immobili, comodamente seduti. La scena finisce con Pang e Wave che vanno incontro al gruppo tutti felicini che gli fanno le congratulazioni come se fossero un grande e unito gruppo. YEHHHHH!!!
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E due episodi dopo, quando è Ohm a chiamare a raccolta gli altri per la battagliona contro il preside, loro gli dicono di SI.
Ma come?! Quando vi incitava Pang non lo cagavate di striscio e adesso che lo fa Ohm, tutti nelle barricate?! Cosa è cambiato? Cosa minch..a è cambiato da quando Pang vi ha fatto questa richiesta?
Ve lo dico io: la sceneggiatura.
The Gifted Graduation pare vittima di una sceneggiatura che vuole raccontare una storia senza tener conto della logica e delle motivazioni dei personaggi. Così a caso. Le cose accadono per caso.
Persino la dinamica tra Pang e Wave - che avevano litigato fino alla morte due puntate prima - non viene minimamente toccata. COME SE NON FOSSE SUCCESSO NIENTE.
Prima li vedi urlarsi le peggio cose nei corridoi e poi Pang fa un sorriso a Wave e fine...si torna a parlare di come sconfiggere i nemici.
Basita.
Ed ancora... Punn e Claire - la coppia d'oro che stava insieme dall'alba dei tempi - si è lasciata. E questo ovviamente non te lo fanno vedere ma ci viene detto ( manco raccontato ) da uno di loro.
La loro storia d'amore era una caratteristica fondante dei personaggi, visto che ci avevano anche fatto vedere i loro problemi di coppia e di come i loro poteri influivano anche nella loro storia.
Ma si lasciano senza manco darti una scena.
Ce lo dicono così, come si direbbe che oggi piove.
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O ancora Korn che si rivela essere il Capo degli Anti- Dotati. Sì c'è anche questa fazione nella scuola. Che tra parentesi sparirà dalla circolazione una volta che alla storia non serve più. Come se non fosse mai esistita.
Ora, bene avergli dato una storyline tutta sua perché nella prima stagione non era stato cagato ed era un personaggio poco esplorato. Ma il suo vero volto di "cattivo" è cicciato fuori all'improvviso senza nessuna ragione. Mai, per tutta la storia, aveva fatto intendere di essere contro i Nostri.
Arrabbiato con Pang perché lo reputava troppo morbido, la serie non aveva mai mostrato il benché minimo sentore di criticità su questo. Nemmeno un immagine, gif, frame di Korn che... che ne so'... sorride agli altri ma poi si gira a ha una faccia arrabbiata. Niente.
Quindi quando in questa stagione salta fuori tutto e Korn si rivela il Capo, sembra un colpo di scena alla D&D.
C'è lui che urla disperato contro Pang vomitandogli addosso tutta la sua acredine per il modo in cui gestisce il gruppo e tu spettatore guardi la scena basito perché non capisci da quanto, come e perché Korn abbia tutta sta rabbia dentro.
E poi viene fuori che in realtà era stato controllato dal Preside ed in realtà è un bravo ragazzo. Sì ok. Ma quindi? tutto l'odio per Pang e company era finto? non era vero? e perché quando esce dall'infermeria dopo che ha messo nei casini i ragazzi e essersi quasi ammazzato, non vediamo MANCO UNA SCENA DI LUI E GLI ALTRI CHE PARLANO DI QUELLO CHE è SUCCESSO? Perché Korn sul finale è assieme agli altri come se non fosse successo nulla???
Fino ad arrivare alla new entry Grace che si dispera per due episodi interi sulla morte del suo amico Time, salvo poi arrivare alla scena di lei che aiuta Pang perché " glie l'ha detto Time di farlo" come favore personale. E allora, lo sai che Time è vivo! Ma perché non ci mettono una scena su questo???? Il loro incontro!!! hai pianto per episodi!!
Niente.
Sulla tipa che scopre che in verità il suo amico non è morto, manco una gif però oh... sulle creme per il viso, bibite, struccanti e tra poco pure olio per motore, ti ci potrebbero fare un drama a parte!
Pubblicità talmente aggressiva e inopportuna che ti viene da chiederti se in realtà la serie sia un contorno ed il marketing la vera storia.
Ormai mancano poche puntate alla fine ma dire che sono delusa è un eufemismo.
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givemeanorigami · 3 years
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"Non puoi buttarla a ridere e chiedergli perché fischia sempre e solo a te?" "No! Se mi fischia un'altra volta, vado e gli dico che il fischietto può ficcarselo in culo" A parte che ho capito da chi ho preso la mia proverbiale calma ed eleganza a dire le cose, io il fatto che mio padre abbia iniziato una guerra passivo aggressiva con il bagnino dello stabilimento accanto a quello dove va lui, perché suddetto bagnino fischia sempre e solo a lui senza apparenti motivi logici la considerò il mio nuovo podcast estivo.
C'è azione, c'è mistero, c'è che per una volta queste situazioni tragicomiche non succedono a me.
(io, comunque, perché il bagnino dello stabilimento accanto a dove va PP fischia sempre e solo a lui, lo voglio capire).
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shikayuki · 5 years
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Il mago e il diavolo
Questa storia partecipa al COWT9 di Lande di fandom
Settimana: 2
Missione: M1
Prompt: fantasy
Wordcount: 1060
Rating: SFW
Pairing: Klance
Keith guardò Lance e gli sorrise dolcement, salutandolo con la mano, prima di poggiarla sulla liscia e fredda superficie lucente che li divideva. Lance rispose al suo sorriso e poi portò la mano contro la sua. Così vicine, eppure così. Se Keith chiudeva gli occhi, riusciva quasi a sentire il calore tiepido dell’altro contro la sua pelle calda, ma non voleva chiuderli, voleva tenerli su quella visione che aveva davanti, così fugace e rara, che non voleva perdersene neanche un secondo.
“MI MANCHI”
Lance lo scrisse con una punta del dito, concentrandosi per scriverlo nel verso giusto, così che avrebbe potuto leggerlo senza sforzo.
“ANCHE TU”
Keith lo scrisse di rimando, mentre delle scintille si sprigionavano dalla punta del suo dito a contatto con la superficie fredda.
“Vorrei stringerti di nuovo”
Gli occhi blu di Lance erano tristi mentre tracciava quelle parole e il cuore di Keith fece un balzo doloso nel leggerle, talmente tanto che rimase quasi senza respiro.
“Dobbiamo ancora avere pazienza”
“Lo so”
“Vorrei stringerti anche io”
“Ti amo”
Quelle parole tremolarono sulla superficie lucida e quel tremolio si espanse presto a tutta la figura di Lance.
-No, no Lance! Resta con me, un altro po’!-
Keith tirò un pugno rabbioso contro lo specchio, che adesso rifletteva solo la sua immagine, ma quello rimase comunque spento, senza vita, tanto da parere quasi uno specchio normale. Il ragazzo si guardò nello specchio, i suoi occhi cerchiati e ardenti lo scrutarono di rimando.
-Ti odio.-
Non sapeva più se lo stava dicendo allo specchio, a se stesso, o a chi aveva messo lui e Lance in quella situazione. Non c’era voluto molto: parole di miele, tanta furbizia, e un contratto firmato solo in apparenza di spontanea volontà.
Keith si voltò di nuovo e rovisto tra i suoi libri e le sue pergamene pieni di libri e formule, ribaltò ampolle e scaffali, cercando di nuovo gli ingredienti, pensando, rimuginando. Sapeva che se Shiro, il suo maestro, fosse stato lì, probabilmente gli avrebbe tirato una testata pur di farlo calmare, ma Shiro non era lì. Nessuno era lì, neanche più Lance. Era rimasto solo, solo con la sua magia inutile, e una vocina fastidiosa continuava a ripetergli che in fondo era solo lui la causa dei suoi problemi, sin da quando aveva preso il suo primo respiro. I suoi genitori, maghi potentissimi, lo avevano abbandonato, Shiro era sparito nel nulla e adesso anche Lance non c’era più, confinato in un mondo a metà, a fare lo schiavo di quella terribile strega che lo teneva rinchiuso. E per ogni persona che lo aveva lasciato, lui sapeva di esserne il responsabile.
Aveva passato notti insonni a studiare il contratto e tutti gli incantesimi possibili, ma non era riuscito a fare nulla, se non incantare quello stupido specchio per riuscire a vedere di quando in quando Lance di nascosto. Non sapeva neanche come ci era riuscito, era stato puro caso, un fortuito scherzo del destino, ma almeno sapeva che Lance stava bene, che non lo odiava e che voleva tornare da lui, tanto quanto Keith lo voleva di nuovo al suo fianco.
Lance sarebbe dovuto essere un mero famiglio, un semplice spirito elementale dell’acqua tanto potente quanto irrispettoso, evocato per sbaglio e quasi rispedito al mittente, che eppure era riuscito a rimanere e con il suo sarcasmo e il suo essere fastidioso, pian piano aveva conquistato Keith, trasformandosi nel compagno della sua vita.
Il mago amava il suo famiglio, così come il suo famiglio amava lui, e avevano imparato a conoscersi e a prendersi cura l’uno dell’altro e il fatto che Keith l’avesse perso stupidamente, era una cosa che lo bruciava nel profondo.
Scaraventò via l’ennesimo libro inutile contro il muro e poi si prese la testa tra le mani, cercando di tenere a bada i suoi pensieri e riuscire a riflettere. Ormai erano passati mesi e non aveva trovato né una scappatoia al contratto, né un modo per scioglierlo in modo efficiente. L’unica soluzione era la morte di uno degli stipulanti, possibilmente la Strega, ovviamente.
Era immerso nei suoi pensieri, quando un tonfo sordo nel camino lo colse di sorpresa. Si voltò di scatto, le braccia già protese e le mani pregne di energia magica, pronte a colpire. Da una nuvoletta di cenere, con molta grazia ed eleganza, un gatto nero, dai curiosi riflessi viola e arancioni, si diresse verso di lui, depositandogli ai piedi una pergamena, per poi sedersi a leccarsi le zampe, in attesa.
Keith capì che non c’era alcun pericolo e guardò curioso il gatto, famiglio a lui sconosciuto, raccogliendo la pergamena. Non ci mise molto a riconoscere il sigillo in ceralacca viola e argento, con un’arzigigolata L incisa sopra. Ebbe l’impulso di buttarla direttamente nel fuoco, senza neanche aprirla e forse il gatto lo comprese, perché miagolò, strusciandosi contro le sue gambe.
-Devo aprirla, vero?-
Il famiglio iniziò a fare le fusa, continuando a strusciarsi contro di lui e Keith si arrese. Ruppe il sigillo, che rilasciò uno sbuffo di magia, forse un incantesimo di sicurezza, e lesse velocemente le poche parole vergate in un’elegante grafia spigolosa. Il concetto era chiaro, non lasciava adito a troppe interpretazioni e Keith capì che doveva decidere e doveva anche farlo in fretta. Lanciò un’occhiata dolente a tutti i libri inutili e agli esperimenti falliti che aveva accumulato in quei mesi e sospirò, sconfitto.
Recuperò il suo mantello, mise alcune cose fondamentali nella sua borsa e lanciò un ultimo sguardo allo specchio che gli aveva permesso di tenersi in contatto con Lance, salutandolo.
-Conducimi dal tuo padrone, Kova.-
Il gatto miagolò felice in risposta e si avviò, zampettando con eleganza davanti a lui. Keith esitò nel fare il primo passo, ma deglutì e iniziò a mettere un piede dopo un altro, sulla scia del felino magico. A quanto pare un altro diavolo voleva stringere un patto con lui, ma questa volta sembrava andare a suo favore, tanto quanto all’altro. La Strega aveva preso anche qualcosa del diavolo, oltre a Lance, e questo lo aveva fatto infuriare, talmente tanto da proporre un patto al suo peggior nemico: Keith.
Beh, se il diavolo voleva aiutarlo, Keith per una volta avrebbe seppellito l’ascia di guerra e gli avrebbe concesso il suo aiuto. Tutto per Lance, per poterlo stringere di nuovo tra le sue braccia e poter sfiorare di nuovo quelle labbra morbide che sapevano di casa.
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edenlyeden · 3 years
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.       📽️  𝐩𝐞𝐧𝐬𝐢𝐞𝐯𝐞           𝗁𝗈𝗀𝗐𝖺𝗋𝗍𝗌           𝗇𝗈𝗏𝖾𝗆𝖻𝖾𝗋 𝟢𝟣, 𝟤𝟢𝟤𝟥           #𝖽𝖺𝗇𝗀𝖾𝗋𝗈𝗎𝗌𝗁𝗉𝗋𝗉𝗀                     ⤸    « Hei, sono qui. »  Pur sapendo che sarebbe arrivata, la voce di Lysistrate (ovattata dalla pesante porta che le divide) fa sobbalzare la serpeverde, intenta ad annusare i detersivi di scorta appartenenti a Gazza, forse con la speranza di perdere quell'olfatto messo a dura prova dall'olezzo dello stretto sgabuzzino.  « Hai seguito la mia scia fino ad arrivare a me? »  «Ho chiesto al tuo perfetto migliore amico, che a quanto pare sa della mia licantropia, dove tu fossi, molto più semplice e meno dispendioso di energie, sarebbe stato un guaio se mi avessi percepita stanca e svilita, no? »  𝘍𝘰𝘳𝘴𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘢𝘷𝘳𝘦𝘣𝘣𝘦 𝘥𝘰𝘷𝘶𝘵𝘰 𝘥𝘪𝘳𝘨𝘭𝘪𝘦𝘭𝘰, 𝘰𝘱𝘴.  « Quante parole in pochi secondi, stai cercando di farmi concorrenza? »  « No, la lingua la muovi più velocemente tu e di questo sono molto grata a Salazar e anche ai tuoi genitori, sempre che sia genetico. »  « È tutta abilità mia, frutto di fortuna, talento e profondo esercizio. Mi dispiace per la storia della licantropia, comunque. » ed è sincera, ché per qualche strana ragione era convinta fosse di dominio pubblico. Probabilmente a Lorcan lo avrebbe detto comunque, ma questa è un'altra storia.  « Non importa, potevo immaginarlo. Lo vuoi il muffin? »  « Il giorno in cui rifiuterò del cibo, dovrai farmi ricoverare. »  « Apri, io mi sposto. »  « Il muffin me lo lanci? »  « Lo appoggio a terra, è incartato. »  « Peccato, sarebbe stato divertente. Non essere troppo bella oppure ho la tentazione di avvicinarmi, ok? »  « Ma io sono bellissima sempre, Octavia. »  « Oh no, hai usato / il / nome. » ha aperto la porta, per ora è solo un occhietto verde quello che sbuca. « E hai proprio ragione. »  « Ciao. », sussurra appena, il tono tremendamente dolce alla sola vista dello spiraglio aperto.  « Ciao. » ha aperto totalmente la porta e le ha rivelato così un brillante sorriso, tuttavia bloccato pochi secondi dopo da un leggero capogiro. « Tu hai mangiato? »  La osserva e vorrebbe correre verso di lei, Lysistrate, ma si limita ad allungare lievemente una mano e ritrarla subito. « Ho mangiato. » mente con il sorriso sulle labbra. « Sei proprio in condizioni pessime, ma sei carina, sai? », ché se qualcuno qualche mese prima le avesse raccontato quella scena mai avrebbe creduto alla dolcezza delle parole appena utilizzate.  « Guarda che la percepisco la "paura" che io scopra che stai mentendo. » percepisce pure la voglia di avvicinarsi e toccarsi, pur senza capire dove finiscano i sentimenti di Lysistrate e dove inizino i propri. Si china e scarta il muffin, che divide in due esatte metà: diventa difficile incartare quella rimanente con quella destinata a se stessa in mano, ma riesce e poco dopo è di nuovo in piedi, soltanto mangiucchiante. « La senti la puzza di Gazza? Non me la toglierò mai di dosso. Ho trovato una cosa interessante, però. »  La guarda, la grifondoro, e riesce solo a pensare a quanto sia bella e quanta voglia abbia di proteggerla dal mondo intero e, forse, anche da se stessa. « Ho altri due muffin qui, mangerò anche quello di Lorcan, magari così mi starà più simpatico. », perché tanto non ha senso mentire. « Sì, maledetto fiuto da lupo, te la sentirò addosso per giorni interi. Uh, cos'hai trovato? » Senza rendersene conto un passo verso di lei lo fa, poi si blocca, tremendamente spaventata dall'idea di aver esagerato.  « Mi vuoi dire che io ho compiuto la missione impossibile di dividere il muffin a metà e tu ne avevi altri due a portata di mano? I miei talenti impiegati per l'inutilità. » passa il dito sull'angolo delle labbra per togliere di lì qualche briciola birichina. Nota il passo avanti e resta ferma, nonostante il capogiro venga enfatizzato da quel gesto. « Un tamburello. » il tono le esce appena provato, sebbene abbia cercato in tutti i modi di concentrarsi soltanto su se stessa e di respirare profondamente. « Credo che lo ruberò. »  « Te l'ho anche detto prima, non mi presti abbastanza attenzione, signorina. » ride e non può fare a meno di restare incantata dal movimento delle sue falangi sulle labbra. Nota la fatica di Eden e si allontana ancora. « Scusami, non volevo, dimmi ─ dimmi cosa posso ─ cosa devo fare. »  « Veramente me lo hai detto prima? » è sconvolta, sul serio non ricorda niente e per una che ama vantarsi della propria memoria è, beh, terribile. Ma mai quanto la sensazione che sta provando. « Temo di dover chiudere nuovamente la porta. » e sbuffa, arrabbiata con se stessa e l'incapacità del momento.  « Veramente. », le risponde con tono morbido e si allontana ancora. Una volta che la porta si richiude Lysistrate si allontana ancora, quanto le basta per odiarsi per qualche secondo, riprendere a respirare piano e poi tornare verso la porta. Si siede con la schiena aderente al legno. « Sei la creatura più forte che io conosca e io credo di 𝐚𝐦𝐚𝐫𝐭𝐢 con tutta me stessa e te lo dico dietro una porta, da codarda, perché è inutile che stia zitta, tanto te ne accorgeresti lo stesso e ─ giuro che se lo userai contro di me dirò a tutti che sei una finta bionda.» e si lascia scappare una risatina di liberazione.  Poggiata al legno spesso con la nuca, Eden si concede di chiudere gli occhi, ché magari così regolarizzare il respiro sarebbe risultato un po' più semplice e utile al fine di tranquillizzarsi. Di norma gestire le emozioni di una sola persona sarebbe stato spontaneo, eppure il 𝘣𝘰𝘰𝘮 improvviso del pomeriggio l'ha devastata al punto di compromettere pure quella gestione tanto semplice. Spera che il tutto si risolva quanto prima, altrimenti sì che sarebbero stati giancarli senza zucchero. Sente il rumore di Lysistrate che si siede, allora la imita e pian piano scivola col sedere sul pavimento inquietante, le gambe necessariamente piegate in una posizione scomoda a causa del poco spazio. Se lo sarebbe dovuta scegliere decisamente meglio, il nascondiglio. Così come avrebbe voluto ribattere che no, lei non è forte nemmeno la metà della Tsopei (lo pensa davvero, non è per cortesia!), se soltanto la ragazza non avesse poi continuato a parlare. Buffo modo di dichiarare il proprio amore, senza ombra di dubbio. « Però hai detto "credo". » puntualizza, un sorriso che un tempo sarebbe stata una smorfia di terrore subito seguita da una fuga (chissà dove, poi, intrappolata come un sorcio com'è). Ha ancora un po' il terrore di tali parole e dichiarazioni importanti, ma sta scendendo sempre più a patti con la consapevolezza che, beh, Lysistrate valga il rischio e l'impegno, addirittura qualche attimo melenso. « E ti devi trovare un'altra minaccia, ormai tutti lo sanno. »  Sorride chiudendo gli occhi contro la porta e sentendo le parole della maggiore. Il cuore le batte in una maniera spropositata, che non serve nemmeno l'abilità di Eden o l'udito da lupo per percepirlo in quel momento. « Sei una cretina. » e ride, spontaneamente ed in modo così sincero che nemmeno lei ci crede. « Sai, esimia testa di cazzo, non ho mai avuto idea di cosa fosse l'amore, poi c'è stata Thus, lei ha curato le mie ferite, mi ha amata, non ha mai avuto paura di me. Mai. Mi ha insegnato cosa sia l'amore di una famiglia e a fidarmi, per la prima volta, di qualcuno. Però, prima di te, non avevo idea di cosa fosse l'amore romantico, che forse alla nostra età è anche giusto che sia così, ma tu hai stravolto tutto. E ti odio. E mi fai essere così gelosa e poi melensa e ─ mi sento ridicola e a volte ho paura, ma quello che provo per te abbatte tutto. E, credimi, quando ti dico che tu sei la creatura più forte che io conosca, credimi, Eden, ti prego. » Una mano sul pavimento, che si attacca alla porta, perché vorrebbe solo sfiorare la sua.  « Se mi dici che sono una cretina in questo modo, mi viene difficile crederci. » le fanno male le guance per quanto sia prolungato il sorriso, ma non per questo smette: ascolta il suo monologo senza interromperla (ed è molto difficile, considerato quanto le prema sulla lingua il desiderio di una qualsiasi battuta in merito a Dario Cassini, un comico che ha per intercalare proprio 𝘦𝘴𝘪𝘮𝘪𝘢 𝘵𝘦𝘴𝘵𝘢 𝘥𝘪 𝘤𝘢𝘻𝘻𝘰 che le ha attribuito), le dita che alla fine, da sole e inconsapevoli di essere specchio di quelle di Lysistrate, seguono l'istinto di attaccarsi alla porta. « E comunque lo sei davvero. Ridicola, intendo. » il tono non riesce a celare la tenerezza che prova, forse il primo sentimento totalmente suo che percepisce dal 𝘵𝘦𝘳𝘳𝘪𝘣𝘪𝘭𝘦 𝘣𝘰𝘰𝘮. « Perché adesso questo momento non sarà coronato da un super bacio come accade nelle migliori commedie adolescenziali. Ti sembra giusto? » scherza, uno sbuffo di risata a riempire l'attimo di pausa che prende. « 𝐆𝐫𝐚𝐳𝐢𝐞. Potrebbe sembrare il remake della dichiarazione di Marissa a Ryan, ma in realtà sento di dovertelo dire perché so quanto sia difficile per te ammettere queste cose a voce alta e già soltanto questa intenzione mi fa capire quanto ciò che dici sia vero. » Segue un po' di silenzio, il rumore del corpo di Eden che prova a girarsi affinché adesso sia la bocca vicina al legno, quasi come volesse confidare un segreto nell'orecchio di Lysistrate. « Appena recupero la barriera, ti faccio vedere io quanta forza ho. » tono marcatamente sensuale, forse persino seguito da un piccolo ringhio: non ce la fa mai ad essere seria per troppo, del resto.  «D'accordo, d'accordo, studierò attentamente altri modi per dirtelo, mia cara.», una live inflessione sul "mia cara", ride, anche se potrà sembrare un'idiota a ridere e dichiararsi da sola in un corridoio, ma da quando in questa relazione vi è qualcosa di convenzionale? Muove la mano sul legno, Merlino solo sa quanto vorrebbe sfiorarla e accarezzarla in quel momento, un po' si odia per non essere in grado di proteggerla. Il tono tenero con cui Eden le si rivolge la fa sorridere ancora, teme in una futura paralisi facciale di questo passo. « Me ne rendo conto, ci lavorerò su, prometto.» Rimane in silenzio, poi, non si aspetta una dichiarazione a sua volta, da Eden, non è per questo che ha detto ciò che ha detto, ma solo perché si sentiva di farlo. « Beh, ricordiamoci la fine che ha fatto Marissa, vorrei evitare di essere totalmente il suo remake, grazie.» ride e scuote il capo, ché Eden lo sa che quelle parole in realtà hanno tutt'altro valore. Ascolta i rumori dietro la porta e si gira anche lei, come se volesse passare attraverso il legno e andare a baciarla e stringerla a sè. « Ouch, dovrò aspettare molto? Sai la tua audacia mi eccita molto, ora sono curiosa di sapere che effetto avrà su di me tutta questa tua forza. »    Non ha dovuto aspettare molto, 𝘮𝘢 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘢 è 𝘵𝘶𝘵𝘵𝘢 𝘶𝘯'𝘢𝘭𝘵𝘳𝘢 𝘴𝘵𝘰𝘳𝘪𝘢 𝘤𝘩𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘱𝘶ò 𝘦𝘴𝘴𝘦𝘳𝘦 𝘲𝘶𝘪 𝘳𝘢𝘤𝘤𝘰𝘯𝘵𝘢𝘵𝘢.
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.             ╰ 𝐩𝐞𝐧𝐬𝐢𝐞𝐯𝐞!
              📍 hogwarts               📅 nov. 01, 2023               🔗 #𝖽𝖺𝗇𝗀𝖾𝗋𝗈𝗎𝗌𝗁𝗉𝗋𝗉𝗀                         ・・・    « Hei, sono qui. »  Pur sapendo che sarebbe arrivata, la voce di Lysistrate (ovattata dalla pesante porta che le divide) fa sobbalzare la serpeverde, intenta ad annusare i detersivi di scorta appartenenti a Gazza, forse con la speranza di perdere quell'olfatto messo a dura prova dall'olezzo dello stretto sgabuzzino.  « Hai seguito la mia scia fino ad arrivare a me? »  «Ho chiesto al tuo perfetto migliore amico, che a quanto pare sa della mia licantropia, dove tu fossi, molto più semplice e meno dispendioso di energie, sarebbe stato un guaio se mi avessi percepita stanca e svilita, no? »  𝘍𝘰𝘳𝘴𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘢𝘷𝘳𝘦𝘣𝘣𝘦 𝘥𝘰𝘷𝘶𝘵𝘰 𝘥𝘪𝘳𝘨𝘭𝘪𝘦𝘭𝘰, 𝘰𝘱𝘴.  « Quante parole in pochi secondi, stai cercando di farmi concorrenza? »  « No, la lingua la muovi più velocemente tu e di questo sono molto grata a Salazar e anche ai tuoi genitori, sempre che sia genetico. »  « È tutta abilità mia, frutto di fortuna, talento e profondo esercizio. Mi dispiace per la storia della licantropia, comunque. » ed è sincera, ché per qualche strana ragione era convinta fosse di dominio pubblico. Probabilmente a Lorcan lo avrebbe detto comunque, ma questa è un'altra storia.  « Non importa, potevo immaginarlo. Lo vuoi il muffin? »  « Il giorno in cui rifiuterò del cibo, dovrai farmi ricoverare. »  « Apri, io mi sposto. »  « Il muffin me lo lanci? »  « Lo appoggio a terra, è incartato. »  « Peccato, sarebbe stato divertente. Non essere troppo bella oppure ho la tentazione di avvicinarmi, ok? »  « Ma io sono bellissima sempre, Octavia. »  « Oh no, hai usato / il / nome. » ha aperto la porta, per ora è solo un occhietto verde quello che sbuca. « E hai proprio ragione. »  « Ciao. », sussurra appena, il tono tremendamente dolce alla sola vista dello spiraglio aperto.  « Ciao. » ha aperto totalmente la porta e le ha rivelato così un brillante sorriso, tuttavia bloccato pochi secondi dopo da un leggero capogiro. « Tu hai mangiato? »  La osserva e vorrebbe correre verso di lei, Lysistrate, ma si limita ad allungare lievemente una mano e ritrarla subito. « Ho mangiato. » mente con il sorriso sulle labbra. « Sei proprio in condizioni pessime, ma sei carina, sai? », ché se qualcuno qualche mese prima le avesse raccontato quella scena mai avrebbe creduto alla dolcezza delle parole appena utilizzate.  « Guarda che la percepisco la "paura" che io scopra che stai mentendo. » percepisce pure la voglia di avvicinarsi e toccarsi, pur senza capire dove finiscano i sentimenti di Lysistrate e dove inizino i propri. Si china e scarta il muffin, che divide in due esatte metà: diventa difficile incartare quella rimanente con quella destinata a se stessa in mano, ma riesce e poco dopo è di nuovo in piedi, soltanto mangiucchiante. « La senti la puzza di Gazza? Non me la toglierò mai di dosso. Ho trovato una cosa interessante, però. »  La guarda, la grifondoro, e riesce solo a pensare a quanto sia bella e quanta voglia abbia di proteggerla dal mondo intero e, forse, anche da se stessa. « Ho altri due muffin qui, mangerò anche quello di Lorcan, magari così mi starà più simpatico. », perché tanto non ha senso mentire. « Sì, maledetto fiuto da lupo, te la sentirò addosso per giorni interi. Uh, cos'hai trovato? » Senza rendersene conto un passo verso di lei lo fa, poi si blocca, tremendamente spaventata dall'idea di aver esagerato.  « Mi vuoi dire che io ho compiuto la missione impossibile di dividere il muffin a metà e tu ne avevi altri due a portata di mano? I miei talenti impiegati per l'inutilità. » passa il dito sull'angolo delle labbra per togliere di lì qualche briciola birichina. Nota il passo avanti e resta ferma, nonostante il capogiro venga enfatizzato da quel gesto. « Un tamburello. » il tono le esce appena provato, sebbene abbia cercato in tutti i modi di concentrarsi soltanto su se stessa e di respirare profondamente. « Credo che lo ruberò. »  « Te l'ho anche detto prima, non mi presti abbastanza attenzione, signorina. » ride e non può fare a meno di restare incantata dal movimento delle sue falangi sulle labbra. Nota la fatica di Eden e si allontana ancora. « Scusami, non volevo, dimmi ─ dimmi cosa posso ─ cosa devo fare. »  « Veramente me lo hai detto prima? » è sconvolta, sul serio non ricorda niente e per una che ama vantarsi della propria memoria è, beh, terribile. Ma mai quanto la sensazione che sta provando. « Temo di dover chiudere nuovamente la porta. » e sbuffa, arrabbiata con se stessa e l'incapacità del momento.  « Veramente. », le risponde con tono morbido e si allontana ancora. Una volta che la porta si richiude Lysistrate si allontana ancora, quanto le basta per odiarsi per qualche secondo, riprendere a respirare piano e poi tornare verso la porta. Si siede con la schiena aderente al legno. « Sei la creatura più forte che io conosca e io credo di 𝐚𝐦𝐚𝐫𝐭𝐢 con tutta me stessa e te lo dico dietro una porta, da codarda, perché è inutile che stia zitta, tanto te ne accorgeresti lo stesso e ─ giuro che se lo userai contro di me dirò a tutti che sei una finta bionda.» e si lascia scappare una risatina di liberazione.  Poggiata al legno spesso con la nuca, Eden si concede di chiudere gli occhi, ché magari così regolarizzare il respiro sarebbe risultato un po' più semplice e utile al fine di tranquillizzarsi. Di norma gestire le emozioni di una sola persona sarebbe stato spontaneo, eppure il 𝘣𝘰𝘰𝘮 improvviso del pomeriggio l'ha devastata al punto di compromettere pure quella gestione tanto semplice. Spera che il tutto si risolva quanto prima, altrimenti sì che sarebbero stati giancarli senza zucchero. Sente il rumore di Lysistrate che si siede, allora la imita e pian piano scivola col sedere sul pavimento inquietante, le gambe necessariamente piegate in una posizione scomoda a causa del poco spazio. Se lo sarebbe dovuta scegliere decisamente meglio, il nascondiglio. Così come avrebbe voluto ribattere che no, lei non è forte nemmeno la metà della Tsopei (lo pensa davvero, non è per cortesia!), se soltanto la ragazza non avesse poi continuato a parlare. Buffo modo di dichiarare il proprio amore, senza ombra di dubbio. « Però hai detto "credo". » puntualizza, un sorriso che un tempo sarebbe stata una smorfia di terrore subito seguita da una fuga (chissà dove, poi, intrappolata come un sorcio com'è). Ha ancora un po' il terrore di tali parole e dichiarazioni importanti, ma sta scendendo sempre più a patti con la consapevolezza che, beh, Lysistrate valga il rischio e l'impegno, addirittura qualche attimo melenso. « E ti devi trovare un'altra minaccia, ormai tutti lo sanno. »  Sorride chiudendo gli occhi contro la porta e sentendo le parole della maggiore. Il cuore le batte in una maniera spropositata, che non serve nemmeno l'abilità di Eden o l'udito da lupo per percepirlo in quel momento. « Sei una cretina. » e ride, spontaneamente ed in modo così sincero che nemmeno lei ci crede. « Sai, esimia testa di cazzo, non ho mai avuto idea di cosa fosse l'amore, poi c'è stata Thus, lei ha curato le mie ferite, mi ha amata, non ha mai avuto paura di me. Mai. Mi ha insegnato cosa sia l'amore di una famiglia e a fidarmi, per la prima volta, di qualcuno. Però, prima di te, non avevo idea di cosa fosse l'amore romantico, che forse alla nostra età è anche giusto che sia così, ma tu hai stravolto tutto. E ti odio. E mi fai essere così gelosa e poi melensa e ─ mi sento ridicola e a volte ho paura, ma quello che provo per te abbatte tutto. E, credimi, quando ti dico che tu sei la creatura più forte che io conosca, credimi, Eden, ti prego. » Una mano sul pavimento, che si attacca alla porta, perché vorrebbe solo sfiorare la sua.  « Se mi dici che sono una cretina in questo modo, mi viene difficile crederci. » le fanno male le guance per quanto sia prolungato il sorriso, ma non per questo smette: ascolta il suo monologo senza interromperla (ed è molto difficile, considerato quanto le prema sulla lingua il desiderio di una qualsiasi battuta in merito a Dario Cassini, un comico che ha per intercalare proprio 𝘦𝘴𝘪𝘮𝘪𝘢 𝘵𝘦𝘴𝘵𝘢 𝘥𝘪 𝘤𝘢𝘻𝘻𝘰 che le ha attribuito), le dita che alla fine, da sole e inconsapevoli di essere specchio di quelle di Lysistrate, seguono l'istinto di attaccarsi alla porta. « E comunque lo sei davvero. Ridicola, intendo. » il tono non riesce a celare la tenerezza che prova, forse il primo sentimento totalmente suo che percepisce dal 𝘵𝘦𝘳𝘳𝘪𝘣𝘪𝘭𝘦 𝘣𝘰𝘰𝘮. « Perché adesso questo momento non sarà coronato da un super bacio come accade nelle migliori commedie adolescenziali. Ti sembra giusto? » scherza, uno sbuffo di risata a riempire l'attimo di pausa che prende. « 𝐆𝐫𝐚𝐳𝐢𝐞. Potrebbe sembrare il remake della dichiarazione di Marissa a Ryan, ma in realtà sento di dovertelo dire perché so quanto sia difficile per te ammettere queste cose a voce alta e già soltanto questa intenzione mi fa capire quanto ciò che dici sia vero. » Segue un po' di silenzio, il rumore del corpo di Eden che prova a girarsi affinché adesso sia la bocca vicina al legno, quasi come volesse confidare un segreto nell'orecchio di Lysistrate. « Appena recupero la barriera, ti faccio vedere io quanta forza ho. » tono marcatamente sensuale, forse persino seguito da un piccolo ringhio: non ce la fa mai ad essere seria per troppo, del resto.  «D'accordo, d'accordo, studierò attentamente altri modi per dirtelo, mia cara.», una live inflessione sul "mia cara", ride, anche se potrà sembrare un'idiota a ridere e dichiararsi da sola in un corridoio, ma da quando in questa relazione vi è qualcosa di convenzionale? Muove la mano sul legno, Merlino solo sa quanto vorrebbe sfiorarla e accarezzarla in quel momento, un po' si odia per non essere in grado di proteggerla. Il tono tenero con cui Eden le si rivolge la fa sorridere ancora, teme in una futura paralisi facciale di questo passo. « Me ne rendo conto, ci lavorerò su, prometto.» Rimane in silenzio, poi, non si aspetta una dichiarazione a sua volta, da Eden, non è per questo che ha detto ciò che ha detto, ma solo perché si sentiva di farlo. « Beh, ricordiamoci la fine che ha fatto Marissa, vorrei evitare di essere totalmente il suo remake, grazie.» ride e scuote il capo, ché Eden lo sa che quelle parole in realtà hanno tutt'altro valore. Ascolta i rumori dietro la porta e si gira anche lei, come se volesse passare attraverso il legno e andare a baciarla e stringerla a sè. « Ouch, dovrò aspettare molto? Sai la tua audacia mi eccita molto, ora sono curiosa di sapere che effetto avrà su di me tutta questa tua forza. »    Non ha dovuto aspettare molto, 𝘮𝘢 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘢 è 𝘵𝘶𝘵𝘵𝘢 𝘶𝘯'𝘢𝘭𝘵𝘳𝘢 𝘴𝘵𝘰𝘳𝘪𝘢 𝘤𝘩𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘱𝘶ò 𝘦𝘴𝘴𝘦𝘳𝘦 𝘲𝘶𝘪 𝘳𝘢𝘤𝘤𝘰𝘯𝘵𝘢𝘵𝘢.
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Rosso Fuoco (Young!Remus Lupin x Lettore)
Avvertimenti: c’è una parolaccia (forse di più, non ho controllato bene) e c’è una menzione di odio contro se stessi
Richiesta: no, solo qualcosa a cui ho pensato un po’ di tempo fa
Parole: 1626
A/n: spero vi piaccia perché l’ho riscritto tipo un milione di volte lol. ah e poi io immagino Andrew Garfield come il perfetto Remus da giovane, ma voi immaginate chi vi pare obv :)
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Il suo rossetto rosso fuoco, non di certo uno dei più economici, era ben conosciuto ad Hogwarts: ognuno dei ragazzi con cui (T/n) fosse mai stata erano andati in giro per la scuola con le labbra macchiate di rosso.
Forse era il contrasto con il nero dell’uniforme, forse la Grifondoro che era in (T/n) che bramava essere diversa da tutti gli altri, ma quando lo indossava si sentiva coraggiosa, imbattibile, inafferrabile come il vento e semplicemente non poteva immaginare di vivere senza.
La sua relazione con Remus era diventata di pubblico dominio quando, un pomeriggio ventoso di novembre, lei era rientrata nella Sala Comune e poi era entrato anche lui, ovviamente dopo cinque minuti, con del rossetto di un rosso vibrante sulle labbra e sul collo. La Sala Comune si era riempita di fischi e di applausi. Lei si era messa a ridere: adorava essere al centro dell’attenzione, ma non si poteva certo dire lo stesso di Remus. Sì, era tra i ragazzi più popolari di tutta la scuola, ma preferiva starsene sulle sue.  Inutile dire che nel giro di due ore tutta la scuola era venuta a sapere della scottante rivelazione: (T/n) (T/c) e Remus Lupin,- sì, quel Remus Lupin, stavano insieme.
Per i primi mesi si poteva sentire l’allegra fibrillazione nell’aria: per Hogwarts era tutto ancora molto nuovo e (T/n) non poteva evitare di sentirsi un po’ importante quando percepiva gli sguardi della gente sulle loro mani allacciate o sul colletto macchiato di rosso della camicia di Remus. Era una battuta ricorrente nel suo gruppo di amici: dopo ogni volta che stava con lui le sue labbra diventavano sempre più scure di qualche sfumatura e quelle di lei più chiare, come per magia.
Era solo che le labbra di Remus erano sempre così dannatamente attraenti che non lanciargli le braccia al collo, stringerlo a sé e baciarlo fino a ritrovarsi senza fiato era una battaglia persa in partenza.
Era felice, era dannatamente euforica: lo amava da impazzire. Non riusciva nemmeno a rendersi conto che stavano davvero insieme. A volte, soprattutto durante le lezioni, si ritrovava a combattere silenziosamente con se stessa: un po’ di autocontrollo (T/n), si ripeteva continuamente, come un mantra, quando faceva fatica a tenere le mani in tasca.
 (T/n) aveva iniziato ad accorgersi che qualcosa non andava un sabato particolarmente soleggiato di aprile. Era seduta in riva al Lago Nero alla ricerca disperata di un angolo d’ombra: non sopportava stare troppo a lungo sotto la luce diretta del sole. Mentre frugava nella borsa per trovare la crema solare da spalmarsi sul viso che scottava di già, sentì delle ragazze parlare a voce altissima, senza nemmeno curarsi di abbassare il tono.
-È davvero una cosa disgustosa!
-Davvero, non so con che coraggio vada in giro per la scuola con quella puttana.
-Sempre con quel rossetto rosso, ma chi si crede di essere? La regina del mondo?
-Quel Lupin meriterebbe proprio di meglio!
-Ma non si rende conto di metterlo in imbarazzo facendolo girare per la scuola con il suo marchio sul collo, come se fosse una vacca da pascolo?
Il tubetto di crema le cadde dalle mani. Stavano parlando di lei e Remus. Sentì il volto bruciare, e non per la scottatura. Non le era mai nemmeno passato per la testa che a Remus potesse dare fastidio il suo rossetto, o che potesse vergognarsi di farsi vedere marcato di rosso su tutto il viso. Credeva gli piacesse, che facesse parte di quella complicità che si era creata sin da subito tra di loro.
Quel rossetto era una parte di lei, era davvero difficile separarsi da quel piccolo tubetto dorato. La faceva viaggiare fino in Olanda, il paese natale di sua madre che aveva visitato così tante volte, le faceva rivedere il rosso sgargiante dei bellissimi tulipani che costellavano la campagna vicino la casa dei suoi nonni. La stessa, identica, precisa sfumatura del suo rossetto. Ecco perché non se ne separava mai. Non era il coraggio che le infondeva, non era lo spirito ribelle di Grifondoro: era l’unico legame con sua madre, ormai defunta da molti anni, con il paese dov’era nata, con una parte della sua famiglia che era stata spazzata via improvvisamente dalla sua vita. Quel rosso era ricordi, era dolore, era la forza di rinascere dalle ceneri. Quel rosso era lei, e soltanto lei. Non poteva immaginare che non piacesse a Remus, tantomeno che lo potesse mettere a disagio.
Con il viso scarlatto per l’imbarazzo, (T/n) recuperò tutte le sue cose e, trattenendo a stento le lacrime, corse nel suo dormitorio.
 Da quel giorno le cose avevano cominciato a precipitare: sentiva gli sguardi bruciarle la nuca, sentiva i commenti cattivi sussurrati nemmeno così a bassa voce. Era terribile.
Un mattino (T/n) si svegliò di umore particolarmente pessimo: si sentiva svuotata da qualsiasi emozione dopo aver passato tutta la notte a piangere silenziosamente contro il cuscino, pensando a sua madre e a quanto le mancasse e a Remus. Il suo Remus. Come aveva potuto non notare che forse sbandierare il fatto che fosse suo in giro per la scuola poteva effettivamente dargli fastidio? A lui poi, così sempre sulle sue, sempre in disparte, sempre in un angolo. Si sentiva una vera e propria deficiente.
Scendendo le scale fino alla Sala Grande si accorse di come tutti i colori fossero sbiaditi in fretta: i blu sembravano grigi, i gialli apparivano spenti, i verdi non infondevano più la speranza di prima. Per non parlare dei rossi, privati totalmente della loro grinta, della loro forza, ridotti quasi a dei pallidi rosa. Per (T/n) era una vera e propria tortura.
-Ehi (T/n)! Dov’è il tuo rosso?- esclamò James dall’altra parte del tavolo. (T/n) lo fulminò con lo sguardo.
-Stai zitto Potter.-, lui la guardò offeso.
-Cos’è? Siamo regrediti ai cognomi? Andiamo (T/n)...
-Non. Oggi. James!- sibilò sedendosi accanto al suo ragazzo.
-C’è qualcosa che non va?- chiese premuroso Remus, posandole una mano sulla schiena con uno sguardo apprensivo. Lei scrollò le spalle cercando il più possibile di non incrociare gli occhi del ragazzo.
Per tutta la giornata (T/n) fece del suo meglio per evitare i suoi amici e Remus: non era proprio in vena di altri commenti sarcastici sul fatto che quella mattina aveva deciso di non mettersi il rossetto. Il tubetto dorato l’aveva fissata dal suo comodino pregandola di essere indossato, ma lei lo aveva scagliato a terra, rompendolo in centinaia di frammenti e poi, con l’amaro in bocca, lo aveva buttato nel cestino. Non ce la faceva più a sentire i commenti della gente. Non ce la faceva più a stare al centro dell’attenzione. Voleva solo che quella giornata passasse in fretta. (T/n) ripensò a quando percepire gli occhi delle persone addosso la faceva stare bene, la faceva sentire sul limite di un burrone, al sicuro, mentre sorrideva con sicurezza all’oscurità infinita sottostante. Ora voleva solo sentire le braccia del vuoto stringerla forte mentre precipitava.
Stava camminando davanti ad un magazzino delle scope, quando un braccio la afferrò e la trascinò nell’angusto spazio. Si ritrovò con le spalle al muro e il peso di un corpo contro il suo. Due labbra, morbide, familiari, le sfiorarono il collo facendola rabbrividire. Poi, le baciarono il lobo sinistro, poi la mascella e infine la bocca. (T/n) si abbandonò al bacio e sentì piano piano i nervi sciogliersi e la tensione accumulata in quei giorni, in quei terribili, interminabili giorni, allentarsi lentamente.
Dopo diversi minuti, o forse diverse ore, Remus ruppe il bacio.
-Meglio?- chiese spostandole una ciocca sfuggita dalla coda dietro l’orecchio. (T/n) annuì dopo qualche istante.
-Allora mi dici cosa non va? Perché non hai messo il tuo rossetto?
(T/n) sorrise davanti alla sua premura, ma sentì il cuore bruciare.
-Non ti imbarazza farti vedere con il mio rossetto su tutta la faccia?-. Remus sgranò gli occhi, incredulo.
-Imbarazzarmi? No, io impazzisco quando lo metti. Vado fuori di testa, (T/n). Mi piace da morire, pensavo lo sapessi- mormorò prendendole il viso tra le mani.
(T/n) abbassò lo sguardo.
-Tutti a scuola parlano di quanto sia inappropriato e disgustoso… pensavo che tu potessi essere d’accordo.- ammise la ragazza, sentendo la voce spezzarsi.
-Senti, non ti deve importare quello che pensa la gente. Forse non sono la persona adatta per questo tipo di discorso, ma tu sei tu, e io ti amo da impazzire. Non devi cambiare quello che sei. Non sei perfetta, nessuno lo è. E te lo dico io che sono forse l’essere umano meno perfetto al mondo-.
-Non dire così, Rem. È solo che… non so…
Una lacrima solcò la guancia di (T/n) e Remus la baciò.
-Volevo dartelo al tuo compleanno, ma...- tirò fuori dalla tasca un pacchetto. (T/n) lo guardò con la fronte aggrottata.
-Aprilo.
(T/n) fece come le era stato detto. Quando tolse il coperchio alla scatola rimase col fiato mozzato. Un tubetto di rossetto nuovo di zecca. Un’altra lacrima le bagnò il viso.
-Rem...- riuscì a dire. Non aveva idea di come spiegare cosa quel gesto significasse per lei. Remus riusciva a capirla così bene, senza che lei dovesse dire nulla, e lei gliene era infinitamente grata.
Lui scrollò le spalle:-Mettilo, dai.
(T/n) aprì il tubetto e poi, con grande calma, si passò il rossetto sulle labbra un paio di volte. Si sentiva rinata, un’altra persona. Il viso di Remus s’illuminò nel vederla così. (T/n) non riuscì a tenere le mani al loro posto: il sorrisetto compiaciuto che increspava le labbra del ragazzo davanti a sé era irresistibile. Gli lanciò le braccia al collo e lo attirò verso le sue labbra.
Qualche interminabile ora dopo, (T/n) e Remus fecero i loro ingresso nella sala comune, con le mani allacciate. (T/n) con le labbra di un pallido rosa, Remus macchiato di un acceso rosso pompeiano dal viso al colletto della camicia.
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giancarlonicoli · 4 years
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20 GEN 2020 13:40IVA ALL'80 (OGNI ANEDDOTO È UN ROMANZO) - ''MI PENTO DI ESSERMI RIFATTA IL NASO E DELLA COPERTINA DI 'PLAYBOY'. TELEFONAI ALL’UNICO GIORNALAIO DI LIGONCHIO SCONGIURANDOLO DI NASCONDERE TUTTE LE COPIE: MIA MADRE MI AVREBBE RIEMPITA DI BOTTE. MENÒ MIA SORELLA PERCHÉ…'' - ''SONO ENTRATA IN POLITICA PER VENDICARE MIO PARE. SI CANDIDÒ E PRESE UN SOLO VOTO, IL SUO. NEANCHE QUELLO DELLA MOGLIE. LA PRESE PER IL COLLO E LEI... - WALTER CHIARI MI DISSE 'STASERA NOI DUE FACCIAMO L'AMORE'. PENSAVA MI OFFENDESSI''
Aldo Cazzullo per il ''Corriere della Sera''
Il naso di Iva Zanicchi.
«Dopo due femmine, mio padre Zefiro voleva il maschio. Arrivai io. Per tre giorni rifiutò di vedermi. Poi scoprì che ero identica a lui. Le mani, i piedi, il sorriso. Il naso».
L’aquila di Ligonchio.
«Le mie sorelle mi chiamavano Pinocchio. Un complesso terribile. Lo superai solo quando cantai a Sanremo Zingara, con i capelli raccolti in una treccia e il naso bene in vista. Solo allora me lo sono rifatto».
Soddisfatta?
«È una delle due cose di cui mi pento nella vita. Mi sono amputata una parte di me. Un pezzo della mia identità».
L’altra cosa?
«Quando prima di compiere quarant’anni posai nuda su Playboy. Vidi la copertina e fui presa dal panico. Telefonai all’unico giornalaio di Ligonchio scongiurandolo di nascondere tutte le copie: mia madre Elsa mi avrebbe riempita di botte».
A quarant’anni?
«Se è per questo, mamma picchiò mia sorella Maria Rosa il giorno delle nozze: non voleva più sposarsi».
La convinse?
«Mia madre pesava 114 chili ed era convincente».
Lei, Iva, è nata in questi giorni, ottant’anni fa.
«L’inverno del 1940 fu il più nevoso della storia. La strada per Vaglie di Ligonchio, il paese di mamma, mille metri sull’Appennino, era bloccata. Che poi non era una strada ma una mulattiera. Nonno Adamo scese in slitta a prendere l’ostetrica, detta e guff, il gufo, perché era così brutta che i bambini appena messa fuori la testina non volevano più uscire. Ma e guff si rifiutò di mettersi in viaggio sotto la neve».
E sua mamma?
«Fece tutto da sola. Stava mungendo le mucche. Sono nata in una stalla: come Gesù. Non escludo che mi abbia deposto nella mangiatoia».
Il suo primo ricordo?
«Pippo. L’aereo che andava a bombardare la centrale elettrica. Scappai di casa per vederlo. L’aviatore mi fece un cenno di saluto, che ricambiai. Poi lo raccontai a mamma. Che mi riempì di botte».
E suo padre?
«Era prigioniero dei tedeschi, in un campo vicino a Dresda. Tornò che pesava 40 chili. Io mi ero immaginata un eroe: vidi uno scheletro che aveva un piede in una scarpa rotta e l’altro in uno zoccolo. Rimasi delusissima. Piansi per due notti: anche perché prima nel lettone con la mamma dormivo io, e adesso dormiva lui. La terza notte arrivò da me con una carta da zucchero, piena giustappunto di zucchero: “Questo è per te, non dirlo alle tue sorelle” mi sussurrò. Da quella notte fu il mio babbo».
A lungo gli Imi, gli internati militari in Germania, non trovarono il coraggio di raccontare quel che avevano subito.
«Anche mio padre all’inizio non ne parlava mai. Poi ci disse che stava morendo di fame, ed era uscito per scavare qualche patata. Fu bastonato a sangue e condannato a essere fucilato il mattino dopo. La notte un vecchio riservista lo nascose e gli salvò la vita. Capii che mio padre era davvero un eroe. Lo scrissi in un tema. Il maestro mi rimproverò: per lui esistevano solo i partigiani. Ma anche quella di mio padre e degli altri prigionieri fu Resistenza».
E i nonni?
«Il nonno paterno, Antonio, era andato in America a cercare fortuna. Tornò più povero di prima. Faceva il boscaiolo nel Montana; arrivò la grande crisi del legname. L’altro nonno, Adamo, aveva fatto la Grande Guerra. Sua madre, Desolina, aveva un’osteria e una voce potentissima, da soprano drammatico: venivano dai paesi attorno per ascoltarla. Una domenica arrivò uno da Parma che voleva portarla in città a studiare canto e a conoscere Verdi, che era ancora vivo. Il suo fidanzato, mio bisnonno Lorenzo, per gelosia si oppose. In cambio lei si fece sposare. Morì cantando come un usignolo».
Che nome è Desolina?
«In paese non c’era un nome da cristiano. Una ragazza si chiamava Brandina. Un’altra Nicola: quando obiettarono al padre che era un nome da maschio, rispose che finendo per “a” doveva essere per forza un nome da femmina. Mio zio si chiamava Pronto, anche se tutti lo chiamavano Veraldo: che non era granché, ma era pur sempre meglio di Pronto. Mia zia Argentina chiamò le figlie Italia e Emilia. In compenso tutte le donne del paese avevano voci bellissime. In chiesa era commovente sentirle cantare, senza musica, in modo celestiale».
E lei?
«Io avevo una voce un po’ mostruosa, da contralto. Il prete mi sgridava: Iva canta piano, che copri gli altri bambini».
È vero che da piccola rischiò di morire?
«Avevo la febbre a 42 per un ascesso. Le zie tentavano di consolare mia madre: “Iva non ce la farà, ma avremo un angelo che pregherà per noi in paradiso…”. Sentii e feci il gesto dell’ombrello. Altro che angelo…».
La sua carriera comincia con il Disco d’oro di Reggio Emilia.
«Lì conobbi Gianni Morandi, che era fuori concorso perché troppo giovane, e una ragazza che portava un cappellino con veletta: Orietta Galimberti».
Orietta Berti?
«Lei. Insieme cantammo a Sala Baganza, Parma. L’impresario ci fece uno scherzo feroce: disse ai musicisti che in camerino c’erano due entraineuse a disposizione, Orietta e Iva. Entra il pianista, mi chiede “tu sei Orietta o Iva?”, e mi scaraventa sul letto. Scoppiai a piangere: “Allora aveva ragione mamma, a dire che le cantanti sono tutte puttane!”. Lui ci rimase malissimo. Si chiamava Angelo. Diventò il mio primo fidanzato».
Fu la sua prima volta?
«Niente sesso. Mamma non voleva. Persi la verginità a 27 anni, con l’uomo che ho poi sposato: il figlio del proprietario della casa discografica Ri-Fi».
Fu alla Ri-Fi che incontrò Mina?
«Più che Mina, incontrai la sua scia. Una volta le vedevo le gambe, l’altra volta la nuca. Era già una star; eppure non mi ha mai potuto soffrire. Un anno Mina era in Messico, e Antonello Falqui mi propose di aprire Studio Uno con una canzone, subito dopo Carosello: una roba da 25 milioni di spettatori. Mina interruppe la tournée e si precipitò in Italia: “Se prendete quella ragazzotta, perdete me”. Mi cacciarono».
Ma lei cosa pensa di Mina?
«Tecnicamente è stata la più grande. L’ho sempre ammirata ma non l’ho mai temuta: quando dovevo aprire l’ugola dal vivo, non ce n’era per nessuno. Così, quando mi proposero un duetto con lei al Lido di Venezia, accettai subito. Mina rifiutò. Fui sostituita da Claudio Villa».
Con Claudio Villa lei vinse il suo primo Sanremo, nel 1967.
«Ricordo ancora le urla: “Si è ammazzato Tenco!”. Preparai la valigia: ero convinta che avrebbero sospeso il festival. E avrebbero dovuto farlo. Una rivista mi propose la copertina, se fossi andata a deporre rose rosse sulla sua tomba. Li mandai a quel paese».
E Ornella Vanoni?
«Ogni volta a Sanremo trovava il modo di gettarmi nel panico. Stavo per salire in scena e mi faceva: ma come ti hanno truccata, ma quanto ti sta male quel vestito… A me però è sempre stata simpatica».
Nel 1969 lei rivinse con Zingara.
«Oggi mi farebbero cantare: “Prendi questa mano, rom…”».
Perché ha fatto politica?
«Per vendicare mio padre. Si candidò per il Psdi: prese un solo voto, il suo. Neanche quello della moglie. Lui la afferrò per il collo, furibondo. Lei rispose: “Non posso andare all’inferno per colpa tua!”. Il parroco le aveva prospettato le fiamme eterne se avesse votato, non dico comunista, ma socialdemocratico».
Come ricorda il primo incontro con Berlusconi?
«Mi avevano offerto un sacco di soldi per condurre una trasmissione. Rifiutai. Mi invitò a casa sua. Andai in bicicletta — abitavo già qui a Lesmo, vicino ad Arcore —, decisa a chiedere il triplo. Mi portò in un teatrino con il pianoforte. Pensai: ora mi tocca cantare. Cantò lui, per un’ora. Mi affascinò. Parevo Fracchia. Firmai alla cifra che mi avevano proposto».
È rimasta celebre una telefonata di Berlusconi mentre lei era in tv da Gad Lerner: “Iva, si alzi ed esca da quel postribolo!”.
«Quella sera tutti attaccavano Silvio, e io lo difendevo. Ma quando Lerner mi chiese della Minetti, risposi che di lei non mi importava nulla. Berlusconi non stava guardando; la Minetti purtroppo sì, e lo avvisò. Così lui fece quella scenata. Ovviamente rimasi in studio. Qualche giorno dopo ci fu una festa di Forza Italia. Le donne mi guardavano con disprezzo: “Tu cosa ci fai qui? Non ti vergogni?”. Silvio invece mi abbracciò: “Iva, come mi difendi tu non mi difende nessuno!”».
Cosa dovrebbe fare ora?
«Liberarsi da molte delle persone che lo circondano. Parlargli è diventato impossibile. Oggi per me Berlusconi è Piersilvio. Che si sta dimostrando un bravissimo imprenditore».
Come finisce in Emilia?
«Tutti dicono che vincerà la destra. Ma io conosco gli emiliani. Certi contadini hanno ancora il ritratto di Stalin. Secondo me alla fine la sinistra tiene».
Lei per chi voterebbe?
«Io di sinistra non sono, ma guardo le persone. Ho visto in tv la Borgonzoni e non mi è piaciuta. Questo Bonaccini ha governato bene. Perché non riconfermarlo?».
Di Salvini cosa pensa?
«Tutti lo accusano di essere un fannullone. Ma io me lo ricordo a Strasburgo: votava al mattino, andava a fare un comizio in Lombardia, e il mattino dopo era di nuovo lì».
A dire il vero era un noto assenteista.
«È una persona di cuore. Molto affettuoso con i figli: li portava pure al Parlamento europeo, ce li mostrava orgoglioso. Certo, a volte è un po’ eccessivo. Ma l’immigrazione va regolata».
È vero che lei è stata in tournée in Iran con Lando Buzzanca?
«Lui era un divo. Ma la vera star era Moira Orfei, amatissima dagli iraniani, che adorano il circo. Erano gli ultimi giorni del regime, l’impresario sputava sul ritratto dello Scià. Me ne andai in tempo. Moira Orfei rimase. Scoppiò la rivoluzione e perse il circo».
E Walter Chiari?
«Partiamo in tournée nel 1974 e lui mi fa, con il tono con cui si chiede un drink: “Stasera noi due facciamo l’amore”. E perché? “Lo faccio con tutte le attrici. Così si crea una sintonia e lavoriamo meglio”. Dissi di no. Lui si stupì molto: “Sia chiaro però che te l’ho chiesto!”. Pensava mi offendessi. Quella sera ci raggiunse sua madre, una vecchiettina molto simpatica: “Gli hai detto di no al mio Walter? Brava! Finalmente una brava ragazza!”. “Avrà mica parlato con mia mamma?”. “Certo che ho parlato con tua mamma!”».
Si racconta di un suo flirt con Alberto Sordi.
«Mi telefonava a ogni compleanno per farmi gli auguri. Quando facevo Canzonissima, ogni sabato sera mi mandava i fiori con un biglietto carino. Poi mi invitò a Bologna per fare da madrina alla prima del Presidente del Borgorosso football club; il padrino era Beppe Savoldi, il centravanti. Morivo di vergogna: tutti pensavano che fossi l’amante di Sordi. All’epoca ero astemia; quella sera comincio a bere. Mi ritiro in camera, sento bussare: è Alberto, che mi invita nella sua suite. Ci vado. Inevitabilmente lui mi sbatte sul letto; ma non riesce a slacciarmi il vestito, attillatissimo. “Vado di là a spogliarmi” gli sussurro; e fuggo».
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iosonoandromaca · 5 years
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Diario di Scozia - 04-14 gen 2019
“Basta! Adesso prendo e mollo tutto per un po’! Sì, vabè ma il lavoro… Ok magari stacco un paio di giorni e vado via...”. Non so voi, ma io è una cosa che penso spesso. Ma troppe volte si resta lì ad affogare in una situazione ormai marcia e stantia, senza fare assolutamente niente. Sembra un’azione così banale, prendere stacazzo di maniglia ed uscire dalla porta. E respirare. E stare meglio. E fallo, no?
Qualche settimana fa, mentre tutti come al solito si lamentavano di ingrassare per le feste di Natale, io decidevo di dare un bello scossone a sta mia vita, degno di un colpo di reni alla John Cena! “Ok abbiamo due settimane di libertà, che si fa?” Interrail? Ok giovani, però... UK tour? Troppo poco tempo. Chioggia on the boat? Rosolina mare? Scozia? SCOZIA? Scozia! Ma on the road per le Highlands e l’isola di Skye: totalmente into the wild. Così io e la mia compagna di viaggio @chiara, per un fortuito allineamento dei pianeti non previsto da Paolo Fox, siamo riusciti a partire in modo quasi improvvisato e apparentemente disorganizzato, decidendo il tutto in quattro miseri giorni e con la disincantata idea di sfruttare a pieno il couchsurfing! (se…)
Proviamo a raccontarlo qui, anche per far contenti alcuni amici che ci hanno detto di voler replicare il viaggio. Ebbene, lungi da voler essere una guida al viaggio last minute & low cost nei migliori luoghi della Scozia, ma solo una sorta di mini diario di bordo ordinato con un paio di dritte, di aneddoti e di luoghi pazzeschi… ecco allora “PARTIRE PER 10 GIORNI IN SCOZIA IN UN VIAGGIO ON THE ROAD ALL’IMPROVVISO DI CUI SENTIVAMO TROPPO IL BISOGNO”!!
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GIORNO 1 - EDINBURGH
Il titolo precedente dice già tutto. L’idea era di girare la Scozia in auto in mezzo a terre incontaminate, dunque le città sono state effettivamente prese poco in considerazione. Edimburgo, obbligatorio punto di partenza causa aereo e noleggio auto, non possiamo dire di averla vissuta a pieno, ma il Castello di Edimburgo è un buon inizio per intraprendere un viaggio in una terra che vanta un passato epico. (Se avete Netflix, godetevi The Outlaw King prima di partire: qui in Scozia, come fama, Robert the Bruce è secondo solo a William Wallace!).
Consigli utili a caso:
Culton Hill andate a vederla di giorno. Stupendo lo skyline della città dall’alto di sera, ma di giorno (e magari col sole in una bella stagione) è tutta un’altra cosa!
Tornando fermatevi al cimitero, è per strada! Ecco, quello sì fatelo quando è buio! ;)
C’è un tour gratuito per la città attraverso i luoghi legati a Harry Potter e la Rowling: non fatelo! Perdita di tempo inutile, trovate le stesse cose su Wikipedia e non vi mostrano nulla. Sad story.
Per il resto... chi ha detto che sono una guida? Ci sono una montagna di siti utili nel web! (Visitscotland secondo noi è stato il migliore!)
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GIORNO 2 - HELIX PARK / STIRLING CASTLE / PERTH
Sveglia all’alba per andare a prendere l’auto in aeroporto, noleggiata ancora prima di alberghi e ostelli. Che bomba una Ford Fiesta a 34 € + 75 di assicurazione per tutti e 10 giorni. Grazie rentalcars! Peccato che nessuna della nostre carte di credito venisse accettata. Con non pochi problemi riusciamo a risolvere, ma chiaramente a prezzi meno accessibili. Se vedete offerte di auto da noleggiare a pochi soldi, meglio diffidare, specie se l’idea è farsi un viaggio che richiede l’auto per i grandi spostamenti (il limite di miglia giornaliere può essere un grosso problema e finireste per pagare lo stesso prezzo di una compagnia non lowcost).
Il primo impatto con la guida al contrario è terribile, poi ci fai la mano. E finalmente posso prendere una rotonda a sinistra senza il rischio di schiantarmi. Ancora però non capisco perché, se la guida è a specchio, il cambio è come il nostro: a me risultava storto, vabè.
Prima tappa del viaggio è all’Helix Park, nel distretto di Falkirk, per vedere i Kelpies, due sculture a forma di gigantesche teste di cavallo, o meglio, di “Kelpie”, lo spirito dei laghi che nel folklore celtico assume la forma di un enorme cavallo bianco. Di grande impatto durante il giorno, ma dicono che di sera queste teste di 30 metri siano rese magnifiche da giochi di luci e colori. Just to let you know!
Il castello di Stirling è quello dove sono stati incoronati la famosa Maria Stuarda (c’è un film nelle sale, ma non mi pagano per dirvelo), gli Stewart e altri re di Scozia: imponente e tenebroso, da fuori è di forte impatto, se in più ci mettete anche i giardini curatissimi, la vista dell’enorme cimitero dall’alto e una splendida giornata uggiosa, è il top. Dentro, personalmente, lascia un pelo a desiderare: molte stanze completamente vuote (e ci sta), altre invece con ricostruzioni, allestimenti e stendardi un pelino pacchiani. Degustibus! Però da vedere. Lì fuori c’è la statua del Bruce, poco lontano il monumento a William Wallace, che però abbiamo deciso di non vedere (errore!), preferendo dirigerci invece a Perth, paesino di poche anime che non c’entra nulla con quello in Australia e che ci aspettava per il nostro appuntamento col destino infausto, oltre che con il primo hotel.
Sì perché di Perth non abbiamo molto da dire, se non che è stata una destinazione obbligatoria per dormire e ripartire per le highlands, che in inverno (bassissima stagione!) è praticamente tutto chiuso tranne un adorabile locale che fa musica live e open-mic dalle 4 del pomeriggio (dove si mangia il miglior toast con tacchino e marmellata di mirtilli della Scozia!) e che vabè, abbiamo fatto un incidente stupidissimo in un parcheggio stupidissimo. Stai te due ore al telefono a spiegare ad una tipa dal marcato accento scozzese tutta la dinamica dell’accaduto… Primo giorno andato, finiti, dormito mille mila ore e ricaricato le batterie per l’indomani: Dunnottar Castle, Cairngorms National Park e Inverness!
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GIORNO 3 - DUNNOTTAR CASTLE / CAIRNGORMS NATIONAL PARK / INVERNESS
Il castello di Dunnottar è magnifico! Prima di addentrarci nelle Highlands ci siamo catapultati sulla costa orientale scozzese, direttamente sul Mare del Nord, per vedere questa fortezza sopra il suo personalissimo promontorio a strapiombo sul mare. Descriverla a parole non è facile e anche le foto non danno il giusto merito ad un luogo che toglie il fiato. Andateci! Fine. Mettete che poi siete amanti del fantasy o di racconti epici, questo posto (come tutta la Scozia) fa per voi! (ehm, sì, ogni tanto ci scappava di canticchiare la sigla di game of thrones o la musica della compagnia dell’anello…sì, nerd).
All’arrivo a sud di Stonehaven ci accolgono sole e cielo limpido su quella che è finalmente la prima visione del mare aperto. Non importava quanto quel sole o quel cielo limpido fossero ingannatori e tirasse un vento della madonna: avevamo finalmente raggiunto il mare. In un momento di frenesia e di stanchezza post-auto, sbagliamo strada ma ne approfittiamo per fermarci e ammirare l’orizzonte, senza immaginare che arrivati sul percorso del castello ci avrebbe atteso qualcosa di molto di più. Dunnottar è alla fine di una strada secondaria raggiungibile in auto, poi un sentiero a piedi che si affaccia direttamente sul mare, vi porterà al cospetto di questa fortezza, prima scendendo verso una spiaggia, poi risalendo dentro le mura. Non potevamo trovare giornata migliore: la roccia risplendeva, l’erba nel giardino aperto del castello era tirata a lucido e, dalle finestre di pietra, il mare gelido e calmo lì fuori provava ad apparire stronzo, ma tanto noi ce n’eravamo già innamorati. Nella top 5 del nostro viaggio, Dunnottar c’è, senza alcun dubbio.
Prendiamo tre panini nel chioschetto ambulante al parcheggio (da provare  l’hamburger con l’angus: un petardo!) e dopo il consiglio del cuoco sul mettersi subito in viaggio prima di trovarci in mezzo alla tempesta in arrivo, partiamo per attraversare il Cairngorms National Park: destinazione Inverness prima del buio. Guardando Google Maps, uno sano di mente si chiederebbe perché non abbiamo scelto la superstrada verso nord, più veloce e meno impervia. Ma se amate gli agi e non vi va di perdervi neanche un pochino, “fuggite, sciocchi!” e prenotate le vacanze a Riccione!
Il Cairngorms Park inizia soft, con un paesaggio di campagna e boschetti che pare di essere in Toscana. Poi inizia il bello: colline, sentieri, mucche, tornanti, montagne, ruscelli, cavalli... gnomi! Di tutto. Per quanto ci abbiamo trascorso tre ore sempre in auto e quasi senza sosta, nel parco ci siamo solo passati di striscio. Io guidavo, @Chiara se la faceva addosso per le strade in salita, quelle in discesa e pure quelle in piano... Quindi troppe poche foto per quest’area enorme e incontaminata. Però credo che sia necessario, prima o poi, prendersi alcuni giorni per girarla a piedi e perdersi un po’. Solo superato il timore di girare in luoghi sconosciuti con buio pesto e temporale, ci siamo resi conto delle meraviglie che abbiamo sfiorato, nel buio delle 4 del pomeriggio (già…), sotto la pioggia “fina fina che ti punge”.
Con il mio copilota che tira un sospiro di sollievo raggiunta la prima strada degna di questo nome, si prosegue in direzione Inverness. Definita la capitale delle Highlands, la città ci sembra interessante, ma anche stavolta non ci attende un giro turistico: avevamo altri piani. Per la nostra quarta notte siamo felicissimi di sfruttare finalmente il couchsurfing, il servizio che ti permette di alloggiare a casa di perfetti sconosciuti che mettono a disposizione un letto, un divano o quello che di meglio hanno sul pavimento, in cambio di una buona compagnia. Osayd, un tipo indiano gentilissimo, ci aspetta in casa, alla fine di questa via deserta nella trascurata periferia della città. Ad accoglierci è una splendida bimba di due anni immersa in un salotto travestito da sala giochi: cartoni animati, musiche, pelouche e giocattoli colorati ovunque. Dopo un po’ di chiacchiere in divano su quanto bella sia la politica italiana, ci porta finalmente in cucina per la cena... risvegliandoci bruscamente da quel sogno di viaggio avventuroso di giorno e confortevole la notte! Ecco, se pensate che la cucina di casa vostra sia un lerciume dopo una cena goliardica con gli amici nel periodo natalizio, quella di Osayd era un incrocio tra un laboratorio abbandonato in cui era esploso un prodotto chimico e una fattoria poco curata durante una giornata afosa d’estate. No, non sto esagerando. Meglio non star qui a soffermarsi sul nefando pavimento in cui soggiornavano da tempo cibi non più definibili che trovavano nuova dimora sotto ai nostri piedi. O la tanica di benzina utilizzata per l’olio d’oliva per condire la pasta da noi preparata, ovviamente scampata dall’essere cotta dentro il bollitore dell’acqua per il the. Al di là di  questo (e della camera di cui non parleremo!), la sua ospitalità è stata sconvolgente, avrebbe potuto anche regalarci il suo cuore, se avesse potuto servire a farci passare una notte serena. Comunque, partenza prima dell’alba, spesa al supermercato, colazione in auto. Piove ed è ancora buio. Ma siamo felici. Tanto. Qualche ora dopo ci saremmo detti che anche quello era parte dell’avventura e che l’avremmo ricordata con un pensiero più vivo, nel tempo a venire.
Next destination: Portree, sull’Isola di Skye, costeggiando il lago di Loch Ness e passando per il Castello di Eilean Donan. In viaggio, sotto cieli perfetti.
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GIORNO 4 - LOCH NESS / EILEAN DONAN CASTLE / ISLE OF SKYE - PORTREE
Dopo una notte come quella passata, vedere l’alba sul lago di Loch Ness è stato un regalo. Trovare poi lungo la strada delle scale che portavano direttamente sulla riva del lago silenzioso, lo è stato ancora di più! Ci prendiamo questi meritati attimi di ricarica, facendo il pieno a pieni polmoni per tutta la giornata. Lo scenario è immobile, fermo nel tempo e avvolto in un surreale filtro trasparenza. Nella speranza di trovare Nessie a fare colazione, ci fermiamo ancora, un po’ più avanti. La aspettiamo. Non c’è. Ripartiamo.
Da metà strada in direzione Eilean Donan Castle, il mio copilota @chiara si mette alla guida e io mi godo finalmente il panorama con occhi spalancati. Nonostante la classica preoccupazione-clichè che normalmente l’uomo prova verso la compagna che si mette al volante, lei se la cava alla grande! Strade lisce che scivolano tra i boschi e grandi valli con brughiere e fiumi a specchio ci abbracciano, mentre ci spingiamo verso la costa ovest della Scozia.
Arriviamo finalmente nei pressi di Eilean Donan costeggiando il Loch Duich, il lago che sfocia poi nel mare dell’Inner Sound (innamorato di questi nomi!).
Difesa contro i vichinghi e rifugio di Robert The Bruce, il castello interrompe i riflessi cristallini del lago, sorgendo su una piccola isola raggiungibile solo da un ponte di pietra con tre grandi archi. Lo troviamo chiuso al pubblico per lavori in corso (ma se ci andate da aprile in poi sarà aperto). Ci prendiamo un tempo indefinito seduti lungo le mura del castello, nel silenzio rilassato e solenne del lago che ci circonda. Ogni tanto ci si guarda, e senza troppe parole proviamo a renderci conto di che viaggio pazzesco stiamo facendo e di come non poteva capitare in un momento migliore.
Ripartiamo, direzione Isola di Skye, la meta che più aspettavamo in questo viaggio! Ci attendono 3 giorni surreali.
“C’è un ponte enorme da attraversare in auto per arrivare sull’isola, lo sai vero?.
“Sì ma facciamo cambio e guidi tu, che io ho paura, ok?”
“Certo!”
Troppo tardi, ci siamo già sopra…Le mani sudate sul volante di lei, il mio entusiasmo ad occhi sgranati: “il respiro profondo prima del balzo”! Ci siamo: ci guardiamo e cazzo se siamo felici come dei bambini! Mentre ululando e ridendo fortissimo raggiungiamo quella che si prospetta già essere la terra che ci toglierà di più il fiato.
Il viaggio in cui si abbandona ogni possibile rimasuglio della veste da turisti e si diventa avventurieri insieme ha inizio.
Siamo su Skye.
The Old Bridge of Sligachan gasa anche solo a sentirne il nome. Dopo un pranzo in stile merenda veneta, ci addentriamo nell’isola in direzione Portree. Il vecchio ponte di pietra lo troviamo completamente per caso, in una vallata all’ombra delle colline Cuillin, e sembra venuto fuori da un libro di Tolkien. Nonostante le sue pietre siano nere e si stagli all’ombra di colline a cono sotto nuvole simili a fumo nero, l’Old Bridge risplende magico su un torrente che attraverso la strada principale. Qui se si prosegue dritti si arriva a Portree, la città principale dell’isola, dove una biondina e il marito fico ci attendono nel bed & breakfast più bello dell’isola. Girando a sinistra dal ponte si arriva invece a Talisker, dove c’è la distilleria di Whiskey più figa della Scozia. Ma non c’è fretta, ci si scalderà i prossimi giorni. L’isola non sembra così fredda, non come il resto della Scozia a gennaio, perlomeno. Anyway, ci sta già scaldando per bene.
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GIORNO 5 - OLD MAN OF STORR / KILT ROCK / QUIRAING / FAIRY Glen (ISLE OF SKYE)
Il vecchio di Storr ci osserva dall’alto. Una scarpinata in mezzo alla natura è ciò che serve per dare una spinta al nostro viaggio.
Per il primo giorno intero nell’Isola di Skye, decidiamo di guidare verso nord est nella penisola del Trotternish, dopo la gordissima colazione che ci hanno preparato al Feochan, dove siamo alloggiati. Qui il padrone di casa è una guida turistica iper sportiva e ci ha prestato la sua guida, il suo librone con le cartine segnate a matita, praticamente la sua bibbia personale!
Lo Storr sembra vicinissimo. Punte di roccia millenarie ci sfidano scrutandoci dall’alto al basso, immerse tra nebbie e nuvole. Siamo qui per questo, daje!
Solo le pecore - ovunque e arrampicate in posti che cosa-ostia-andate-a-farvi-del-male-lì-io-non-lo-so - ci fanno compagnia nell’essere minuscoli in mezzo a questa gigavastità di natura!
Arriviamo in cima: l’Old Man of Storr c’ha migliaia di anni, sto monolitone! Ma comanda sempre lui qui sopra, neanche il vento fortissimo che non ci fa stare in piedi per una foto decente può far nulla. Ci giriamo e dietro di noi… il mare! O un lago o un’insenatura, boh era tutto insieme, tutto troppo bello e da brividi per riuscire a descriverlo. Ci resta addosso tantissimo.
Ci fermiamo al volo alla Kilt Rock, la parete di roccia che si schianta sull’acqua formando davvero pieghe simili a quelle del gonnellino scozzese. Da qui si possono vedere le balene ma… siamo nel periodo dell’anno sbagliato.
Se siete in zona, bella stagione o non che sia, andate alla Blue Skye Gallery, vicino a Staffin. Una piccola casetta lungo una strada deserta si spaccia per galleria d’arte con fotografie e minerali, ma in realtà offre la miglior zuppa e la miglior jack potato con cheddar fuso che io abbia mai mangiato nella mia carriera di mangiatore di schifezze. La nonnina bionda è un amore, anche per i suoi consigli stradali. Per arrivare al Fairy Glen, ci indica la strada che attraversa la zona nord del trotternish, tagliando a metà la penisola. Quello che non ci aveva detto era la non proprio facilità di passare in mezzo a vallate completamente deserte ad una strada (scoscesa), discese, salite e pecore in bilico tra la strada e la staccionata.
Pioggia, stanchezza e un mancato mezzo incidente non ci impediscono di raggiungere il Fairy Glen, una valle che con un po’ più di sole sembrerebbe l’ambientazione di un libro fantasy. Lungo una stradina in mezzo ai boschi, collinette e alberi abbattuti dal vento, un sentiero di fango si inerpica umidiccio su per una collina. Qui si nasconde una valle incredibilmente ferma nel tempo. Al centro c’è una spirale di terra; sopra la spirale dovrebbero esserci delle pietre, a dare vigore e magia al paesaggio. Sarà stato qualche goblin o troll di caverna a toglierle, per rendere questa zona meno magica agli occhi dei turisti, e rimanere celati nel folklore ancora un po’.
Il vento urla forte nei timpani e spinge i nostri giacconi fradici. Si prosegue…
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GIORNO 6 - DUNVEGAN CASTLE, NEIST POINT, DISTILLERIA TALISKER
Sarebbe stupendo parlare del castello di Dunvegan ma… i soliti fortunati nel periodo dell’anno sbagliato: chiuso per manutenzione. Giusto così! Ma voi se siete nei paraggi, andateci! Dato che comunque demoralizzarsi fa schifo, continuiamo sulla strada del castello, inoltrandoci in un bosco per capire dove porta la strada. Poco più avanti, se rallentate e osservate la piccola spiaggia di sassi e alghe sulla destra, potete trovare delle foche! D’estate è un punto in cui magari si incontrano facilmente, ma vederle in questo periodo dell’anno è stata una rivincita su tutti i posti chiusi per manutenzione causa bassa stagione. Stiamo ancora un po’ in silenzio ad osservarle, come loro fanno con noi, fino al momento in cui forse dev’essere arrivata la colazione: uno splash sull’acqua da parte di una e via, tutte giù.
Questo secondo giorno sull’isola è stato il “bastava-solo-spingersi-un-po’-più-in-là day”.
Continuando dopo il castello troviamo un percorso che sguscia in mezzo a una radura con laghetti, foreste e campi lungo la costa: la direzione è Carbost ed è una strada a una sola corsia, non potete sbagliare. Il paesaggio muta in fretta qui. Alla fine della strada una sbarra blocca il passaggio e decidiamo di tornare indietro. Solo dopo avremmo scoperto che più avanti c’era la Coral Beach, una spiaggia bianca di corallo. Babbei, davvero! Magari domani…
L’obiettivo della giornata è arrivare al Neist Point, il punto più ad ovest dell’isola, spingendoci in direzione... Oceano Atlantico!
Vaghiamo a lungo in mezzo a lande incontaminate, grande domicilio di un numero infinito di pecore vagabonde. Glendale e Colbost sono i nomi di alcuni paesini fantasma che attraversiamo, percependo presenze silenziose non stagionali dietro le finestre: il set perfetto per una storia di misteri con kilt e cornamusa.
E poi sbam! Eccola! Vediamo la costa! Parcheggiamo su un piccolo attracco per pescherecci. Due enormi scogliere a strapiombo attorno a noi ma… il faro dov’è, scusa? Cerchiamo in auto, a piedi, il navigatore non va, la cartina diceva di là. Torniamo indietro…
Intanto da un paio d’ore ci rendiamo conto di essere rimasti senza pranzo. Sì, capita spesso se passi per dei paesini fantasma dove non c’è nulla di aperto. Un pubbino, un baretto, una locanda dismessa, un minimarket. Niente. Ci sentiamo come Elio e le storie tese in Baffo Natale, nella disperata ricerca di una qualunque puttanata la sera del 24 dicembre.
Ancora niente.
Decidiamo di andare verso la distilleria Talisker. Sì ok bere, ma c’abbiamo fame, oh. Ci salva solo una rivendita di pesce surgelato e prodotti tipici in barattolo, in cui tentiamo la sorte con una barretta di cioccolato collosa. Ormai il pranzo is the new cena. Un bicchiere di whiskey “Skye” al motto di “the sea is in our blood!” (gente feroce di mare, questa) in distilleria e niente, ormai è già tardi e si ritorna a Portree.
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GIORNO 7 - NEIST POINT LIGHTHOUSE /  PORTREE -  FORT WILLIAM
Oggi si parte per Fort William e si lascia l’isola di Skye. Avremmo solo una mattina di passaggio per attraversare la parte di isola che ci porta alla costa di là, ma...
Niente, decidiamo di tornare ancora al Neist Point per trovare il faro. Ce ne pentiremmo per sempre, altrimenti. Ed è così.
Il panorama toglie il fiato, servirebbe la vista a 360 gradi per goderti tutto! Si sale, si scende, si sale ancora. Il sole non ha proprio voglia di mostrarsi del tutto, ma così facendo ci regala uno spettacolo surreale di raggi che, da una nuvola nero-notte, si tuffano sul mare, placido al primo sguardo, inquieto ampliando i sensi. Le scogliere, giganti, si infrangono su quello che è l’Oceano Atlantico davanti a noi, in cumuli di roccia nera, lavica, granitica. La fase “spiaggia” qui si salta automaticamente, ma è l’Atlantico, cazzo, un bagnetto ci starebbe...
Tutto qua intorno è enorme, imponente. Il mare è solenne. Il cielo grigio e scontroso ne è quasi intimorito. La roccia ci osserva in silenzio, mentre arranchiamo nel nostro sudore scendendo la collina. Finalmente, dietro quella che sembra la rupe dei re del re leone, vediamo nascondersi il faro bianco del Neist Point, abbandonato e tranquillo. Chissà se la sua luce porta ancora speranza a folli marinai inquieti. La osserviamo fermi, da lontano e in silenzio, riempiendoci un’ultima volta gli occhi di questa meraviglia senza tempo. Sarebbe bello conoscerla a fondo, questa eternità fatta di terra e mare. Ma ci limitiamo a proseguire nella scoperta che ci attende, col fiato più corto, sia per fatica che per bellezza.
A sto punto riprendiamoci tutto quello che abbiamo perso ieri! Per strada decidiamo di tornare ancora alla Coral Beach di Claigan. Si lascia la macchina alla sbarra e si prosegue a piedi per un po’, fino ad arrivare ad una spiaggia bianca perfetta per il bird watching. Perdo Chiara per un po’, completamente assorta, ancora una volta, dal mare a cui ha bisogno di star vicina.
Guida lei al ritorno. Qualche canzone in auto, ancora pioggia fina, una sosta ad una cascata qua e là. Lasciamo l’isola alle spalle e torniamo nell’entroterra scozzese, guidando al buio tra i boschi.
Inutile dire che Skye si è tenuta una buona parte del nostro cuore. In alto il bicchiere: a Skye!
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GIORNI 8-9-10 - FORT WILLIAM / LOCH LOMOND / GLENFINNAN VIADUCT / GLASGOW
Gli ultimi tre giorni per poco vincevano la pioggia e la stanchezza. La prima un po’ ci ha rallentato, la seconda no.
La combo maltempo più bassa stagione obbliga un sacco di luoghi a rimanere ignoti a noi esploratori. Volevamo vedere le cascate di Glencoe, addentrarci nel Loch Lomond e andare sul Ben Nevis. Abbiamo optato per altri percorsi, forse per certi versi meno spettacolari di quelli visti fino a quel momento, ma pur sempre top.
Da Fort William scendendo verso Loch Lomond, trovate il Castello di Stalker: è quella figata di torre in mezzo al lago, ma la si raggiunge solo in alta stagione, da un locale che organizza le visite (oppure scavalcando una proprietà privata, come inizialmente avevo pensato io).
Tappa poi alla Saint Conan Kirk e al Castello di Kilchurn (ma solo da lontano, pare lavori in corso...aridaje). Vicino a Oban (a un’ora da Fort William) c’è la locanda Glue Pot con la pentola portafortuna sulla porta d’entrata. Tappa obbligatoria! Già ci eravamo innamorati del Cullen Skink (la zuppa di pesce cremosa con patate, cipolla e haddock! madòò!), ma questa scala le classifiche!
Ci perdiamo un bel po’ into the wild. Poi risaliamo la A82 verso Glencoe: si torna a Fort William, passando vicino alla zona dei laghi del Loch Lomond, tra montagne e cervi in fuga tra i boschi. Questa è una zona dove organizzare assolutamente delle escursioni: se al momento siete rimasti squattrinati come me ma ci volete fare un pensierino fra qualche anno, fatemi un fischio gridando “Aye”!!
Prima di partire per Glasgow si fa tappa al viadotto di Glenfinnan: impossibile evitarlo con @chiara , dal momento che anni fa avrebbe dovuto salire sull’Hogwarts Express per diventare una strega rinomata, ma ha sicuramente perso la lettera di ammissione da qualche parte nella sua macchina disordinata. Sì, il famoso treno di Harry Potter passa per di qua, ma indovinate in quale periodo dell’anno?
L’ultimo giorno lo passiamo a Glasgow, in un alberghetto dismesso a diesci euro a notte, vicino il centro. Il live improvvisato di una band folk al Waxi O’Connor’s è un vivace e malinconico saluto a questa terra magnifica vissuta a mani e cuore aperti. Perché alla fine il viaggio è questo. Una densa zuppa di attimi incredibilmente felici e pensieri distrattamente malinconici.
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Un po’ di tanta strada in auto e un po’ di “abbiamo camminato troppo!”. Un po’ di paesaggi mozzafiato, e un po’ di paesini anonimi. Un po’ di albe e tramonti riflessi su un lago, e un po’ di nuvole scure che accorciano il giorno. Un po’ di ostelli magnifici e comodi, e un po’ di case demmerda dannatamente lerce. Un po’ di colazioni con cose comprate al supermercato e mangiate in macchina, e un po’ di pranzi squisiti coi cibi del posto che fanno bene al cuore. Un po’ di musica a squarciagola in auto, e un po’ di silenzio in cima alla montagna, ammirando la fine del mondo. Questo per me è il viaggio. Questo per me è essere esploratori. E farlo con qualcuno è come partire con le scarpe comode e ben allacciate: puoi andare ovunque.
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aboutmybaby · 7 years
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L'incredibile storia tra John Cazale e Meryl Streep. Nel 1978, la giovane Meryl era sul punto di diventare la più grande attrice della sua generazione ed era anche sul punto di perdere l'amore della sua vita... La Streep aveva 29 anni e viveva in un loft su Franklin Street con il suo fidanzato, l'attore John Cazale: lui aveva 14 anni più di lei ed era già una leggenda tra i suoi coetanei. Al Pacino una volta disse: "Ho imparato di più sulla recitazione da John che da chiunque altro: tutto quello che volevo fare era lavorare con John per il resto della mia vita. Era il mio compagno ideale di recitazione". La Streep e Cazale si incontrarono nel 1976, quando si trovarono uno di fronte all'altra in "Misura per misura" a Central Park. In quel momento Cazale non era una star ma veniva considerato nel settore come un talento raro, talento dimostrato nei pochi film in cui recitò... Fu Fredo in "Il Padrino" e "Il Padrino Parte II", ed ebbe ruoli da protagonista in "La Conversazione" e "Quel pomeriggio di un giorno da cani". Dei cinque film che ha interpretato tutti furono nominati come Miglior Film, e tre di questi vinsero l'Oscar. "Una delle cose che ho amato di John Cazale," disse il regista di "Quel pomeriggio..." Sidney Lumet, "era che aveva una tremenda tristezza dentro di lui. Non so da dove venisse, io non credo nell'invasione della privacy degli attori con cui lavoro e non cerco di entrare nelle loro teste... Ma era lì, visibile in ogni inquadratura". Era conosciuto tra i registi come "20 questions" (20 domande), perché voleva conoscere i dettagli del passato di tutti i suoi personaggi... E poi c'era il suo aspetto insolito, così perfetto per i personaggi disadattati del cinema americano degli anni '70: figura esile, fronte alta, naso prominente e tristi occhi neri. La Streep si innamorò di lui in un istante. Dei due, quello famoso in quel momento era Cazale, ma erano ancora entrambi giovani artisti affamati di recitazione e di fama. Una delle prime cene insieme fu in un ristorante a Little Italy dove il proprietario, intimorito dal fatto di avere Fredo Corleone a cena, volle a tutti costi che mangiassero gratis! "Erano splendidi da guardare perché erano buffi, diversi dagli altri", disse il drammaturgo Israel Horovitz: "Erano belli a modo loro, erano una coppia veramente eccentrica: una di quelle coppie che per strada ti giri a guardare, non perché fossero incredibilmente belli, ma perché... erano loro due". Erano invidiati da tutto il mondo del teatro di New York - lei era l'attrice più talentuosa da generazioni, lui l'attore più dotato, fino a quando arrivò un giorno del maggio 1977: Cazale, che stava recitando l'anteprima di "Agamennone", si sentì male al punto di fermarsi durante le prove... Il regista Joe Papp fece in modo di fargli avere un appuntamento di emergenza con il proprio medico sulla Upper East Side. Pochi giorni dopo, Meryl Streep e John Cazale erano seduti nello studio del medico con Joe Papp e la moglie Gail. La diagnosi: Cazale aveva un cancro terminale ai polmoni. E si era già diffuso in tutto il corpo. Gail Papp disse poi che fu "come venire colpiti a morte sul momento." John rimase in silenzio per un momento che sembrò non finire mai, e così anche Meryl... ma la Streep non è mai stata una che si arrende facilmente e che piega la testa sotto i colpi della disperazione, così ruppe il silenzio e disse: 'Allora, dove andiamo a cena?'" Lui si prese una pausa dalla recitazione mentre lei otteneva la parte da protagonista nel musical "Happy End". La vita proseguiva mantenendo a distanza l'orrore, semplicemente non ne parlavano più di tanto... Anche il fratello di Cazale, Stephen, non si rese conto che la condizione di John era pessima finché un giorno, dopo un pranzo a Chinatown, Cazale si fermò sul marciapiede per sputare sangue. Fu il grande amico di John, Al Pacino, a portarlo alle prime sedute di chemioterapia aspettandolo in sala d'attesa e sperando che stesse meglio di quanto sembrasse. Cazale continuava a rassicurare tutti dicendo che sarebbe migliorato, e cominciò ad insistere per tornare a recitare. Meryl Streep accettò una parte che odiava solo per stare accanto al suo uomo: il film era "Il cacciatore" di Michael Cimino, dove Cazale aveva l'opportunità di recitare al fianco di Robert De Niro. Cimino e De Niro insistettero per avere Cazale nel cast, anche se la EMI, la casa di produzione, voleva licenziarlo: le spese di assicurazione per lui erano clamorosamente alte, e nessuno voleva un film con un attore malato terminale. "Mi dissero che se non mi fossi liberato di John avrebbero chiuso la produzione", dichiarò in seguito il regista Michael Cimino "Fu terribile: passai ore al telefono, urlando e gridando e litigando..." Meryl Streep racconta che fu lo stesso Robert De Niro a coprire personalmente i costi di assicurazione di John Cazale, anche se l'attore non ha mai confermato o negato: "Era molto più malato di quanto pensassimo, ma volevo che fosse nel film" disse De Niro anni dopo. L'attrice accettò di recitare in "Holocaust" solo per poter pagare le spese mediche di Cazale: fu poi il primo Emmy vinto dalla Streep. Era una miniserie TV di nove ore, ma si girava in Austria e Cazale era troppo debole per andare sul set... La sceneggiatura era inesorabilmente triste, ed una delle location era un campo di concentramento vero e proprio. Si aggiunsero dei giorni non previsti al piano di produzione, ed ormai la Streep aveva trascorso due mesi e mezzo tra Austria e Berlino, più di quanto le era stato detto, separata dal suo ragazzo che nel frattempo stava morendo. Ogni giorno che passava era un altro giorno insieme perso per sempre. "Stavo impazzendo", disse poi Meryl, "John era malato, e volevo stare con lui." Quando la Streep tornò a New York Cazale era peggio di quanto avesse mai visto: per cinque mesi la coppia scomparve dalle scene e dalla vita sociale. Il cancro di John si era diffuso alle ossa, ed era sempre più debole. In seguito la Streep disse che il tempo che passavano insieme, ritirandosi nel loro bozzolo, le dava una strana sensazione di protezione: "Ero talmente vicina a lui da non vedere quanto stesse peggiorando". Si confidava con pochissime persone e in una lettera scritta al suo vecchio insegnante di teatro a Yale, Bobby Lewis, rivelò il suo reale stato emotivo: "Il mio amore è terribilmente malato... si interessa a come sto ed io cerco di non stare ferma a disperarmi e basta, ma passo tutto il tempo ad essere preoccupata facendo però finta di essere allegra, che è la cosa più faticosa mentalmente, fisicamente ed emotivamente rispetto a qualsiasi lavoro che abbia mai fatto." Ai primi di marzo del 1978, Cazale entrò al Memorial Sloan Kettering. La Streep non si allontanò da lui neanche per un attimo. Pare che le ultime parole di John siano state "E' tutto a posto, Meryl, va tutto bene...". Poi chiuse gli occhi e morì, alle 3 di notte del 12 marzo 1978. Quell'anno per la Streep fu un anno colmo di successi professionali: il primo Emmy per "Holocaust", una nomination agli Oscar per "Il Cacciatore", uno dei ruoli che ti cambiano la carriera come quello di Joanna in "Kramer contro Kramer", che le fece vincere il primo premio Oscar... Ma la morte di Cazale, e la sua sofferenza, l'avevano trasformata come persona e come attrice. Più di tutti i suoi successi che arrivarono in seguito - ben 20 nomination agli Oscar, nessun'altra attrice come lei, e tre vittorie - i suoi amici e colleghi ancora oggi la ammirano per la sua devozione nei confronti di Cazale, per la forza di carattere che da giovane donna dimostrò di avere. In un'intervista Al Pacino una volta disse: "Quando ho visto Meryl lì con lui in quel modo ho pensato, 'Non c'è niente di simile al mondo...', perché lei è così: grandissima in tutto il suo lavoro e in tutta la sua vita: è la sola cosa a cui penso quando penso a lei." John Cazale - 12 agosto 1935 / 12 marzo 1978
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The Lying Detective
Realizzo di essere un po’ in ritardo ad esprimere la mia “opinione” a riguardo, ma finché non esce The final problem, se non consideriamo ciò che ha combinato la Russia, mi sento in diritto di dire la mia con tanto di spoiler, sì. La puntata è scritta bene, recitata bene, girata bene, e potrebbe essere una delle migliori puntate di questa serie tv.
Potrebbe non essere scritto benissimo, ma il mio stato d’animo non è su quella lunghezza d’onda.
Per “analizzare” la puntata non andrò in ordine di come i fatti sono stati esposti, bensì in ordine cronologico, quindi partirò da
La prima riunione di Culverton Smith
Prima di cominciare, confesso che mi aspettavo un villain più… più. Sapevo che non sarebbe stato così terribile, perché di solito i villain “influenti” compaiono nella terza puntata, mentre i villain della prima o della seconda, per quanto particolari, sono meno intensi. L’interpretazione di Toby Jones è stata impeccabile, il personaggio è più o meno terrificante, il suo uccidere negli ospedali l’ho trovato intelligente, ma non mi è rimasto così impresso come pensavo. Comunque.
Nei miei appunti ho segnalato tutto il discorso che Smith tiene prima di iniziare una delle sue riunioni in cui confessa cosa vuole fare:
SMITH What’s the very worst thing you can do to your very best friends? IVAN: Something on your mind? SMITH: Yes, Ivan. Oh, yes. IVAN: Whatever you tell us stays in this room. I think I speak for everyone. FAITH: Well? What is the worst thing you could do? SMITH: Tell them your darkest secret. Because if you tell them and they decide they’d rather not know, you can’t take it back. You can’t unsay it. Once you’ve opened your heart, you can’t close it again. I’m kidding! Of course you can.
Il mio pensiero, soprattutto quando sono comparse le infermiere per iniettare la TD-12, un farmaco che interferisce con la memoria e possibilmente modifica i ricordi, è andato a parare al passato di Sherlock, di cui credo sapremo di più nella puntata di domani. E se fosse un modo indiretto per confermare che Sherlock ha alcuni ricordi non affidabili al cento per cento/che Mycroft ha fatto qualcosa e Sherlock lo sapeva ma poi l’ha dimenticato? Mettiamo caso che Smith sia il mirror di Mycroft e Faith sia il mirror di Sherlock: è una semplice intuizione, però non mi sorprenderei se in TFP si scoprisse che Mycroft ha in qualche modo interferito con i ricordi di Sherlock, soprattutto se sono ricordi riguardanti Eurus, che avrà fatto sicuramente qualcosa di tremendo. La seconda intuizione che ho avuto guardando questa scena è collegata all’alibi theory, per il semplice fatto che ancora una volta si parla di ricordi modificati, versioni alternative e così via. Non ho guardato la puntata sperando di vedere confermata l’alibi theory, però mi sono segnata questa piccola osservazione, che ha continuato a flashare nella mia testa quando è avvenuto questo scambio:
SMITH: If you think about it, civilisation has always depended on a measure of elective ignorance.
[…]
FAITH: Ignorance is bliss.
SMITH: Well, what’s wrong with bliss?!
Non credo sia una coincidenza che si parli così tanto di ricordi modificati, versioni alterate, c’è da pensare che usciranno fuori verità che avevamo visto sotto un’altra luce in TFP (deduzione piuttosto facile, ma ben supportata).
Ora, noi sappiamo che la prima riunione è avvenuta tre anni prima che Eurus, travestita da Faith, andasse da Sherlock. Mi pare che sia passata la stessa quantità di tempo dagli eventi della Caduta, ovvero da quando Moriarty è morto. E’ piuttosto interessante l’idea che Smith e Eurus (travestita o meno) siano entrati in contatto grazie a Moriarty, che ha sicuramente a che fare con Eurus, e possibilmente conosceva Smith. Credo che Moriarty e Eurus si conoscano per il “Miss me?” che Sherlock trova sul foglio che Smith toglie a Faith e dà a Eurus e che poi finisce tra le mani di Sherlock. Spero che ne sapremo di più domani. 
Eurus travestita da Faith va da Sherlock
Commento veloce veloce: Sherlock drogato, che non riesce a stare dietro al proprio cervello, che passa la nottata con una sconosciuta perché ha dedotto che vuole suicidarsi e vuole evitare che questo accada è un colpo al cuore. Moffat, pagami l’analisi.
Ho visto troppi paralleli con le altre puntate a partire da ASiP. Dalla goccia d’acqua che fa capire che stava piovendo ma “Faith” non si è coperta ai continui flashback di John che cammina per strada col bastone, su cui tra l’altro Sherlock si concentra… i richiami sono tanti. E la teoria di John che pensava al suicidio nel pilot è ancora più da considerare, dato che Sherlock deduce che “Faith” vuole uccidersi. E non fatemi parlare della pistola gettata nel Tamigi, perché John ha fatto la stessa cosa nell’unaired pilot, e Sherlock la butta vicino all’acquario di Londra, dove Mary è morta. Alibi theory again. 
Un altro particolare che mi è saltato all’occhio è Sherlock che dice
SHERLOCK: You’re suicidal. You’re allowed chips, trust me. It’s about the only perk.
E in TEH Sherlock mangia le patatine. Aiuto. Può non significare nulla, però ecco… mh. 
Sempre parlando di suicidio, l’intero discorso che Sherlock fa sul ponte è qualcosa di… sta praticamente dicendo che la sua vita appartiene a John. Il suo finto suicidio non solo ha fatto del male a Sherlock, ma anche a John, e Sherlock lo sa perfettamente. Le persone care a Sherlock sono sottointese in questo discorso, ma la puntata è sostanzialmente concentrata sul rapporto tra Sherlock e John, quindi passatemi queste omissioni. 
Quando “Faith” ha detto “Elvis” mentre parlavano dei nomi che sono quasi sempre due, la mia mente mi ha riportata a THoB, quando Sherlock va nel suo palazzo mentale e sentiamo per un attimo la canzone “Hound Dog” di Elvis. Mi viene da pensare che Eurus e Sherlock ascoltassero insieme Elvis, oppure che a Sherlock piacesse particolarmente il cantante e Eurus in quel momento se n’è ricordata. Può essere di tutto, sinceramente, però Elvis fa parte del passato di Sherlock, poco ma sicuro. E Eurus viene dal suo passato.
“Faith” è un’allucinazione? Wiggins e la Hudson dicono cose che effettivamente fanno credere che “Faith” non ci sia veramente, e se non erro, lei non compare nelle telecamere che seguono Sherlock. A questo proposito, “Big brother is watching you”. Sherlock che dice “Big brother” da tre puntate e “Faith” se ne esce con questa affermazione. Eurus sa che Mycroft tiene sotto controllo suo fratello? Può essere. E anche questo scambio
FAITH: You’re not what I expected. You’re … SHERLOCK: What … what am I? FAITH: Nicer. SHERLOCK: Than who? FAITH: Anyone.
Mi fa pensare che Eurus conosca più Mycroft che Sherlock e si aspettasse che Sherlock fosse un po’ più freddo. 
Un altro scambio che mi ha fatto pensare “SHERLOCK SA COSA FANNO LE PERSONE QUANDO I LORO AMATI STANNO MALE” è stato certamente
FAITH: How do you know he didn’t notice? SHERLOCK: Oh, well, because he would have done something about it. FAITH: Would he? SHERLOCK: Wouldn’t he? Isn’t that what you people do?
Ora che ci penso, John interviene quando sa che Sherlock rischia di morire. A QUELLO PASSIAMO DOPO, MICHELA. Questo post non ha senso, ma che ci possiamo fare.
Riguardo all’Anyone che ci perseguita: non è un caso se si riferisce sia all’uccidere chiunque che all’accettare l’aiuto di chiunque eccetto quello di Sherlock, vero? 
Altre piccole osservazioni: Wiggins che conferma il drink code, Mycroft che parla di Sherrinford come se fosse un luogo, Sherlock che subito si trova bene con “Faith”, un frame della pistola che credo sia quella che vediamo all’inizio e alla fine, anche se penso si tratti di quella in cui si vede una giacca di pelle nera e che quindi non corrisponde al frame finale. Pistole che confondono, yay. Ho apprezzato tutta la sequenza trippy di Sherlock che realizza che Smith è un serial killer e quando ha recitato un pezzo di Henry V (finalmente abbiamo capito il perché del libro nella foto).
Tre settimane dopo
Delle cose che mi hanno un po’ urtata sono state John che a quanto pare non sapeva che Sherlock avesse Twitter e nemmeno che Sherlock fosse venuto a cercarlo. Mi hanno urtata parecchio perché nella scorsa puntata vediamo Sherlock che twitta e che va a cercare John, e Molly che gli dà un biglietto da parte sua. QUESTE INCONGRUENZE.
La Hudson è adorabile e badass: dice chiaro e tondo che John ha solo Sherlock e lei, e se Sherlock muore, rimarrà solo perché anche lei non si farà più vedere. E dice pure che solo John conta. Io non- e per non parlare del fatto che la Mary mentale che rappresenta una parte di John prima piange durante la sessione (Amanda, cosa fai ai miei feels) e poi incoraggia John a saperne di più. I mean.
Sherlock seduto in quel certo modo mi ha ricordato Wilde che dichiara di non poter più risalire il baratro, che esorta John a fidarsi di lui, che afferma di non aver sprecato la sua vita se si mette contro Smith perché, come poi scopriremo, John lo salverà e quindi Sherlock riuscirà a salvare John. Io non-
(Osservazioni random prima di arrivare ad una scena HELP)
Mary (John) che dice che John è in disaccordo con sé stesso e che Sherlock è il loro mostro.
Sherlock che sa che il suo piano non piacerebbe a John ma lo coinvolge lo stesso, perché deve salvarlo, io non-
L’inganno in piena vista mi ha ricordato tanto HLV. 
Sherlock che entra nel telefono di Smith, che dice “It’s password protected” mi ha ricordato TBB. Belli questi paralleli tra Smith e John.
Mi è particolarmente piaciuta la scena in cui Sherlock parla ai bambini, utilizza frasi come “main feature of interest”, “remarkable aspect”, che ricordano tanto TSoT, menziona anche i titoli, mentre John sorride appena fuori e tantissimo dentro. Per non parlare del cappello. “Omicidio allo zoo” mi ha fatto pensare all’alibi theory. 
“No one is untouchable”. Adoro.
Mary (John) che dice: The game is on. Did you miss me? 
Sherlock che arrotonda per l’effetto drammatico. E CI DICE DELL’EFFETTO DRAMMATICO DA TRE PUNTATE.
ARRIVIAMO ALL’OBITORIO. Ho apprezzato tanto Smith che ha praticamente confessato ma allo stesso tempo vuole confondere sia noi che Sherlock e John. Smith è un serial killer o Sherlock è drogato? mi ha fatto pensare all’alibi theory, e in questo caso entrambe le affermazioni sono vere. (Ho queste intuizioni ma non ho avuto il tempo di svilupparle.)
Il momento in cui Sherlock realizza che non ha mai incontrato Faith è assurdo. Ciò che più mi ha urtata però è Lestrade che a quanto pare sa di Magnussen. Non pensavo lo sapesse. Quante cose sa il caro Greg? 
John che picchia Sherlock ha urtato tipo tutti, me ne rendo conto, e sono arrivata alla conclusione che l’abbia fatto più che altro per farlo tornare in sé, e nonostante sia parso OOC, ricordiamoci che Mary è morta da poco, lui sa che non è colpa di Sherlock ma non sa su chi altro scaricarsi… non è giusto ma è comprensibile. 
Un’altra cosa che mi ha urtato e che doveva farci scattare l’allarme “JOHN NON SALVERA’ SHERLOCK COME HA FATTO IN PASSATO” è quando Smith dice che Sherlock forse andrà nella sua stanza preferita, che è l’obitorio, John sa che lo è e non interviene. What the heck.
Nella scena a Baker Street vediamo l’intelligenza di John e della Hudson, e finalmente qualcuno dice che non si tratta di ragione, ma di sentimento. GRAZIE MARTHA. 
Il caso riguardante John è in sospeso. E finalmente sappiamo tutta la verità. Sherlock deve mettersi in pericolo per farsi salvare da John, in modo tale da salvarlo. Sherlock è l’unico capace di salvare John, e deve andare letteralmente all’inferno per riuscirci. CAN YOU FEEL THE PAIN AND THE LOVE? (Sorvoliamo su Mary che dice “the man we both love”. Ancora paragoniamo l’amore di una moglie all’amore di un amico? E’ sospetto.)
“I don’t want to die”. Cito testualmente dai miei appunti “Se Sherlock morisse, John non sarebbe salvo perché non salverebbe Sherlock e Sherlock non lo salverebbe, non lo proteggerebbe” . Non sono drammatica, è così, accettiamolo.
Una parte che mi ha fatto pensare tantissimo all’alibi theory è quando Smith dice che i morti nella vita reale non sembrano come i morti nei film. Ricorda HLV. Tanto.
Sorvolo sul “dopo il 3 si smette di contare” e arrivo a John che appena capisce cosa deve fare, corre da Sherlock, spacca tutto, è scazzato, e dopo aver guardato negli occhi Sherlock, capisce che c’era un quarto registratore nel bastone. Nel racconto originale John testimoniava, e mi è piaciuto che abbiano adattato questa parte in questo modo. Il bastone è comparso solo nella prima puntata, eppure gli hanno ridato un valore. 
“It is what it is”
Smith non smette di confessare, e John appena si dice di rimanere, di parlare, di risolvere un caso con Sherlock, di fargli mettere il cappello, inizia a dire di tutto di più. (Non ho messo Smith e John accanto a caso, è che credo siano ogni tanto mirrors.)
Ho troppe cose da dire su questa sequenza di scene. Non credo che John voglia davvero che Sherlock si metta con Irene, perché nella scena successiva non sembra felice quando Sherlock gli dice che ogni tanto risponde alla Donna, ma anche perché dice “fall for a sociopath” e non si sono mai riferiti alla Adler con questi termini, credo. Non penso che i Mofftiss faranno apparire la Adler in TFP, e vorrei ricordare che ASiB è stato un espediente per far capire che John e Sherlock sono più di semplici amici (ma devono ancora capirlo). Se Moffat ha inserito questo momento, è perché vuole scatenare questa reazione in John, che se non ricordo male poi confessa di aver tradito Mary, ammette che non è colpa di Sherlock se lei è morta (Sherlock che dice che la sua vita non aveva valore prima di quel momento, io non-), ammette che voleva di più e che Sherlock non può permettersi di perdere questa occasione. Irene e Mary non centrano, Sherlock non si farebbe problemi a dire che si sente con Irene, John ha sposato Mary, quindi di chi si sta parlando in questa scena? (La risposta è: SI PARLA DI LORO). Quando infine Mary invita a John a “darsi da fare”… l’ho visto come una sorta di accettazione: John sa che non è l’uomo che Mary e Sherlock pensavano fosse, lo è diventato per via del video, e ora ha iniziato ad accettare il fatto che non è perfetto. E questo discorso è ripreso subito dopo, quando non si parla tanto dell’umanità di Sherlock (che comunque rassicura John dicendo che i messaggi sono solo messaggi, abbiamo bisogno di qualcuno con cui parlare, ma ciò non toglie l’amore che proviamo per qualcuno), quanto dell’umanità di John. Si è discusso tanto di Sherlock che sembra più umano, ma non ci si rende mai conto di quanto John ne abbia passate, di quanto ne abbia sopportate, e di quanto sia umano, con le sue virtù e i suoi difetti. E’ pazzesco questo passaggio: Sherlock è ora un uomo grande e buono, e John sta imparando ad accettare il suo non essere perfetto. CHIAMATELO CHARACTER DEVELOPMENT. 
(John che dice che un rapporto romantico completerebbe Sherlock, IT’S NOT SUBTLE, SHERLOCK CHE ABBRACCIA JOHN -non sono l’unica che ha pensato agli Hannigram, dai, Sherlock che si mette il cappello per far ridere John, JOHN CHE STA MIGLIORANDO)
Elizabeth, Faith, la terapista e Eurus
Lo dico? Lo dico. Non è stato imprevedibilissimo. Sapevamo che Elizabeth e Faith erano interpretate dalla stessa attrice, ed io stessa avevo notato una certa somiglianza tra Elizabeth, Faith e la terapista. Mi aspettavo fossero la stessa persona, ma non pensavo che fosse Eurus aka il vento dell’est aka the other one, the third Holmes. Questo scambio tra fratello/sorella l’avevano già fatto in ASiP per Harry Watson, quindi non è nuovissimo, però è uno shock. 
Ho notato due cose che mi hanno ricordato di Moriarty, oltre al “Miss me?”:
L’imitazione che Eurus fa di se stessa travestita da Faith mi sa tanto di Moriarty
Quando dice che alla terapista non piacerebbe che il tappeto si sporcasse di sangue, ho avuto un flash di TAB quando Sherlock dice a Moriarty che se preme il grilletto, sporca la parete
Per quanto riguarda il vento dell’est, mi viene da credere che Eurus sia stata cacciata via da piccola dopo aver ammazzato Redbeard e tentato di uccidere Sherlock, che Sherlock non si ricordi di tutto tutto, e che Mycroft abbia tenuto in qualche modo vivo il ricordo di Eurus tramite la storia del vento dell’est. Tante speculazioni, alcune probabili, altre di meno, ma sicuramente Eurus è fuori di testa. Non posso commentare davvero la frase nel teaser di TFP in cui Mycroft afferma che l’uomo che Sherlock è diventato, ogni scelta che ha fatto, ogni percorso che ha intrapreso è il suo ricordo di Eurus, però non vedo veramente l’ora di scoprire che cosa ha combinato la terza Holmes, se è collegata a Moriarty, e soprattutto SE QUALCUNO ESCE VIVE DALLA QUARTA STAGIONE.
Commento sull’ultimo frame: John non muore, lo sappiamo. Vedremo domani cosa è successo davvero.
Spero che questo post abbia avuto un qualche senso, spero che alcune mie osservazioni/intuizioni vi abbiano chiarito la puntata oppure avervi fatto pensare ad altri scenari. Non lo so. Grazie se siete rimasti fino a qui.
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penelopeics · 3 years
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Perché non dovremmo chiamarli dei moderni Freaks?
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Oggi sono andata a fare una visita domiciliare a casa dei Tal-dei-tali. Amelia mi ha proposto di andare con lei, e io ci sono andata di buon grado. Tanto per cominciare: non so un cazzo di disabilità. Non so nulla delle condizioni patologiche che la portano, o quasi nulla, e ne so anche meno della parte del mio lavoro che la riguarda. Dovrei, anche perché, come al solito, “la firma è la mia”, ma non ho ancora imparato. Amelia invece, che potere di firma non ne ha, ne sa un bel po’. Così, pur essendo rispetto a lei “più alta in grado”, per così dire, mi sono accodata confondendomi con una sua tirocinante o giù di lì, proponendomi di guardare, ascoltare e tacere, per poi fare tante domande quando saremmo rimaste sole. Tacere non è il mio forte, e infatti non l’ho fatto, ma anche, forse, perché oggi mi sono trovata davanti due persone qualsiasi, non due disabili. Sembra una scemenza quella che ho appena scritto, ma penso che lo sembri solo perché l'ho scritta, dato che è questo il modo implicito in cui la nostra società tratta queste persone. E con “società” non intendo solo le Istituzioni, che procedono per interventi dedicati e compartimenti stagni (l’ultima bestialità, fortunatamente osteggiata da molti, in primis da Iacopo Melio, è stata la proposta di un Ministero per le Disabilità), ma anche la gente comune, in larga maggioranza. Si identifica la persona con disabilità con la sua condizione di salute: li chiamiamo “disabili” infatti. Non voglio nemmeno entrare nel “diversamente abili” perché mi sembra troppo una presa per il culo. Per oggi andiamo avanti così.
Così sono arrivata a casa Tal-dei-tali così: con la testa vuota. Sapendo di non sapere, e questo mi ha, forse, costretta a relazionarmi in un altro modo.
I Tal-dei-tali abitano in una casa popolare giù ai campi. La Sig.ra Tal-dei-tali ha la sclerosi multipla credo, o comunque una di quelle patologie neurologiche croniche e degenerative, il che significa che è spastica in tutto il suo corpo, sebbene cammini ancora da sola, aiutandosi a volte con una o due stampelle all’occorrenza. La casa gliel’hanno data al quarto piano senza ascensore: giuro. E non è che non si sapesse, al momento dell’assegnazione, che lei aveva quello che aveva. Si sapeva, però la casa gliel’hanno data lassù. Lei stava meglio, presumo, ma non mi pare, questa, una grande scusante.
Insomma Amelia e io ci facciamo sti quattro piani a piedi e arriviamo ansimanti all’appartamento. La prima sensazione è la puzza terribile di fumo. Non vi sareste aspettati un’abitudine così poco salutare a casa di una disabile con problemi, evidentemente, anche di respirazione, vero? Già, perché se non lo sapete da voi, vi dico io che una persona che ha l’intero suo corpo, l’intero suo essere, spastico, fa anche una grande fatica a respirare, come ci dimostra presto la Sig.ra Tal-dei-tali mediante il suo modo peculiare di parlare, e soprattutto da quando le chiediamo, non senza un certo imbarazzo, di mettersi la mascherina. Alice -la chiamerò così, visto che subito mi obbliga, sostanzialmente, a darle del “tu”- parla in un modo che sembra che pianga: il suo è quasi un grido, continuo e sforzato, affannato, semidisperato, per dire ogni parola. Tende a sputacchiare parecchio, anche, non con la mascherina ovviamente, che però quasi la soffoca. Prima di ogni frase prende un rumorosissimo respiro con la bocca, tale che ogni parola sembra una terribile sofferenza. Eppure lei parla, ah se parla. Diventa presto chiaro che è lei che comanda là dentro. Alice ha i capelli castani di media lunghezza, unti, e indossa una tuta. Il suo compagno, che invece tollera bene il mio intramontabile “lei”, sembra il Vasco-Rossi-dei-poveri: abbastanza alto e slanciato, sulla testa è quasi del tutto calvo, ma i capelli che gli restano, a corona, sono lunghi fino alle spalle. Occhi grigi e un forte accento dell'entroterra campagnolo, è lui che fuma quasi ininterrottamente, come un turco. Sembra “normale”, il Sig. Tal-dei-tali, epperò anche lui è invalido*: dice di essere epilettico. Mi chiedo subito se non sia un falso invalido. Racconta di non lavorare dal 2001 -e chissà se fino ad allora lo aveva fatto: la colpa, secondo lui, è degli immigrati.
Il nostro capo, persona normalmente squisita e corretta, è sicuro che Tal-dei-tali stia appresso ad Alice da tanti anni -quasi venti- per le di lei risorse economiche. Tra pensione di invalidità, assegno di accompagnamento e reddito di cittadinanza, infatti, Alice guadagna più di me. Eppure io non posso fare a meno di essere convinta che ci sia di più, tra queste due persone, che un rapporto di sfruttamento, ancorché reciproco (lei contribuirebbe con i denari, lui con la velocità e la precisione nei movimenti). Lui le finisce le frasi -e correttamente: segno che sa interpretare il suo pensiero, anticiparlo persino. Quando parla di lei lo fa con evidente ammirazione, mostrando di conoscerla profondamente e di apprezzare la sua forza e presenza di spirito. Lei non mostra troppi sentimenti, come tutte le donne “forti”, dure. Cita come solo lui sia ammesso ad aiutarla nell’igiene intima, e mondi si aprono nella mia fantasia. Quei due si amano, mi dico. E ne sono convinta.
Anche Tal-dei-tali percepisce pensione di invalidità e reddito di cittadinanza (di come tutti truffino lo Stato prendendo doppio Reddito, ne parliamo un'altra volta). Considerando che pagano sì e no cento euro al mese di affitto, dunque, non se la passano male. Ma non è su questo che voglio concentrarmi. Teoricamente potrebbero permettersi di pagare una persona, però l’assistenza domiciliare la pretendono da noi -e dell’ambiguità che genera il paternalismo generale riguardo alla disabilità, pure parleremo un altro giorno. Non scelgo a caso il verbo “pretendere”: presto scopro che Alice è una vera e propria pasionaria! Non solo conduce la conversazione: ha le idee ben chiare e, ciò che vuole, pretende e ottiene con una straordinaria volontà. L’assistente che verrà dovrà essere “compatibile col mio carattere” -non con la sua disabilità. Mi rendo conto del fatto che non solo Alice non si è lasciata mai abbattere dall’essere vittima innocente di una malattia che compromette massicciamente la tua vita sia in qualità che in durata, ma che non si identifica affatto con la disabilità. Il suo senso di sé prevale sulla patologia e sulla sua condizione di (oggettivo) svantaggio. Le chiediamo se si sia vaccinata contro il covid-19: insorge. Alice va fiera di “non essersi mai vaccinata in vita sua” -cioè nemmeno da bambina? Non ha nessuna intenzione di farlo ora, e non è sua abitudine frequentare i medici. Il Vasco-Rossi-dei-poveri sghignazza, sotto i baffi che non ha, del piglio testardo e caparbio della sua compagna, che ci mostra le uniche medicine che assume, per i dolori, che a volte si fanno lancinanti.
La loro casa è piuttosto sporca, e disordinata, ma Alice mi ha fatto talmente uscire dalla logica dei “due invalidi” che interiorizzo l’idea che siano trascurati per una certa attitudine rock‘n’roll, e non per i loro limiti fisici. Ora che ci penso, lei mi ricorda tanto una versione un po’ trasandata di Sharon Osbourne, la moglie del rocker Ozzy. Ha qualcosa dei suoi tratti somatici e tutto del suo temperamento.
Tra una risata, una fumata passiva e qualche timida domanda -nostra a loro, visto che questa visita è diventata ormai un processo di scoperta di questi due moderni Freaks- la visita volge al termine. Io mi sento una cretina perché sono stupita di quanto poco stereotipata fosse la persona che mi sono trovata davanti, e rincuorata, anche, di quanto poco mi sarebbero servite delle competenze più specifiche in materia di disabilità.
*Disabilità e invalidità non sono sinonimi. Detta in poche parole, “invalidità” attiene a una condizione patologica, mentre “disabilità” attiene ai risvolti sociali di quella condizione. Si può essere invalidi e non disabili, ma mai il contrario.
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pangeanews · 4 years
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“C’è nell’uomo una speranza terribile e profonda…”. André Malraux, la Guerra in Spagna, l’epica necessaria. Dialogo con Giovanni Pacchiano
Prima di partire per la Spagna, André Malraux, già, confusamente, membro dell’“Association des écrivains et artistes révolutionnaires”, braccio intellettuale dei comunisti di Francia (ci stavano, sullo stesso desco, Aragon, Breton, Gide, Giono, Nizan…), si mise in testa “di ritrovare la capitale della regina di Saba”, donna leggendaria, che “entra nella Bibbia, vi arriva dall’ignoto, con il suo elefante incoronato di piume di struzzo, i suoi cavalieri verdi sui cavalli pomellati, la sua guardia di nani, le sue flotte di legno turchino, i suoi bauli coperti di pelli di drago”. In Malraux, voglio dire, l’incongruente è congiunto al concreto, tra mito e fatto, antico e attuale (pensate alla meraviglia del “Musée Imaginaire”) non c’è distanza, tra azione e racconto neppure. Sognava di essere T.E. Lawrence, ma gli mancava l’autentica polluzione nichilista, quella che annienta l’individuo, in uno stillicidio di afflizioni, sognava Aden, come un Rimbaud a contrario, che urla e ama nascondersi con la narcisa indecenza di un attore navigato. In Spagna, in effetti, Malraux brigò, allestì una brigata aerea, si fece sentire; non sapeva guidare un aereo, sparava male, ma sulla guerra civile nella landa del Chisciotte, scrisse uno dei libri più alti – ma non il suo più bello –, La speranza, edito da Gallimard nel 1937, un successo clamoroso. Il romanzo, pubblicato nel 1956 da Mondadori, nella traduzione di Giuseppe Ravegnani, ristampata per un tot, torna con marchio Bompiani nella versione di Giovanni Pacchiano, già traduttore, tra gli altri, di Huysmans, Maupassant, Julien Green, Benjamin Crémieux, critico e studioso eccellente. La nuova edizione della Speranza ci impone, editorialmente, due cose: pubblicare come si deve le Antimemorie di Malraux, l’autobiografia di un uomo che aveva il culto di sé, dell’eterno e della morte, e Il caos e la notte di Henry de Montherlant, romanzo ‘spagnolo’ a distanza di due decenni dai fatti bellici, che giace, dimenticato, nella versione di Giuseppe Mormino, per Bompiani, era il 1965. Nelle stesse pagine delle Antimemorie, Malraux racconta la visita nella Norimberga ancora ustionata dalla presenza di Hitler, reclama il suo personale rapporto con la Sfinge, “una chimera, e le mutilazioni che ne fanno un teschio colossale aumentano ancora la sua irrealtà… Ogni arte sacra si oppone alla morte, perché non è una decorazione della propria civiltà, ma l’esprime secondo il suo valore supremo”. Torna spesso alla Sfinge, Malraux, a quella semisepolta dalla sabbia, che emerge con l’enigmatica potenza di un assalto, non quella sfigurata dalle cartoline turistiche. In effetti, pensava Malraux, non viviamo che tra gli artigli della Sfinge. (d.b.)
La speranza è uno dei tasselli che compongono l’agiografia narrativa di Malraux. Parto chiedendoti qualcosa sulla peculiarità del suo linguaggio: epico, lirico, schietto, da esteta armato, da ideologo. Qual è il ‘ritmo’ di Malraux e ciò che di lui ti affascina (o ti repelle), come scrittore?
Occorrerà distinguere fra l’uso del linguaggio, lo stile della narrazione, e quella che il De Sanctis (un grandissimo di cui troppo spesso ci si dimentica) chiamava “la situazione”. Perché Malraux non punta certo le sue carte sulla lingua in sé e per sé: che è un francese della media borghesia colta, peraltro non fastidiosamente convenzionale, ma applicato anche nei dialoghi, dandoci l’impressione di una certa improbabilità, a pressoché tutti i personaggi, a qualsiasi ceto sociale e nazione appartengano. Con l’eccezione di Leclerc, il mercenario francese che guida uno dei “pellicani” (gli aerei della Squadriglia Malraux) e che si prende paura scappando mentre è attaccato dai caccia nemici. Poco dopo, una scena memorabile vedrà Leclerc sbronzo cercare di giustificarsi, sentendosi accusato di essere un codardo e perdendo le staffe (il che lo rende simpatico, perché mai nessuno degli altri combattenti, durante il romanzo, perde il controllo linguistico), e sbottando con frasi come: “Non ci rompere le palle”, “Ne ho i coglioni pieni di mitragliatrici da luna park”, “Ho le palle piene, io”, “Ti piscio addosso. Capisci? Ti piscio addosso.” E di nuovo: “Io ti piscio addosso”, “Ti piscio addosso”. Finché Magnin, il comandante della squadriglia e alter-ego dell’uomo Malraux, il pivot del libro, lo esonera da qualsiasi incarico e lo sbatte fuori. Certo, linguisticamente parlando, se vogliamo rimanere nel campo del post-naturalismo (e La speranza è, a suo modo, un romanzo postnaturalista, non recependo nulla del linguaggio dei suoi amici-nemici surrealisti), cinquant’anni prima, lo Huysmans di A vau-l’eau e di En rade era, con la sua langue verte, anni luce più avanti. Ma, l’ho detto, di sicuro non è sulla lingua che Malraux si gioca la qualità del romanzo. La cui grande forza sta, a prima vista ma anche a rilettura, nelle variazioni tonali dello stile, che, se non sono 33 come nel celebre pezzo beethoveniano per pianoforte, appaiono peraltro numerose. A partire dalle tonalità secche e concitate del sorprendente inizio dell’opera, tutto dialogico, dove la storia è affidata ai botta e risposta delle telefonate, amiche o ostili, della e alla centrale telefonica della Estación del Norte (repubblicana), mentre i franchisti hanno già occupato parte del Paese. Al ritmo più piano della narrazione impersonale, come se l’occhio dell’autore registrasse dal di fuori gli eventi, se quotidiani e visti non nei momenti di crisi. All’accelerazione e alle spezzature del ritmo narrativo durante il drammatico assedio dell’Alcázar o durante i bombardamenti di Madrid. Ai frequentissimi dialoghi di contrasto politico fra i personaggi, dove la mia simpatia di lettore va agli anarchici, e non certo ai comunisti filosovietici imbeccati come scolaretti ottusi dai rappresentanti mandati espressamente da Stalin e rapidi nell’impadronirsi di un loro potere speciale (mentre ambivalente pare la posizione dello stesso Magnin-Malraux, che con l’emotività sta dalla parte degli anarchici rivoluzionari, ma con la razionalità di uomo dai piedi ben piantati per terra non può dar torto ai ministeriali e ai filosovietici nella loro volontà – risultata poi inutile – di inquadrare secondo gerarchie rigide i vari gruppi di militanti, Squadriglia Malraux compresa. Ciò che avverrà e che preluderà allo scioglimento della squadriglia stessa). La mia impressione, poi, è che al fondo di questi dialoghi e confronti serrati, a volte sfibranti, stia, sotto altra specie, e mi sembra che la critica non abbia mai avanzato questa interpretazione, il ricordo delle continue e veementi discussioni fra Naphta e Settembrini nella Montagna incantata, pubblicata per la prima volta in francese da Fayard nel 1931 e perciò con ogni probabilità letta da Malraux (un titolo così bello, e chissà perché qualcuno ormai per scrupolo filologico lo cita come La montagna magica, con quella brutta allitterazione della m). E peraltro il vero, grandioso punto di forza del romanzo sta negli squarci epico-lirici cui tu accennavi nella domanda, non riportabili qui data la loro quantità. Basti dire che essi sono legati soprattutto al rapporto con la natura (bellissima una delle scene finali dell’aereo repubblicano caduto fra le montagne, nella neve, con un cadavere e diversi feriti, portati a valle dai paesani su improvvisate barelle in una sorta di dolorosa processione) o di fronte alla morte. Si veda l’altra, magnifica, pièce de rèsistence, data dalla prigionia e dall’esecuzione per fucilazione per opera dei franchisti dell’eroico ufficiale Hernández (è riuscito a mettere in salvo tutti i suoi soldati prima di essere catturato), interiorizzata secondo il commovente punto di vista del personaggio. È forse il punto più alto del romanzo. O le malinconiche musiche di pianoforte che escono dalle finestre delle case, e che evocano una profonda verità dello spirito più vera di qualsiasi altro insight sull’esistere. Ecco, mi viene da dire che Malraux punta soprattutto sull’alternanza fra scene forti o fortissime e scene di vita, pur nella guerra, se così si può dire, quotidiane: tanti quadri che sfilano in diastole e sistole comunicando al lettore un senso di continua apprensione: è il destino sopra la testa dei nostri eroi, come sopra quella, ahimé, di ogni umano.
Che è poi la “situazione”: per il De Sanctis la prospettiva in cui si capisce la “cosa” non come in sé, ma viva “nello spazio e nel tempo che formano la sua atmosfera, pigliando modo e colore da questo o quel secolo, da questa o da quella società”. E tale criterio si attaglia meravigliosamente alla Speranza, che va considerata e valutata anche nel contesto più ampio (europeo, non solo spagnolo) cui il romanzo si riferisce, nella sua aura che in realtà è anche il frutto di un insieme più complesso di stimoli e influssi ed eventi. Né va dimenticato il senso da attribuire agli ossessivi puntini di sospensione di cui l’autore costella i dialoghi. Dove va scartato un intento letterario qualsiasi, ma, piuttosto, è da considerare una sorta di riflesso fisiologico di malessere individuale che peraltro diviene simbolo di un malessere di tutto un mondo: non per nulla Malraux soffriva della sindrome di Tourette, per cui, specialmente nei momenti di ansia, il suo viso era attraversato da continui tic: lo stesso atteggiamento ticcoso trasferito, come una sorta di riflesso automatico, nei dialoghi. È “l’absence de littérature” di cui parlerà” Montherlant (dirò più avanti). Per soddisfare del tutto la tua domanda: non c’è nulla che mi repelle nel Malraux della Speranza, nemmeno la sua ambivalenza politica che in quegli anni così confusi e così dominati dall’incombente presenza dell’URSS, cui molti intellettuali francesi cedettero, vedendolo come un baluardo contro il nazismo, può essere magari giustificabile. Certo, fu ben più profeta e schietto Gide, che si allontanò dall’orrendo totalitarismo sovietico dopo il suo viaggio nell’Urss, con Ritorno dall’URSS (1936) e Postille al mio ritorno dall’URSS (1937). Di Malraux uomo, piuttosto, non mi delizia il suo immenso narcisismo, e la faccenda poco pulita della giovanile spedizione “archeologica” in Cambogia, con il proposito, realizzato, di staccare a colpi di piccone bassorilievi dai templi sepolti nella giungla, e di rivenderli a caro prezzo a Parigi. Scoperto e condannato a tre anni di prigione, si salvò unicamente grazie ad autorevoli pressioni provenienti dalla Francia. Ma se dovessimo, in letteratura, perennemente giudicare i grandi scrittori dagli uomini che ci stanno dietro, troppo spesso ne resteremmo delusi.
Cos’è questa Espoir a cui allude il titolo del libro? Come si installa il libro di Malraux rispetto ai tanti romanzi sulla guerra di Spagna (penso a George Orwell, a Hemingway, a Montherlant, ad esempio)?
In realtà il tema della speranza, il suggestivo titolo del romanzo, percorre tutto il libro e si riserva l’intestazione della terza e ultima parte: ovvio che chi combatte una guerra speri di vincerla, anche se qui la speranza si rivelerà poi infondata. Ma dobbiamo distinguere, nel romanzo, una riflessione individuale di un personaggio, e un’idea generale che si induce, attraverso gli avvenimenti, e che va riferita al narratore. Veniamo al primo punto. L’ingegnere Jaime, che fa parte della Squadriglia Malraux, si trova su un aereo da combattimento che tornando al campo base capotta, e ne scende cieco. È figlio di un grande storico dell’arte e mercante di quadri, Alvear, uomo molto anziano che vive appartato a Madrid. Un altro membro della squadriglia, Giovanni Scali, italiano e studioso di storia dell’arte, viene inviato a casa di Alvear per convincerlo a lasciare la città, perché è troppo forte il pericolo che arrivino i marocchini, spietati anche nei confronti dei civili, e nel caso forse ancor più crudeli, perché è notorio che il figlio di Alvear ha partecipato alla lotta nelle file dei repubblicani. Nel lungo e suggestivo colloquio fra Scali (la cui figura richiama nella realtà il nostro Nicola Chiaromonte), Alvear, trasognato, gli parla della speranza: “C’è nell’uomo una speranza terribile e profonda… Chi è stato condannato ingiustamente, che ha incontrato troppo da vicino l’imbecillità, o l’ingratitudine, o la viltà, è meglio che rimandi la sua scommessa… Tra gli altri ruoli, la rivoluzione recita quello che un tempo era interpretato dalla vita eterna, il che ci spiega molto delle sue caratteristiche. Se ognuno applicasse a se stesso un terzo dello sforzo che fa oggi per influire sulla forma del governo, diventerebbe possibile vivere in Spagna”. A questa malinconica riflessione insieme esistenziale e politica si affianca poi, chiuse le ultime pagine del romanzo, un senso più generale, che restituisce alla speranza tutto il suo carattere (lirico e ricco di pathos) di pulsione illusionale, riguardando un futuro impossibile da anticipare, sia per l’individuo, tanto più in tempo di guerra, sia per la rivoluzione sociale: il punto d’arrivo, a cui alcuni personaggi della Speranza paiono aspirare. Malraux pubblicò il romanzo nel novembre 1937, quando le sorti dello scontro fra nazionalisti e franchisti non erano state ancora decise e quando lui era già dal gennaio dello stesso anno tornato in Francia (ritornò ancora negli stessi anni della guerra in Spagna, ma per ragioni pratiche e per realizzare il suo film, Espoir-Sierra de Teruel (cerca il dvd, c’è e merita), girato fra l’agosto 1938 e il gennaio 1939. Colpiscono di più, invece, due segnali basilari contenuti nella frase finale della Speranza e in quella dei Conquistatori, forse il romanzo più importante di Malraux, il primo romanzo “politico” della Francia anni Trenta, nonché, a detta dello stesso autore, romanzo espressionista, dunque stilisticamente più avanti della Speranza, e profetico nel comprendere il ruolo della Cina in un futuro non così lontano. Uno (riprendo le parole del mio vecchio e valoroso amico Goffredo Fofi), “dei grandi libri per capire il Novecento”. Rispettivamente: “Io cerco nei suoi occhi la gioia che ho creduto vedervi; ma non v’è nulla di simile, nient’altro che una dura e pur fraterna gravità” (I conquistatori). E: “Manuel avvertiva per la prima volta la voce di chi è più grave del sangue degli uomini, più inquietante della loro presenza sulla terra: la possibilità infinita del loro destino, e si sentiva dentro questa presenza, mescolata al rumore dei ruscelli e al passo dei prigionieri, costante e profonda come il battito del suo cuore” (La speranza). Eccoli, assieme alla fatica di vivere, anche contro la nostra volontà (“gravità”-“grave”, e con un allarmante accrescimento, dalla gravità dello sguardo del singolo a quella del destino, ben più potente del desiderio dell’uomo), i due temi essenziali ma ossimorici: la fratellanza, motivo benissimo presente nel romanzo sulla guerra di Spagna, assieme al desiderio e al conforto del calore degli altri, alla loro benché difficile, perché legata al dramma delle armi, vicinanza emotiva e concreta, alla solidarietà, alla condivisione del pericolo, ma turbato, nella sensibilità si vorrebbe dire di ogni uomo (ma non è così), dal suo rovescio, l’oscura feroce assurda imprevedibilità del destino, che ci richiama alla tragica concretezza della solitudine del nostro essere per la morte, al di là di ogni affetto, amicizia, ideale comune che ci riguardi. Sicché “O speranze, speranze; ameni inganni,” potremmo applicare il verso del Leopardi, benché in altro contesto esistenziale e sociopolitico, anche al pensiero del libro di Malraux.
Quanto agli altri romanzi sulla guerra di Spagna, Omaggio alla Catalogna, di George Orwell, ha la straordinaria vivezza di una vicenda raccontata dall’autore in prima persona, e combattuta di persona (pare invece che Malraux, che era soprattutto un organizzatore e un ottimo procacciatore di denaro per la squadriglia, e che per contro non sapeva pilotare un aereo, si sia limitato a svolgere qualche volta il compito di bombardiere, ma la notizia è tutt’altro che certa). Lo scrittore inglese partì per Barcellona il 15 dicembre 1936, e si arruolò subito nel P.O.U.M., partito marxista e antistalinista, attivo specialmente nella capitale catalana, ma il 20 maggio 1937 in uno scontro coi franchisti sul fronte aragonese un cecchino lo ferì alla gola; sicché, dopo un’avventurosa serie di ricoveri ospedalieri, tornato a Barcellona e informato di un suo certo e imminente arresto da parte della polizia in qualità di iscritto al P.O.U.M.¸ appena soppresso, riuscì a scappare assieme alla moglie in Francia. Rileggendo il libro dopo anni, oggi mi appare un affascinante rapsodico resoconto autobiografico, con chiare prese di posizione politica, più che un romanzo. Di Hemingway mi limito a dirti che adoro Addio alle armi e i 49 racconti (uno di essi, Colline come elefanti bianchi, è, della letteratura americana del Novecento, il racconto che preferisco in assoluto, insieme a Il ballo, del suo amico e rivale Francis Scott Fitzgerald, a lui peraltro molto superiore). L’Hemingway di Per chi suona la campana è un romanzo finto e artificioso: la sua vena di scrittore si era ormai esaurita. Ho cercato di rintracciare nel disordine della mia non piccola biblioteca I grandi cimiteri sotto la luna, di George Bernanos, all’epoca del conflitto su posizioni filofranchiste, ma non l’ho trovato. Indicativo tuttavia il fatto che del romanzo io non ricordi una sola riga. Diverso il discorso per Le Chaos et la nuit di Henry de Montherlant. Pubblicato nel 1963 e dedicato alla patetica figura di Celestino Marcilla, un anziano anarchico spagnolo che aveva combattuto coi repubblicani durante la guerra civile e ora è esule a Parigi assieme alla figlia Pascualita. Nel 1959 l’uomo decide di tornare a tutti i costi in Spagna. Morirà suicida poco prima che la polizia arrivi ad arrestarlo. Arduo confrontare questo grande romanzo coi romanzi che ho citato più sopra perché separato da 20 anni di storia. Si potrebbe dirne come di un “Temps d’un retour”, il tentativo di ritrovare una vita vera e interrotta. Ma in realtà il tema che pare più congeniale a Montherlant è anche qui quello della figura del loser, del perdente, come già negli Scapoli, altro suo romanzo di sublime riuscita, o come per le giovani donne vanamente e dolorosamente innamorate di Pierre Costals, il protagonista, di Les jeunes filles: di cui Adelphi ha pubblicato qualche anno fa, inspiegabilmente, solo il primo dei quattro volumi. Occorrerà però ricordare, a proposito della stima di Montherlant nei confronti della Speranza, almeno una nota del suo L’équinoxe de septembre, e due passi dei Carnets. Nella prima troviamo: “Dans ce livre admirable et si mal apprecié, L’Espoir – dans ce livre qui, parmi tous les livres parus depuis vingt ans, est celui qu’on voudrait le plus avoir veçu et avoir écrit, – Malraux dit que, pour deux de ses personnages, ‘le courage aussi était une patrie’”. Mentre nel Carnet XXXIV compaiono addirittura due pagine di consenso ed elogio. Ne riporto per brevità solo un paio: “L’absence de littérature. En cela fait songer souvent Tolstoi […]. Répugnance pour la pédale. Pour la phraséologie: presque pas de proclamations de fois (et plût au Ciel que toute notre littérature antifasciste eût pareil horreur de la rhétorique!”. E: “En Malraux se réconcilient l’intelligence et l’action, fait des plus rares.” Mica poco per un altro narciso come Montherlant.
Che idea della guerra, della guerra civile spagnola, quindi della vita traspare dal romanzo?
Malraux era un nichilista, per cui è difficile attribuirgli un’idea personale sulla guerra in generale, o le ragioni profonde per cui partecipa, se pur per brevissimo tempo, alla guerra di Spagna, se non un condivisibile atteggiamento di ripulsa nei confronti del franchismo e un desiderio di protagonismo che non gli venne mai meno. È importante come ci faccia capire che la guerra di Spagna non è solo una guerra civile, ma la prefigurazione di una guerra mondiale. Utile inoltre citare le variegate opinioni sulla guerra dei diversi personaggi. I mercenari e i volontari vivono la guerra come “aura romanzesca”. Scali si accorge che la guerra “è anche una faccenda fisiologica”. Manuel, tecnico del suono negli studi cinematografici, con tessera del partito comunista, prende coscienza che la guerra “consiste nel fare l’impossibile perché dei pezzi di ferro entrino nella carne”. Per gli ufficiali regolari dell’esercito repubblicano e per i ministeriali (García, Vargas) la guerra è una guerra tecnica, è organizzazione, e non ha buon esito se c’è una crisi di comando. Per gli aviatori della Squadriglia Malraux, la guerra “è una faccenda romantica”, ma è anche orrore. Magnin, francese, socialista rivoluzionario, pensa che “gli uomini non si fanno ammazzare per la tecnica e per la disciplina”, ma hanno bisogno di un ideale. “Non siamo la rivoluzione. Ebbene, cerchiamo di esserlo”. Non c’è dunque un’idea unica della guerra né della vita, se non, come ho già detto, la percezione della oscura presenza del destino, imprevedibile come la morte del coraggioso capitano Mercery che, a Madrid, sale su una scala da pompiere per spegnere un incendio, ed è falciato dai caccia franchisti cui invano ha cercato di sparare.
Che ruolo ha Nicola Chiaromonte nel romanzo? Qual è stato, d’altronde, l’autentico ruolo di Malraux, al di là del romanzato, nella guerra di Spagna? 
Non posso affermare che ci sia una coincidenza specolare fra la figura di Nicola Chiaromonte, intellettuale e critico italiano, e quella di Giovanni Scali, professore di storia dell’arte e ottimo studioso in Italia. Ma proprio l’italianità di Scali fa pensare con certezza a Chiaromonte, che aveva conosciuto Malraux a Parigi e che era arrivato in Spagna, a Barcellona, il 10 agosto 1936, viaggiando sullo stesso aereo di Malraux. Da un testo inedito recuperato in un ottimo articolo da Cesare Panizza si apprende che l’impatto con Barcellona fu felice: “C’était une journée chaude et lumineuse. L’agitation des rues qui obligeait les autos à s’ârreter tous les cent mètres, était toute guerrière. Guerrière, pas militaire. Jamais, en Espagne, je n’ai vu la guerre prendre un aspect strictement militaire: elle m’est toujours apparue mêlée au tumulte populaire, aux voix des femmes, aux jeux des enfants, au travail des paysans et des ouvriers”. Arruolato nella squadriglia di Malraux come bombardiere, Scali-Chiaromonte è costretto a rivedere in breve la sua illusione lirica. Si è accorto, mentre imperversano le offensive franchiste, che in realtà i politici (cfr. ancora Panizza) si sforzano di separare “la rivoluzione dalla guerra”. Con la costituzione delle Brigate Internazionali e l’imminente passaggio della Squadriglia Malraux nei ranghi dell’esercito, Chiaromonte ritorna in Francia all’inizio di novembre del 1936. La sua avventura è durata solo due mesi, eppure Malraux dedicherà a Scali una serie di pagine bellissime e problematiche che ci narrano l’incontro e il dialogo fra lo stesso Scali e il vecchio Alvear. Quanto all’autentico ruolo di Malraux, al di là del romanzato, nella guerra di Spagna, ho già detto che si trattava di un eccellente organizzatore, capace innanzitutto di procurare aeroplani, ma anche di raccogliere fondi per la squadriglia, persino attraverso un viaggio negli Stati Uniti. La pubblicazione, il 3 novembre 1937, della Speranza, oltre ad avere un enorme successo di pubblico, attirò ma senza esiti felici, l’attenzione internazionale sulla guerra di Spagna.
Della patente di ‘attualità’ di un romanzo poco c’importa, eppure: perché dovremo leggere oggi La speranza? Che forza ha ancora – se l’ha – Malraux?
Perché dovremmo leggere oggi La speranza? O bella! Perché è un grande appassionante romanzo. Malraux ha la forza di un classico e certe scene drammatiche hanno lo stesso impatto di quelle della tragedia greca. E perché in un’epoca di crisi profonda e temo irrimediabile come la nostra è più salutare leggere storie di eroi coraggiosi ma vinti, che facciano riflettere, invece che limitarsi a leggere banali storielle. I lettori ci sono: non è un caso che abbia riscosso un consenso internazionale lo strepitoso libro di Amanda Vaill, Hotel Forida. Amore e guerra a Madrid, pubblicato nel 2014 da Farrar, Straus & Giroux e nel 2016 in Italia da Einaudi. Una emozionante ricostruzione della guerra di Spagna vista attraverso i destini di sei personaggi, Hemingway e Martha Gellhorn, Robert Capa e Gerda Taro, Arturo Barea e Ilsa Kulcsar, ospitati appunto nell’Hotel Florida, sulla Gran Vía di Madrid, e coinvolti nella guerra.
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Con il romanzo “Vento Rosso” un esordio travolgente per Giuliana Argenio
di TIBERIO CRIVELLARO
“Al G8 di Genova (luglio del 2001), Mauro Gruber aveva resistito all’ennesima carica della Celere che sciabolava con i manganelli. Impugnati dalla parte della punta facevano malissimo. Non l’avevano acchiappato malgrado si fosse beccato colpi tremendi. Fuggì verso l’incrocio di 2 strade, con una dozzina di compagni strozzati alla gola dai lacrimogeni (Made in Japan e cancerogeni)  ritrovandosi nella vicina Piazza Alimonda. 
Ma si trovarono di fronte un nutrito drappello dei carabinieri del Tuscania.  Dopo un loro lancio di lacrimogeni e un paio di colpi d’arma da fuoco, partì una jeep a tutta manetta verso il gruppetto di compagni. Tutto si svolse in un attimo e dalla camionetta fuori controllo partì un colpo di pistola. Il giovane più vicino al mezzo cadde in una pozza di sangue. La manifestazione di quel venerdì nero di luglio era finita in una tragedia, peraltro annunciata, della quale si sarebbe parlato a lungo negli anni a venire”.
Se mi occupo di un remake, giunto in un solo anno alla terza edizione è mia intenzione dare, in fottuto ritardo, un giusto riconoscimento all’autrice, Giuliana Argenio, esordiente, col suo romanzo “Vento Rosso” (Edizioni Il Filo, Roma, 2007). 130 pagine redatte con un’insolita prosa poetica. Vi chiedere la motivazione di proporlo soltanto adesso. Il suo discorso si avvolge al quel virus di anti libertà a manifestare il dissenso che contagiava a causa del Governo di allora attraverso la violenza e le pallottole di Stato. Vi ricordate chi governava? Al G8 di Genova in realtà gli uccisi furono 3, anzi 4; 8 mesi dopo una compagna di Firenze sarebbe morta di cancro causato dai lacrimogeni.
I personaggi protagonisti erano, e sono tutt’ora vivi (secondo una mia recente intervista alla Argenio anche se citati con nomi di fantasia) e i fatti sono reali, a parte l’ultimo epilogo (inventato) col tragico incidente d’auto di Gruber, in quanto per l’autrice doveva sparire(?).
Questa recensione prosegue dando spazio “autonomo” ad alcune citazioni dal libro: “Mauro Gruber parcheggiò sottocasa, nella primissima periferia di Padova la sua Mercedes S.W. 200, a ridosso del muretto di recensione. Scese malamente dall’auto, l’alcol gli annebbiava la vista e ancora gli doleva il costato per le fratture rimediate a Genova nonostante fossero trascorsi più di 4 mesi da quella terribile giornata…La luce al neon al terzo singulto si illuminò all’interno dell’attico…Davanti a lui le gigantografia del “Che”…il minuscolo scrittoio liberty in noce nazionale sul quale giacevano pile di libri… Autori quali Dylan Thomas, Eliot, Bukoswki, della Wolf, Pavese, Baudelaire, Dostoevkij, Verlain, Camus, Montale, Ungaretti, Sanesi e…”Alla ricerca del tempo perduto” di Proust, che tra le sue pagine sarebbe stato nitore dell’ultimo messaggio a  Emma… Intanto ondeggiava come una zattera alla deriva…crollò sul letto vestito com’era…post-it gialli alla rinfusa con decine di numeri delle tante donne che frequentava, il telefono morto sul pavimento. Si accese una sigaretta, tracannò l’ultimo quarto della bottiglia di Lagavullin mischiandoci una trentina di gocce Minias. La sveglia digitale marcava le 0.3 e 40…L’incubo si ripresentò come ogni notte: Mauro, alis “Vento Rosso” mirava vicino, a pochi metri da lui l’uomo raggomitolato a terra. Poi l’eco del colpo della P.08. Il colpo lo portò alla veglia alle cinque di pomeriggio del giorno dopo con l’ansia che lo stava divorando…”
 Con Gruber gli altri protagonisti: Emma,  Lucio Bertani, Fiamma, (nel contorno, Virginia, Margherita, figlie rispettivamente di Emma e Mauro… e Stefano Montesi, ex marito e noto jazzista internazionale)…  Emma, la donna che  ama senza riserve Mauro conosciuto attraverso Internet ; breve ma infuocato il loro incontro: “Mauro stava al telefono, seduto al posto di guida con la portiera aperta davanti la Basilica del Santo. Emma gli arrivò alle spalle mormorando: “Buonasera”. Scese tendendole la mano dopo aver liquidato in fretta il suo interlocutore. La sconosciuta, bella , di classe, apparentemente; bionda e occhi neri lucenti di malinconia…
In quella dannata sera di novembre a cena, interrotta da una telefonata che gli comunicava: “tuo padre sta morendo…Partì subito facendo sgommare la macchina. Arrivò 2 ore prima del decesso. Assistette all’agonia del padre col cuore frantumato… Mauro, ritornò al passato. Mauro sempre tormentato, Mauro che si distruggeva in perenne bilico tra alcol, politica, poesia e dipendente dal gioco d’azzardo. Mauro che incontrava sempre più raramente la figlia Margherita, 12enne. Gli rimaneva l’amico e compagno di estrema sinistra da sempre, Lucio Bertani, a cui avrebbe affidato due lettere-testamento prima di scappare sotto falso nome a Caracas presso Fiamma, una delle sue ex in America Latina. Una alla figlia, l’altra per Emma. Prima che l’aereo decollasse da Bologna si abbracciarono a lungo e disse a Lucio: Se non mi faccio vivo entro 6 mesi, spediscile”.
Tre giorni prima era andato “in bandiera” in Valle d’Aosta presso il suo amico René, tra i primi fondatori della lotta armata contro uno Stato praticamente fascista…”Emma parcheggiò la sua Audi, entrò dal cancello semichiuso e fu davanti la porta di Mauro. Stranamente era aperta. Varcò la soglia chiedendosi dove fosse sparito ormai da 3 giorni senza sue notizie…L’appartamento sembrava essere stato spazzato da un uragano. I mobili spostati dai muri, le supellettilili in frantumi. Passò sopra le gigantografie del “Che” nude dei vetri che giacevano a schegge sul basco e sul sigaro…Andando verso lo studio vide la sua camera. Il materasso giaceva sbilenco nel letto, l’armadio spalancato con gli abiti a terra sparsi dappertutto…Lo studio: il grande tavolo neve dall’altra parte della stanza pericolosamente in bilico sui libri sparsi in ogni dove…Poi vide, all’entrata, il volto di una sconosciuta in sottoveste e bigodini…”Mi scusi, sono la vicina, sussurrò. La Polizia, mi pare della Digos, è arrivata ieri sera alle nove. Hanno suonato da me…Gli agenti in borghese con altri coperti da tute bianche hanno fatto un sacco di domande sul Signor Gruber e, avevano un mandato…Poi hanno sfondato la porta e, quelli con le tute bianche e mascherine puntavano dappertutto un oggetto che emanava una luce azzurrognola. Ma cosa può aver fatto il Signor Gruber? Abita qui da più di un anno e non ha mai disturbato nessuno. Era gentile ma riservato. Lo sa che era uno scrittore e aveva un’agenzia di pubblicità, di reclame insomma?”. (L’idea di non rivederlo più le chiuse il diaframma in un pugno e udì i passi lesti della solitudine raggiungerla nuovamente.)
“Fu convocata il giorno successivo in Questura dall’Ispettore De Falco. Raggiunse il piano degli uffici della Digos. De Falco la fece sedere in una di quelle tipiche sedie rimaste dal tempo del fascismo. “Mi spiace di averla scomodata…Mauro Gruber, che ben conosce, è indagato per gli ultimi attentati contro il Tribunale di Venezia, quello alla Celere di Padova e del Comando Nord-Est dei carabinieri, e, altro ancora…” L’uomo leggeva da una voluminosa cartella rosa gonfia di documentazioni…”Lei sa dov’è?”…”Faccio prima a dirle cosa so di lui. So dove abita, che scrive e lavora presso la sua agenzia di pubblicità, ho i suoi numeri di telefono e francamente non lo sento da giorni”, rispose Emma rasentando l’antipatia per ila classico sbirro di destra.
“Se Gruber non salta fuori entro 48 ore, sarà ricercato dall’Interpool e, avrà parecchi fastidi pure lei”. Congedandola con aria di falsa benevolenza non aveva esitato a “provarci” in modo untuoso…”Pare che questa cretina non abbia molto da raccontarci su quel figlio di puttana”, disse rivolgendosi al Vice-Ispettore Lo Cascio…”Intellettuali dei miei coglioni…una bella pulizia ci vorrebbe! Lo Cascio, bisognerebbe ripristinare la pena di morte, il gregge deve stare compatto se vuol brucare, le pecore che si staccano vanno bastonate per poi cucinarle in croccanti “gnumareddu”…Uscita dal casermone, vide che la strada pullulava di traffico. Un clacson irritato la bloccò sul passaggio pedonale. Intanto Mauro le mancava sempre più dolorosamente, questo era il problema più serio…A un mese dall’arrivo al My Alma col volo 328 della  Iberia a Caracas, Mauro non sopportava più la gelosia e l’insopportabile psicosi dell’avvenente Fiamma, per questo era rimpiombato nell’etilismo. Stramalediva soprattutto il sopraggiungere del fine settimana, lei non lavorava rimanendogli alle costole in modo ossessivo…e, a momenti, sarebbe rientrata; sessualmente disposta a tutto, pensando che lui fosse il suo unico amore…urla, gemiti e orgasmi inesistenti come una cagna in calore…”Se va my amor? Su, andiamo in città a far follie”…”Guido io”, disse mauro mentre si dirigevano verso il centro. Da lì sarebbe fuggito prendendo il primo volo per l’Italia. Pensava alla figlia, a Emma e a Lucio. E invece quella pazza manteneva il volante. La “rossa”, come la sera precedente, fu presa da una violenta crisi isterica. Urlò e urlò ancora:”Nooo…nooo, non te ne andrai, non te ne puoi andare”..Acellerava sempre più spericolosamente…poi l’auto sbandò, inceppo le ruote nella buca dell’asfalto che pareva un colabrodo e franò inevitabilmente fuoristrada…Siamo all’epilogo di un romanzo che nasconde magistralmente densi misteri e…segreti. Quale è stato il vero destino di Mauro Gruber? Qualcosa all’ordine del destino lo avrà salvato? Vive ancora?
Il titolo del terzultimo capitolo della Argenio lo fa supporre ai pochi svegli di mente: “PER ME LA TUA VOCE SI E’ FATTA MUTA”. Concludendo: “Dicono che nevicherà tutta la settimana e che il prezzo del petrolio non è mai stato così alto…Dicono…L’unica immediata certezza, Emma la scorse guardando dalla finestra. La neve continuava a cadere, leggera come piccole piume..Così anch’io chiudo la recensione più lunga che abbia mai scritto, non prima di segnalare a fine libro una lunga ma bellissima poesia su “Vento Rosso” scritta dalla figlia Barbara Marin, augurandovi che, oltre l’attuale virus, non ne ritornino altri ben più assassini.
GIULIANA ARGENIO
VENTO ROSSO
Ed. Il Filo, Roma – 2007)
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        Con il romanzo “Vento Rosso” un esordio travolgente per Giuliana Argenio Con il romanzo “Vento Rosso” un esordio travolgente per Giuliana Argenio di TIBERIO CRIVELLARO “Al G8 di Genova (luglio del 2001), Mauro Gruber aveva resistito all’ennesima carica della Celere che sciabolava con i manganelli.
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reggieash · 5 years
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charlene & reginald
           📍 new york / reggie's place            📅 may 11th, 2019                   ( . . . )  
   ‹‹   non diciamo fesserie, per piacere. burger king batte mc donald's mille a zero, e se provi a dire il contrario verrai assolutamente radiato dalla mia famiglia.  ››    dando un morso al panino che aveva in mano, charlie incitò il cugino a mangiare il tacos che gli aveva portato: dilettarsi in una merenda leggera, a base di fritto e salse varie, era sempre stato il loro hobby preferito, e quel giorno la cosa / non poteva / variare. nel pieno della loro creatività, infatti, i giovani stavano scrivendo seduti fianco a fianco, lavorando ad un duetto che, chissà - - magari li avrebbe portati da qualche parte.    di soppiatto, charlene rivolse uno sguardo a reggie, il cui sguardo stava vagando per il soffitto grigio della sua sala registrazione. la ragazza amava quel posto dal momento in cui il biondo lo aveva sistemato: aveva assistito al progetto, alla costruzione, alla rifinitura di quella stanza, e sentiva un po' / suo / quello studio. sorridendo, charlene posò il panino e si avvicinò al tavolo, facendo scorrere la sedia sul pavimento.    ‹‹   / the stars that we wish on are only airplanes /. che te ne pare?  ››
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.    “ sei seria? non lo senti quanto è terribile questa salsa? ”    “ e comunque ormai è diventata un’abitudine essere radiato dalle famiglie “, commentò con un mezzo sorriso e una scrollata di spalle, infilandosi in modo poco galante mezzo tacos in bocca.    la presenza di charlie nella sua vita era una delle poche cose di cui poteva essere certo. era la prima volta che un legame di sangue si trasformava per lui in un legame affettivo, escludendo il proprio rapporto con la sorella gemella.    si rese conto di essersi distratto dalla conversazione che stava avendo con la cugina, quindi scosse leggermente la testa e rivolse di nuovo lo sguardo verso di lei, sorridendo.    “ sì, io la metterei nel ritornello, subito dopo /the light at the tunnel is a runaway train/, così possiamo portare avanti questa sorta di immagine di illusioni che vengono rotte e svelate. “    scribacchiai le parole che mi aveva suggerito sul foglio e mi grattai la testa con la matita, “ ora cosa vorresti scrivere? secondo me ci stanno bene altri due versi... ” 
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                ( . . . )      charlene, con la fronte aggrottata ed un'espressione concentrata stampata sul volto, stava ascoltando il cugino solo a metà: aveva ragione, però, nel ritornello ci sarebbero state bene altre due frasi - - ma cosa scrivere? come continuare quell' / immagine / che lui aveva appena citato?    ‹‹   the light at the tunnel is a runaway train, the stars that we wish on are only airplanes . . .  ››    improvvisando una melodia nuova, charlie canticchiò le parole che lei e reggie avevano scribacchiato, aspettando che l'ispirazione la cogliesse impreparata. la maggior parte dei brani scritti dalla ragazza, infatti, non erano mai stati pianificati o strutturati alla lettera: certo, la logica entrava in ballo successivamente, quando si trattava di rifinirli, ma di primo impatto la giovane wallace scriveva di getto quello che le veniva in mente, per evitare di perdere anche solo un briciolo di ispirazione.    ‹‹   . . . the love that we're chasing is a - - a - - oh, aspetta, ce l'ho. / the love that we're chasing is a heart break away.  ››    con aria incuriosita, charlene guardò il cugino, sorridendo e annuendo convinta, come a chiedergli tacitamente se approvasse o meno le parole a cui aveva pensato.
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.    Reggie dimenticò velocemente il battibecco sul cibo, in quel momento Charlie era completamente presa dalla canzone che stavano scrivendo e ogni altro argomento passava in secondo piano.    si sedette sullo sgabello di fronte alla tastiera e accompagnò la voce della cugina, cercando di trasformare in melodia le note su cui stava cantando, arrivando a comporre un giro di quattro accordi per i primi due versi: Do, La minore, Mi minore e Sol.    « è perfetto, scricciolo. che ne dici ora di fare che l’ultimo verso sia per due terzi solo voce tua e alla fine ci riuniamo con il coro? potrebbe essere una cosa come       /'Cause we're picture/, e qui facciamo una pausa       / perfect/, un’altra pausa       / in a broken frame/, e qua uniamo le nostre voci di nuovo?     secondo me abbiamo scritto il ritornello perfetto. ».
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.                  ( . . . )      ‹‹   oh, dannazione. credo che questa sia la cosa migliore che le nostre due menti abbiano mai prodotto.  ››    osservando il foglio dinanzi ai propri occhi, charlie sorrise e spostò lo sguardo sul cugino, come alla ricerca della stessa luce che le stava illuminando il viso. lei e reggie scrivevano insieme da una vita, ma niente era mai stato così / buono /. quello era materiale serio, materiale da album - - e la sola idea fece sbocciare un sorriso sul volto della ragazza.    ‹‹   / broken frame / potrebbe essere la prima canzone pubblicabile, cous. ne sei consapevole?  ››    un po' per testare il suono del titolo, un po' per provare l'ebrezza di dire quella frase, charlie notò come entrambi avessero scritto un paio di strofe, un ritornello e l'accenno di un bridge - - ed ecco che all'improvviso, davanti agli occhi della giovane, si palesò per intero quella canzone, che era a dir poco mozzafiato. almeno per lei.    passandosi le mani tra i capelli, charlene scoppiò a ridere, forse troppo emozionata dal momento, e senza alzarsi dalla sedia abbracciò reggie sventolando il testo della canzone.    ‹‹   una canzone, abbiamo una canzone / quasi / intera! oddio, sono euforica. e ora?  ››
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.    saltò immediatamente in piedi, precipitandosi verso una delle scrivanie sulle quali era riposta in modo confuso tutta l'attrezzatura che usa solitamente per registrare.    si procurò un microfono a condensatore, un filtro antipop e la scheda audio e - perché no - un pacchetto di cheetos.    tornò velocemente a sedersi accanto alla cugina, collegò i vari strumenti al pc e prese in mano la chitarra.    « registriamo. adesso. facciamo una prima registrazione grezza. intanto tu canti e io provo a suonare la melodia a cui avevo pensato. per ora mi limiterò ad unirmi solo nel ritornello, come coro. che ne dici? ».    accese il microfono, fece partire la registrazione e cominciò a suonare il primo giro di accordi, arpeggiando in un paio di modi diversi le note, prima di trovare la combinazione che gli sembrava migliore. senza disturbare la registrazione, cercò lo sguardo di Charlie per poi comunicarle muovendo leggermente la testa di cominciare a cantare. era sicuro che quella canzone avrebbe riscontrato un notevole successo. quella e tutte le future canzoni che avrebbero scritto e registrato insieme.
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.                  ( . . . )      gli occhi di reginald brillavano di una luce che charlene sapeva essere uguale a quella che splendeva nei suoi occhi. ammirò lo studio di registrazione con occhi nuovi, e portò una mano alla labbra quasi emozionata.    per un periodo infinito, la giovane wallace era stata bloccata nella scrittura e nella composizione, e vivere senza il suo hobby preferito era vivere come con un arto mozzato: faceva male, eppure non era lì. vivendo appieno perdita e dolore, charlene wallace aveva imparato ad escludere qualsiasi cosa che le provocasse emozioni, belle o brutte che fossero: non sentire nulla era infatti, improvvisamente, divenuto meglio che provare qualcosa.    ma non quel giorno. col cuore che le esplodeva nel petto e le orecchie che fischiavano dall'euforia, charlie rilassò il corpo non appena udì reggie suonare, e si abbandonò a quella melodia incerta che divenne mano a mano più sicura.    gli occhi erano sempre puntati sul cugino quando lui le fece cenno di iniziare a cantare. e fu allora, guardandolo negli occhi, che charlene inspirò profondamente . . .    e cantò.
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giancarlonicoli · 4 years
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2 GEN 2020 17:411. ‘’IN TUNISIA C’ERANO DUE MADAME CRAXI, IO E ANNA, SUA MOGLIE’’ - INTERVISTA A PATRIZIA CASELLI 2.  “IO AMANTE? NO, COMPAGNA. C’ERO IO, E SPESSO DA SOLA, AD HAMMAMET CON CRAXI, NEGLI OSPEDALI, AL TELEFONO CON ARAFAT O A VEDERE DALLA SPIAGGIA GLI AEREI CARICHI DI AMICI O PRESUNTI NEMICI CHE FACEVANO MILLE SCALI PER ATTERRARE DA NOI SENZA ESSERE NOTATI'' 2. ''PER ME NON È ANCORA DIVENTATA UNA STORIA: RESTA UNA FERITA’’ – GLI INCONTRI CON ANJA PIERONI, AMANTE STORICA DI BETTINO, E CON STEFANIA CRAXI - FOTO HOT
Alessandro Penna per Oggi.it
«Il racconto degli anni di Hammamet senza la mia voce o la mia versione è quasi per forza un racconto zoppo, mutilato: c’ero io, e spesso da sola, lì con Craxi, negli ospedali, al telefono con Arafat o a vedere dalla spiaggia gli aerei carichi di amici o presunti nemici che, come diceva lui, “facevano il giro dell’Ulanda”, con mille scali, per atterrare da noi senza essere notati o segnalati. Ma io sono contenta di non esser stata coinvolta nel film: in fondo mi hanno tutelato, non ero pronta a parlare di quella storia, perché per me non è ancora diventata una storia: resta una ferita».
Patrizia Caselli è, nell’iconografia un po’ sommaria della Prima Repubblica, la seconda amante di Craxi (la prima, molto più strombazzata, fu Ania Pieroni), la donna che l’ha “sposato” nella cattivissima sorte: un anno di potere, uno di stillicidio giudiziario e sei di latitanza tunisina culminati nella morte per arresto cardiaco, il 19 gennaio del 2000.
59 anni, una solida carriera da autrice e conduttrice in tv, non aveva mai concesso interviste, a parte il lungo racconto rovesciato 13 anni fa nel registratore di Bruno Vespa (che più volte ha detto d’esser uscito da quell’incontro «con le lacrime agli occhi»), finito in un capitolo di L’amore e il potere. Ora che esce Hammamet (il 9 gennaio), il film di Gianni Amelio che racconta il viaggio esemplare dal potere alla polvere del leader socialista, ci concede una chiacchierata che diventa piano piano intervista.
Andrà a vederlo, il film?
«Non lo so, non credo di sentirmela. Pensi che, per vie traverse, ho avuto la sceneggiatura, che mi dicono preziosissima, e non l’ho mai neppure sfogliata. La sola idea di trovarci il suo nome, tra le righe, mi paralizzava. Mi sono capitate sotto gli occhi le foto di una scena, e fanno impressione: Favino è, mi passi l’aggettivo adolescenziale, “supersomigliante”. Non vorrei, però, che il film si riducesse a questa specie di clonazione».
Neppure il trailer ha visto?
«No. Ripeto: so che sono passati 20 anni, e che il tempo di solito è galantuomo, ma non ho ancora il distacco giusto per godermi quello spettacolo. Mi auto-proteggo».
Non sa nemmeno che la parte dell’amante la fa Claudia Gerini?
«Me lo dice lei adesso. Però non mi chieda se mi ci rivedo: “amante” è una parola che non mi inquadra».
E qual è, una parola che la inquadra?
«Compagna. Compagna in un pezzo difficilissimo e crepuscolare della sua vita, che però proprio per questo è stato pieno di momenti autentici. Craxi ha reagito alla perdita del potere in modo sorprendente: spogliato del ruolo, della iper-responsabilità, ha ritrovato il gusto delle cose semplici. Tutti lo immaginavano abbarbicato al fax, a difendersi dagli attacchi, a rintuzzare la valanga d’accuse che gli cadeva addosso, ma è un’immagine sfuocata. Me lo diceva spesso anche lui».
Cosa le diceva?
«Che, pur nell’esilio, si sentiva liberato. Che la Tunisia era anche una boccata di ossigeno. Mi diceva: “Ho vissuto anni in cui c’era gente che si occupava persino di dove dovevo sputare”. Camminavamo sulla spiaggia, guardavamo l’Italia, mi pizzicava la mano: “Se fossi rimasto laggiù, al potere, queste passeggiate, questa normalità sarebbe stata impossibile. Qui sono tornato a essere una persona”».
Lo sa che Ania Pieroni si è molto indispettita per il film? Pare abbia querelato i produttori di Hammamet perché lei sì, si rivede nella Gerini.  
«Non la giudico. Anche perché l’unica volta che l’ho incontrata si è dimostrata diversissima da come me l’avevano dipinta».
Quando l’ha incontrata?
«Nel 2005, all’hotel De Russie, a Roma. Facevamo colazione nella stessa sala, io l’ho vista, ma non ho fatto un passo: sono discreta, e poi non sapevo come avrebbe reagito».
E siete rimaste così, a guardarvi senza parlare?
«No. Lei si è avvicinata, io mi sono alzata e ci siamo come allacciate: “Io e te possiamo solo abbracciarci, abbiamo voluto bene allo stesso uomo”, mi ha detto».
Con Stefania Craxi che rapporti ha?
«Strani. Anche lei l’ho incontrata per caso, a casa di amici comuni ed è finita che mi ha pianto sulla spalla, dicendo: “Grazie di esser stata vicina a papà”. Poi, però, alla padrona di casa ha detto: “Se inviti ancora Patrizia, non mi vedi più”. Ma la capisco, era sincera in entrambe le occasioni».
In che senso?
«Nel senso che ha dentro una “divaricazione” che non può evitare. Da un lato, sapeva che ogni figura che andava ad Hammamet, compresa la mia, era vitale per Craxi. Dall’altro, non poteva che stare dalla parte della mamma (Anna Maria Moncini, la moglie di Craxi, ndr). Mi spiace solo che non ci siamo mai regalate l’opportunità di sederci da sole a parlare un po’. Vorrei trasferirle cose che mi ha detto di lei suo padre, cose belle: sarebbe giusto ridargliele. Purtroppo, scomparso lui, ci siamo tutti divisi: è stato anche il grande errore dei socialisti».
Che amore fu, quello con Craxi?
«Glielo descrivo con i fatti, anzi, con un fatto. Lasciai l’Italia e un contratto in esclusiva con la Rai per seguirlo in Tunisia. Stare con lui – umiliato, deriso, vinto – è stato un “disinvestimento”: per capirlo, dovrebbe aver nitida nella testa, come ho io, la faccia che fece mia madre quando le dissi che mi trasferivo ad Hammamet».
Si giocò la carriera, la reputazione, tutto.
«Eppure è stata la decisione più facile della mia vita. L’allora direttore di Rai 2, Giampaolo Sodano, mi disse: “Io ti confermo, ti tengo il posto, magari ci ripensi”. Anche Craxi cercava di frenarmi: “Aspetta ancora un po’, hai la tua vita da vivere, il tuo lavoro, casomai mi raggiungi”. Ma io non ho mai neppure considerato l’idea di non partire con lui».
Quando Craxi morì, lei era a Milano.
«Buffo, no? In Tunisia c’erano due Madame Craxi - io e Anna, sua moglie - eppure quando lui ebbe l’attacco aveva accanto solo Stefania. Presi l’aereo, mi misi sulla mia “Peugeottina” rossa, che tengo ancora ad Hammamet, e andai in ospedale».
La leggenda vuole che si fece passare per la figlia.
«La storia invece sa che la sua scorta non mi avrebbe mai confuso con Stefania. Mi conoscevano, io conoscevo loro, le loro mogli, il modo in cui scherzavano. Mi fecero passare, si “aprirono”, diventarono un cordone. Mi lasciarono da sola in obitorio con Craxi».
Perdoni l’indelicatezza, ma le due Madame Craxi come facevano a convivere?
«I ruoli erano molto chiari, nessuno negava che io esistessi, c’era il massimo rispetto. Spero che il film non ometta questa parte e mostri la classica amante da feuilleton, che arriva di nascosto: sarebbe un’operazione poco chiara. Si viveva, anche, nel rispetto dei luoghi: io me ne stavo in una casa in affitto, evitavo le spiagge che frequentava Anna, il “suo” campo da golf. Ma non pensi che fosse tutta una passeggiata: giravo con l’elmetto e la tuta mimetica, Craxi aveva una scorta tunisina di nove uomini. Il clima era terribile, dall’Italia piovevano continue minacce di morte».
Ci va ancora ad Hammamet?
«Sì, mio figlio François (adottato con l’ex marito, il medico Alberto Bossi, ndr) adora quel posto. Vado sempre al cimitero cattolico, che è di una bellezza stupefacente: sul mare aperto, di faccia all’Italia. Vado lì e chiacchiero».
Con chi?
«Con Kamel, il custode della tomba di Craxi: lui ci sarà nel film, me l’ha confidato. Kamel mi mostra il libro delle visite, mi fa tradurre le frasi che non capisce, si arrabbia se contengono insulti o con chi si fa i selfie con la tomba come sfondo. Ma io gli dico: “Kamel, vanno lasciate anche le parole brutte, le critiche”».
Che critiche si sente di condividere? Che difetti aveva, l’uomo Craxi?
«L’uomo era di enormi sentimenti. Mi creda, anche quando era in disgrazia, ad Hammamet, riceveva tutti, cercava di aiutare tutti: disoccupati, pittori falliti... Forse è vero che il politico era un po’ arrogante, ma era un’arroganza che poteva permettersi. Purtroppo finì per pagare anche arroganze non sue, i veleni di tutto un partito, le storture di tutto un sistema. Lui che era un gigante, così diverso dagli altri, e così superiore, divenne un riassunto, il simbolo della casta. Il film - che temo racconterà la solita storia, vista dal solito punto di vista - potrà forse riaprire un dibattito, ma il dibattito vero dev’essere politico».  
Cosa si aspetta da quel dibattito?
«Anzitutto che restituisca a Craxi la sua grandezza di uomo di Stato. Per difendere l’Italia batteva i pugni sul tavolo di Reagan, andava da Gheddafi e gli diceva: “Se lanci un altro missile su Lampedusa, prendo i miei e li punto tutti contro di te”. Poi magari finiva in abbracci e cous cous, ma la sua collera era credibile, la sua dedizione totale. La cosa più importante, però, è che si faccia luce su quegli anni».
Quali?
«Quelli di Tangentopoli. Hanno spazzato via un’intera classe politica, creando un vuoto pericolosissimo: avrebbe potuto occuparlo chiunque. Qual era il disegno? Di chi? Perché ogni sei ore uscivano dossier, avvisi di garanzia? Dobbiamo farci queste domande».
Gliene faccio un’ultima io: perché lo chiama sempre, anche nel ricordo, Craxi?
«È un modo di proteggerlo, di non condividerlo. Lui è Bettino solo se ne parlo con gli amici intimi, lui è Bettino solo dentro di me».
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ROMA parte prima 
Per diverso tempo abbiamo pensato di lasciare Roma.
Ci siamo studiati regioni italiane e località di ogni genere, da nord a sud, da città più o meno grandi a piccoli paeselli sperduti. In questa disamina geopolitica della nostra penisola, per capire se e dove mettere nuove radici, abbiamo avuto pochissime certezze. Qualche eccellente escluso, tipo no Milano troppi affari, no Firenze troppa bellezza e turisti, no Reggio Calabria e isole ma solo perché troppo lontane, e qualche meta favorita che da sempre è nel nostro cuore, tipo Torino e tipo Lecce. Con loro due una vera relazione a tre, per cui assolutamente valida anche l’ipotesi sei mesi Torino e sei mesi Lecce, trasferimenti con visita ai parenti lungo la penisola annessa.
La premessa indispensabile è che Officine Gualandi offre pochissimi lussi ma, fra questi pochi, uno fantastico: se decidessimo di puntare esclusivamente sull’online, potremmo impiantare l’attività un po’ dove ci pare. Non male, eh?!
Nella borsa frigo giusto uno snack da consumare sul divano, quello che segue è stato più o meno il nostro viaggio virtuale per l’Italia compiuto nel 2017.
Per un periodo abbiamo pensato di rimanere nel Lazio, direzione Viterbo, quartiere San Pellegrino, dove la storia è medievale e, immaginiamo, anche il traffico… Sempre Lazio ma estremità meridionale, Gaeta, sul mare. Fra i punti di riferimento la spiaggia bianchissima di Serapo, la “Montagna spaccata”, il porto, le case del borgo dei pescatori e la tiella ripiena. Poi è stata la volta dell’Umbria, nello specifico Foligno o Spoleto, piccole, ordinate, a misura di bimbo. Altra regione al centro di animate discussioni la Basilicata, per ovvie ragioni, io sono nata a Roma ma come origini sono lucana. Luoghi incantevoli che adoro per via dell’infanzia ma soprattutto per la loro segreta bellezza. Dalla provincia di Potenza a Matera è tutto un incanto per animi sensibili e non sono per nieeeeeeeente di parte... Rimanendo al sud, ci siamo detti, perché non Trani?! Avete mai visto Trani?! Ci siete passati anche solo una volta di sfuggita??!! Ecco, allora sapete di cosa si parla quando si dice cattedrale sul mare. Altro giro, altra corsa, come su una giostra impazzita, ecco spuntare Lucca dove non siamo mai stati, grave, ma grazie alla quale i visi di chiunque si illuminano quando la nomini. E poi ancora Padova, Bologna, la campagna piemontese, Anguillara, Salerno, Trento, Narni. Con l’immaginazione è facile trasferirsi ovunque ma, se alcune di queste sono state solo oggetto di vaghissime idee, per altre abbiamo preso puntuali informazioni e addirittura avviato i primi contatti.
Poi, alla fine, si è restati.
Con una punta di nostalgia per tutti questi piani disattesi ma con determinazione, consapevolezza e tenacia, abbiamo deciso di lasciare Officine Gualandi dov’è, a Roma.
Affrontiamo oggi questo delicato argomento dopo che tante volte l’ho rimandato nella programmazione del blog dello scorso anno. Ne avrei scritto di tutti i colori su questa città, motivando tutte quelle ragioni che ci spingevano ad andare via. Quest’anno finalmente ne posso scrivere, non perché la situazione da queste parti sia miracolosamente migliorata, tutt’altro, ma solo perché siamo usciti da quella terribile indecisione che ci aveva attanagliato. Qui o altrove?! Qui o altrove?! Qui.
Non per n motivi, bensì per 3 motivi 3, così quantificabili e precisi che quasi mi spavento per tutta questa lucidità che non ho mai avuto in vita mia!
Motivo 1. La gestione familiare.
Inutile ciarlar di massimi sistemi se prima non si riconosce la parte più pragmatica della faccenda, tipo che l’impresa che ci siamo prefissati di compiere è gravosa, che con un bimbo piccino una mano ogni tanto è d’aiuto, che abbiamo qualche spesa in meno, ecc.
Motivo 2. Non solo online
Bene, benissimo la vendita online, ampliarla sarà uno degli obiettivi anche nel corso di questo 2018 ma, se fino all’anno scorso ci saremmo forse adattati a questo unico tipo di vendita, stiamo valutando seriamente di avviare anche la vendita tradizionale. Vorremmo mettere su una bottega insomma, in totale controtendenza. Un po’ la nostalgia del contatto umano, un po’ la voglia di differenziare i canali di vendita, un po’ l’esigenza ogni tanto di mettere giù il cellulare e alzare lo sguardo altezza uomo. Il progetto è un po’ più articolato di così ma è prematuro parlarne, anche perché prima di dirle le cose andrebbero fatte, perché poi si finisce a non farle e noi, porca paletta, le faremo! Ora se il piano è questo, abbiamo bisogno di più utenza possibile e Roma su questo fronte, almeno su questo, non è seconda a nessuno!
Motivo 3. Roma, come diresti tu, aripijate!
Effettivamente Roma ha qualche problemino, infierire non sarebbe neanche giusto, basti dire che far fagotto sarebbe molto invitante. Eppure non siamo affatto sicuri sarebbe la scelta giusta. La nostra attività sta crescendo, è in quella fase delicatissima in cui prende velocità ma in cui se molli si ferma. Un trasferimento ci obbligherebbe ad un arresto per un periodo non ben precisato. Ora che dobbiamo mettercela tutta, ci fermiamo?!
Quindi noi ci rivolgiamo accoratamente a te, Roma, non come farebbe Remo Remotti per dirti addio, ma per dirti che… noi restiamo!! 
Tu datti un tono, metti dei filtri, fai un restyling, qualunque cosa insomma ma, cara Roma, la necessità di cambiamento è davvero ai massimi storici! A Roma c’è tutto e non c’è niente e noi, guarda un po’, vogliamo lavorare e riporre la nostra fiducia proprio su quel tutto!
Continua...
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