È iniziato tutto per caso.
Eravamo giovani ed inesperti.
Quell'inesperienza che ti fa vedere il mondo color rosa pastello.
La voglia di viverci, di amarci senza sosta.
Quell'amore giovane che pensi sarà per sempre, che nessuna difficoltà o persona scalfirà.
Passano gli anni e le difficoltà.
Sempre insieme, mano nella mano.
Poi un giorno uno dei è distratto; l'altro cade.
Chiede aiuto, ma niente.
Una volta, due.
È costretto a rialzarsi da solo, alla fine.
Il rapporto lentamente si sgretola; intrappolato nelle ripicche, lacerato dai litigi e soffocato dalle lacrime.
L'amore è solo uno sbiadito ricordo della giovinezza.
Un ricordo di quel che era e che adesso non è più.
Un rapporto schiavo della dipendenza.
Affettiva. Economica.
Servo della paura.
Paura del futuro, del "come sarebbe se...".
Inerme davanti ai sogni ancora non realizzati, che aspettano lì, in fondo ad un cassetto, coperti dal rancore.
Rancore di parole non dette, parole sussurrate.
Sogni che si immobilizzano.
Una colata di cemento sopra.
Induriscono così il cuore.
Due anime gemelle che hanno perso il desiderio di amare. Di amarsi. Di farsi amare.
Amare da loro stessi. Amati dall'altro. Amati da altre persone.
Una vita trascorsa ad appassire lentamente tra le lacrime di sogni inespressi e desideri sopiti.
Desideri a cui vengono strappate le ali per paura di veder loro spiccare il volo e magari realizzare la nostra felicità.
Ma essere felici a discapito dell'altra persona, ha senso?
È una vera felicità essa? Oppure è un egoismo vestito a festa?
Si può essere comunque felici, pur procurando sofferenza a qualcuno a cui si è giurato amore eterno?
Si può barattare la nostra felicità per la felicità dell'altra persona?
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Chi ti ha detto impossibile?
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Dire che secondo la scienza ed il sistema non c’è nulla da fare, che non ci sono rimedi, che non è possibile non significa che non esista la soluzione: il miracolo della tua mente...
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Sono felice, dove ho sbagliato? - Diego De Silva
Sono felice, dove ho sbagliato? – Diego De Silva
Ritrovare l’avvocato Malinconico è sempre una vera goduria, un mix esplosivo di ironia e battute al vetriolo che rendono la lettura sorridente dalla prima pagina, sono di parte perchè questo personaggio è il mio amico di una vita piena di imprevisti assurdi, ma con la sua autonalisi catastrofica e irriverente affronta le mille disavventure come se niente fosse…
E dire che questa volta il povero…
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Domani sarà il mio compleanno , niente candeline , niente brindisi , non voglio niente.
Anzi....un brindisi lo farò tornata a casa dal lavoro in silenzio guardando le stelle....brindato con chi è lontano ma dentro. Dentro in un modo magnifico.
Un'anno fà avevo il terrore di non arrivare all'anno dopo.....la malattia , la morte di papà , i vari problemi enormi che affronto ogni giorno mi stanno cambiando tanto...solitaria , silenziosa , schiva.... chiusa. Tengo talmente a ciò che ho da dire che ho poco piacere a condividere. Anche ora....basta scrivere.
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L'usignolo malinconico
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C'era una volta un usignolo malinconico. Nessuno lo voleva nel suo giardino, perché nessuno vuole conoscere la tristezza del cuore.
Nessuno lo voleva nei campi, soprattutto i fiori a cui la sua malinconia rovinava il fuoco dei vestiti. Perfino la luna, se lo ascoltava troppo a lungo, perdeva la curiosità per gli uomini, e si nascondeva in nuovi paesaggi.
Non per questo l'usignolo diventava piú malinconico; una legge della malinconia vuole infatti che non si possa essere più malinconici, di malinconici.
Forse l'usignolo non sapeva nemmeno di essere un usignolo malinconico, credeva soltanto di essere solo e cantava come sapeva.
Quello che l'usignolo non sapeva era che il suo canto ricordava a tutti qualcosa, non proprio la stessa cosa, ma una cosa dimenticata, una cosa ferita.
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Per questo non lo potevano soffrire.
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Un giorno, o meglio una sera, l'usignolo decise di trasferirsi in città. Perché le città sono piú generose, accolgono il rumore delle automobili, il frastuono degli autobus, lo sferragliare dei tram e tutti i veleni degli uomini; perché non la malinconia di un usignolo?
All'inizio, l'usignolo in città rimase in ascolto. Si posava su un ramo, su un muro, su una grondaia e ascoltava,
ascoltava. Quello che lo colpiva in citta erano i suoni, la qualità delle canzoni di città: erano ... erano... erano senza sentimento. E l'usignolo ascoltava, ascoltava poi si addormentava.
Cantava poco e quando cantava la sua voce era una goccia in un frastuono, questo faceva bene alla malinconia dell'usignolo; nessun suono lo giudicava nessuno si accorgeva delle sue malinconiche canzoni.
E cosi l'usignolo viveva in solitaria compagnia.
E passavano i giorni e anche i mesi e cambiavano le stagioni e anche i quartieri che ľ'usignolo visitava ed è un vero peccato che io non possa raccontarvi con quanta gentilezza l'usignolo viveva questi cambiamenti, senza neanche un sospiro e con quanta indifferenza la città non lo respingeva mai. Non posso raccontarli perché mi preme il destino dell' usignolo e quando ci preme il destino di qualcuno, non si perde tempo in particolari, ci si precipita subito nella sua vita.
Era una vita davvero sola quella dell'usignolo, non solitaria, perché erano cosí tanti intorno a lui, ma tanti o pochi fa lo stesso, erano intorno e non con lui.
E le sue canzoni acquistarono una graz1a nuova, piú segreta, una malinconia senza compagni, l'orgoglio di non essere ascoltati per scelta e non per rifiuto.
E tra i tanti mesi dell' anno venne agosto. E il fracasso con i suoi uomini si spostò altrove. In pochi giorni il silenzio crebbe, e crebbe anche l'eco.
L'usignolo, all'inizio un pò intimidito, di ramo in ramo si spostò fino a un grande albero di città, un albero dal nome difficile, ma dalle piccole generose foglie. E cantò.
Cantò la sua malinconia per non aver trovato rifugio nel vento, nel prato, nei campi e nel bosco; cantò perché la luna non lo aveva ascoltato, ormai troppo umana luna, e cantò la vanità dei fiori, i loro amori stagionali.
La sua malinconia cantò anche lo scorrere rumori senza sentimento, gli appuntamenti traditi il sensato affaccendarsi degli uomini.
Cantò il desiderio di un essere senza senso, cantò il pozzo profondo del cuore in cui nessuno vuole tuffarsi, cantò la fine dell'amore perché tutti temono la sua leggera morte, cantò la fine della gentilezza e cantò se stesso e la sua gratitudine per esser nato così malinconico.
E si aprirono le persiane di una finestra sulla notte della città deserta e apparve, proprio apparve, il volto bianco di una bambina.
Una bambina né spavalda né timorosa, rimasta indietro nel sensato affaccendarsi degli uomini, una bambina dimenticata.
Con le mani andava tastando il buio e sussurrava:
Chi canta da dentro di me?
Chi è uscito dalla compagnia del mio cuore? E anche l'usignolo riconobbe la malinconia di quella voce e volò sul davanzale:
- Sono io, sono te, - le scrisse col becco sulla mano.
La bambina gli volse il palmo, l'usignolo zampettò sul suo velluto. Non è che da quel giorno l'usignolo diventò meno malinconico, né meno dimenticata la bambina; solo, erano in due a cantare, la bambina con la bocca affondata nel cuscino, perché nessuno la sentisse, e l'usignolo lontano, nel cuore del fracasso, soli.
Cosí questa non è la storia di un usignolo né di una bambina, ma la storia di un canto e della sua risonanza.
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[ Chandra Candiani ]
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