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#Traduzione: Damiano Abeni
iannozzigiuseppe · 3 years
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Leonard Cohen - Poesie / 3 Morte di un casanova - Libro della misericordia - Traduzione: Damiano Abeni, Giancarlo De Cataldo - Prefazioni di Vasco Brondi e Leonardo Colombati - Minimum Fax
Leonard Cohen – Poesie / 3 Morte di un casanova – Libro della misericordia – Traduzione: Damiano Abeni, Giancarlo De Cataldo – Prefazioni di Vasco Brondi e Leonardo Colombati – Minimum Fax
Leonard Cohen – Poesie / 3 Morte di un casanova – Libro della misericordia Traduzione: Damiano Abeni, Giancarlo De Cataldo Prefazioni di Vasco Brondi e Leonardo Colombati Minimum Fax «È un libro segreto, per me, una sacra conversazione privata». Così Leonard Cohen ha definito il “Libro della misericordia”: un corpus di qualità altissima che gli ha valso, fra l’altro, il Governor’s General Award,…
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marcogiovenale · 4 years
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"5-6 minuti": damiano & abeni, "from the dairy..." – videolettura
“5-6 minuti”: damiano & abeni, “from the dairy…” – videolettura
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sei minuti circa di videolettura del libro “from the dairy of jonas & job…”, da parte di una maschera misteriosa + queste righe di Marco Giovenale:
Microeventi, notazioni dotte, memorabilia, incastri sintattici e calembours(spesso assenti in una lingua, aggiunti nell’altra, a creare non traduzioni ma diversioni, diversità) fabbricano qui un labirinto. Diviso in sette parti o tempi inventati da…
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paoloferrario · 5 years
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una poesia di MARK STRAND: Anziani sotto il portico di una casa di riposo, traduzione di Damiano Abeni, in Tutte le poesie, Mondadori, 2019
una poesia di MARK STRAND: Anziani sotto il portico di una casa di riposo, traduzione di Damiano Abeni, in Tutte le poesie, Mondadori, 2019
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yourskylimit · 7 years
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Cos'era da "Blizzard of one"
I Era impossibile da immaginare, impossibile da non immaginare; la sua azzurrezza, l'ombra che lasciava, che cadeva, riempiva l'oscurità del proprio freddo, il suo freddo che cadeva fuori da se stesso, fuori da qualsiasi idea di se' descrivesse nel cadere; un qualcosa, una minuzia, una macchia, un punto, un punto in un punto, un abisso infinito di minuzia; una canzone, ma meno di una canzone, qualcosa che affoga in se', qualcosa che va, un'alluvione di suono, ma meno di un suono; la sua fine, il suo vuoto, il suo tenero, piccolo vuoto che colma la sua eco, e cade, e si alza, inavvertito, e cade ancora, e cosi' sempre, e sempre perche', e solo perche', essendo stato, era... II Era l'inizio di una sedia; era il divano grigio; era i muri, il giardino, la strada di ghiaia; era il modo in cui i ruderi di luna le crollavano sulla chioma. Era quello, ed era altro ancora; era il vento che azzannava gli alberi; era la congerie confusa di nubi, la bava di stelle sulla riva. Era l'ora che pareva dire che se sapevi in che punto esatto del tempo si era, non avresti mai piu' chiesto nulla. Era quello. Senz'altro era quello. Era anche l'evento mai avvenuto - un momento tanto pieno che quando se ne ando', come doveva, nessun dolore riusciva a contenerlo. Era la stanza che pareva la stessa dopo tanti anni. Era quello. Era il cappello dimenticato da lei, la penna che lei lascio' sul tavolo. Era il sole sulla mia mano. Era il caldo del sole. Era come sedevo, come attendevo per ore, per giorni. Era quello. Solo quello. (da Mark Strand: "Blizzard of One" - 1998, traduzione di Damiano Abeni, ora in "West of your cities" - a cura di M. Strand e D. Abeni - Minimum fax - Roma 2003)
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pangeanews · 4 years
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Alla ricerca della “Parola unica e suprema”. In viaggio con René Daumal, “un cattivo ragazzo”
Una mappa è esaurita da chi la percorre. Quel segno, cioè, è compiuto dall’esperienza: la scia disegnata di un sentiero non riproduce ciò che c’è ora sul sentiero – e neanche gli scollamenti provocati da una inondazione –, il nome di un fiume è e non è quel fiume, in cui dobbiamo bagnarci per valutarne l’intensità, il colore, transitorio come noi che lo attraversiamo. Così, Controcielo, pubblicato nel 1936 – ma scritto anni prima –, è la mappa che René Daumal – figura australe e imprendibile della letteratura francese – ha ideato per accedere al Monte Analogo (ripubblicato da Adelphi in “edizione riveduta e ampliata”), è un gesto linguistico, cioè, precoce, parziale, superficiale, lo scrive lui, “sono più simili a un urlo che a un canto”, quei testi, “sono stati come una valvola di sfogo, mentre attendevo di meglio”. Allievo di Alain, fondatore, con Roger Vailland e Roger Gilbert-Lecomte, della rivista “Le Grand Jeu”, cercatore, entusiasta, rabdomante del senso, Daumal alternava gli allucinogeni al buddhismo tibetano, la lettura di Maldoror alla lascivia esistenziale. Quando pubblica Controcielo (edito da Tlon nella traduzione di Damiano Abeni, con una introduzione di Andrea Cafarella, che ho interpellato, sotto), Daumal ha incontrato Alexandre de Salzmann, che lo inoltra nella disciplina di Gurdjieff; per lui è una svolta, che lo porta al concepimento del Monte Analogo, “centro originario del mondo… punto di comunicazione con l’al di là” (questo è Roger Nimier, scrittore di genio, esegeta dell’ “intelligenza personalissima di René Daumal, che potremmo definire lirismo ironico”). Al di là della ricerca intima dell’autore, Controcielo è un libro importante: la lirica bordeggia l’ignoto, la poesia deve scandagliare gli scandali, questo è un manuale selvaggio, un formulario mistico (“Io ho forma, avendo negato ogni forma”; “Io subisco tutto ciò, dell’Altro patisco, io il cui NO ha evocato tutto ciò, io che rinnegandomi ho fatto comparire l’Altro”). Il contro-cielo vale anche per contro-senso, derubando alla grammatica il gesto; Daumal si presenta come un negativo puro (“NO è il mio nome/ NO NO il nome/ NO NO il NO”) per scaturigine d’inno, brama verticale, oblio capovolto in eternità obliqua. La ricerca di Daumal è verso “la Parola unica e suprema, che non viene mai detta, ma che si nasconde dietro le parole dei poeti, e le sostiene. Se il Poeta pronunciasse tale parola, il mondo intero diverrebbe il suo Poema; avrebbe annientato il mondo ricreandolo in sé”. Ci sono vari modi per leggere una mappa. Il primo è quello di usarla per giungere a una meta. L’altro è bearsi di lei, della mappa, bevendosela tutta, bellissima. La quarta dell’edizione Gallimard di Poésie noire, poésie blanche, libro edito nel 1954, presentava Daumal, morto da diversi anni, come “una rivelazione, uno dei più grandi poeti di questi tempi”. Ecco: i testi di Daumal, queste mappe celestiali, possono essere usati per andare in altri mondi o goduti per ciò che sono, ben piantati in questo mondo. Fate voi. (d.b.)
La prendo larga: René Daumal è più poeta, asceta, teorico della letteratura, esploratore dei recessi spirituali, cercatore, profeta? È giusto intendere la sua opera come letteratura sapienziale?
A dire il vero mi sono molto interrogato su questa idea. È stato uno dei dubbi che mi hanno accompagnato lungo tutta la stesura dell’introduzione di Controcielo. In particolar modo per quanto riguarda il titolo. Alla fine ho scelto «Il poeta mistico, il maestro» ma inizialmente volevo che s’intitolasse «Il poeta veggente», un rimando fortissimo a Rimbaud che in Controcielo sarebbe pure giusto sottolineare. Solo che poi ho deciso di raccontare tutto il percorso di Daumal, e allora il titolo era diventato «Il poeta vedico» che mi piaceva molto ma comunque metteva in risalto solo un aspetto della sua poetica e della sua vita. Infine, il titolo definitivo è nato dal penultimo tentativo, una triade che poi ho tenuto come divisione interna dell’introduzione: «Il poeta, il mistico, il maestro». Pertanto non è semplice rispondere a questa domanda perché a complicare tutto c’è il fatto che il percorso di Daumal si dipana nell’arco di soli trentasei anni di vita. C’è un grande yogi dei tempi moderni che ha scritto un aforisma che avrei voluto inserire nella mia prefazione: «If you want to learn something, read about it. If you want to understand something, write about it. If you want to master something, teach it». Tirando le somme è proprio in questo senso che René Daumal più di ogni altra cosa era un maestro. Possedeva la maestria (forse il modo migliore di tradurre to master) di tutte queste discipline che lei ha giustamente nominato. In questo senso allora sì che possiamo considerare la sua come letteratura sapienziale.
Come si colloca Controcielo nel percorso di ricerca letteraria e spirituale di Daumal? E poi… cos’è questo ‘controcielo’? Aggiungo: il gesto letterario come inteso da Daumal mi pare una pratica nella letteratura francese, condivisa, ad esempio, da Artaud, Michaux, Char, Jabés, una parola, cioè, che va al di là del logico, nell’ombra del verbo: è così?
Controcielo è un po’ come La condanna per Kafka. È il libro in cui René Daumal sprigiona tutti i suoi bisogni, le sue idee in forma di mancanze. Poiché è il libro che chiude il periodo della giovinezza, della preparazione prima dell’iniziazione. È il libro in cui trova una voce, una via (lo dice palesemente nella sua breve introduzione). Il «Contro-Cielo» è il vuoto da raggiungere per accogliere l’illuminazione: la vuotità. Per questo è contro. Potremmo dire anche che è un Cielo convesso (riprendendo un aggettivo che utilizzerà poi ne Il Monte Analogo). Nel libro il «Contro-Cielo» non viene mai nominato apertamente, viene però nominato il «Contro-Mondo» come «intenso, inesteso, di verità visibile». E lo fa in uno dei componimenti più emblematici della raccolta (quello dedicato a Sima), «L’altro lato dello scenario», appunto. C’è anche un testo nel primo numero de «Le Grand Jeu» in cui Daumal descrive «questo “universo supplementare”» scrivendo che «è il mondo alla rovescia in cui vanno i morti e i sognatori, secondo le credenze primitive, è lo stampo cavo di questo mondo». Direi quindi che il Controcielo è l’invisibile, il silenzio, il buio, la morte. Il cielo di ciò che si trova dall’altro lato dell’universo visibile. Ragionamento che ritroviamo anche quando seguiamo il suo racconto alla scoperta del Monte Analogo. E allora il Controcielo diventa forse il cielo da raggiungere arrivando alla vetta di quel monte ‘simbolico’ che unisce la terra e il cielo. Riguardo le somiglianze con Artaud e compagni: assolutamente sì. C’è una somiglianza netta, seppure poi non si creò mai una vera e propria sinergia o un rapporto duraturo con nessuno di questi. Quello che li accomuna è la ricerca della «Parola unica», una ricerca mistica, spirituale. In questo Mallarmé ha fatto scuola e sicuramente ha creato una genia tutta francese di cercatori di questo tipo, ma direi che tutti gli ‘autori eterni’ hanno condiviso questa propensione verso l’ignoto, verso una sospensione della logica che permettesse di dischiudere il segreto del linguaggio (e quindi, forse, dell’essere umano). «Non si conosce la parola mediante la parola, ma attraverso il silenzio» scriveva Daumal, ma credo che in tanti, Michaux e Artaud di sicuro, sarebbero d’accordissimo.
Daumal e la Quarta Via: cosa aggiunge di nuovo, di altro il poeta nell’alveo del pensiero di Gurdjieff?
Non direi che Daumal abbia aggiunto qualcosa all’insegnamento di Gurdjieff. Lo stesso potrei dire di Ouspensky, però, che pure è colui che ha riassunto meglio di chiunque altro il pensiero di Gurdjieff e l’insegnamento della Quarta Via. Direi che Daumal ha dato testimonianza di un punto di vista, quello dello scrittore, del poeta, appunto. Ovvero chi possiede la maestranza della parola. Il suo lascito più grande difatti sono due romanzi, La Gran Bevuta e Il Monte Analogo, nei quali descrive la via gurdjieffiana in una forma narrativa perfetta. Prima in forma negativa e poi attraverso l’ascesa. Diciamo che Daumal ha dato una forma puramente letteraria all’insegnamento. Cosa che Gurdjieff stesso non riesce a raggiungere nei suoi libri, e forse non era nemmeno quello il suo intento, se vogliamo dirla tutta. In ogni caso, c’è un libricino che raccoglie le lettere che Daumal scambiò con i Lief, una coppia di giovani coniugi che ospitarono per qualche tempo i Daumal, intessendo una relazione profonda e condividendo – oltre la malattia dei due mariti – anche la pratica gurdjieffiana. In questo libro ci sono anche delle lettere inviate a Jeanne De Salzmann, che divenne maestra di Daumal dopo la morte del marito Alexandre, allievo diretto di Gurdjieff e suo primo maestro. In queste lettere è evidente il ruolo di Daumal, vi sono delle letture, delle interpretazioni dell’insegnamento della Quarta Via che sono molto interessanti e denotano una vera e propria mestranza, anche nell’atteggiamento umano che aveva verso Geneviève e Louis Lief. Una sua personale Quarta Via (uno dei sottotitoli che avevo pensato di usare era proprio «La Quarta Via daumaliana»).
Insomma: cosa la affascina di Daumal?
Tutto. Persino i suoi più evidenti ‘errori’. Sono quello che rende il suo percorso così umano, così vicino. La prima parte della sua vita – che viene divisa dalla fase finale da quei due anni che vanno dalla pubblicazione di Controcielo a quella de La Gran Bevuta – è un insieme di esperimenti folli e studio disperatissimo. Il periodo delle riviste in cui attacca nientemeno che Breton. L’uso di sostanze di cui non conoscevano la reale natura né l’effetto. Era un ‘cattivo ragazzo’ diremmo oggi, forse. Era uno ‘scapestrato’ (se mi concedi il termine desueto). D’altronde potremmo metterlo nello stesso olimpo di Gurdjieff e Jodorowsky, e vicino a lui Artaud e Michaux. Roger Gilbert-Lecomte era il suo compagno d’avventure, lo vedeva come un padre in quegli anni. Non proprio una compagnia affidabile. Eppure, Daumal è riuscito a trovare il suo senso proprio nel percorso e nella disciplina. Nella rigorosità. Studia il sanscrito e impara dai grandi studiosi: René Guénon, Ananda Coomaraswamy, Suzuki. E poi incontra questo gruppo di praticanti e s’impegna concretamente. E questo maestro eclettico che riesce a insegnare agli occidentali la scienza sacra. In questo coacervo di filosofie diversissime lui trova la sua via e ci insegna così l’unica verità sugli insegnamenti: non ne esiste uno migliore o più vero dell’altro, ognuno ha il suo proprio: ognuno è maestro di sé stesso. E così diventa maestro anche degli altri, con l’esempio, questo è forse il grande lascito daumaliano.
Chiudo chiedendole, per sommi capi, un ritratto di Claudio Rugafiori, figura che lei annuncia e adombra, con alato rispetto, nell’introduzione al volume.
Rugafiori è stata una delle mie ossessioni. Un personaggio inconoscibile (e credo anche che sia giusto così). Quello che so è che era a Parigi e incontrava Calvino e Agamben. Volevano fondare una rivista ma non si concretizzò mai. Agamben lo considera un maestro. Poi era uno di quelli del gruppo di fondazione di Adelphi. Ha curato tutta l’opera di Jarry e di Daumal (quella di Daumal anche per Gallimard). Ha curato anche Nel paese dei Tarahumara per avvalorare la tesi di vicinanza ad Artaud. Insomma, è probabilmente uno dei più importanti (addetti editoriali? Studiosi?) in Italia e forse nel mondo, eppure non si hanno notizie su di lui e vuole palesemente restare in incognito. E io rispetto moltissimo questa scelta (e spero che chi sta leggendo possa fare lo stesso e astenersi dal cercarlo). Tuttavia, per parlare di Daumal non potevo esimermi dal fare un omaggio a Rugafiori e al suo immenso lavoro. C’era anche una sua frase che volevo riportare nell’introduzione per descriverlo (facendo diventare l’omaggio una sviolinata). Una frase che lui dedica a Éveline Lot-Falck, di cui ha curato – firmandone la postfazione – I riti di caccia dei popoli siberiani. Allora diciamo con le sue stesse parole che Claudio Rugafiori «grazie alla sua “chiaroveggenza” e alla sua “chiarudienza” – ha saputo restituirci non l’ombra ma la realtà stessa o, se si preferisce, l’idea adeguata» su René Daumal e, con lui e come lui, su molto altro ancora.
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tmnotizie · 5 years
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SAN BENEDETTO – Sabato 17 novembre 2018, alle ore 10, presso l’Auditorium “G. Tebaldini” si terrà il XIX Festival Internazionale della Poesia, promosso dal Circolo Riviera delle Palme di San Benedetto del Tronto. E’ il primo appuntamento della nuova edizione del Festival che culminerà nell’estate 2019 e avrà per tema “L’infinito”.
Saranno presenti importanti autori nazionali e internazionali, che interverranno sul tema con testi editi, inediti e appositamente composti per l’occasione: Davide Rondoni (poeta), Moira Egan (poetessa), Damiano Abeni (traduttore), Rossella Frollà (critica e poetessa), Nicola Bultrini (poeta e saggista).
Interverranno il Presidente del Circolo Riviera delle Palme, il poeta Leo Bollettini, il sindaco Pasqualino Piunti, l’assessore alla Cultura Annalisa Ruggieri ed il presidente del FAI Regione Marche Alessandra Stipa. Saranno presenti autorità locali e rappresentanti di istituzioni, associazioni, scuole e imprese del territorio.
Coordinerà e presenterà l’evento il nuovo direttore artistico del Festival, il poeta Claudio Damiani, accompagnato dall’attrice Marina Benedetto.
Il tema scelto fa riferimento alla famosa poesia di Leopardi l’infinito, di cui ricorre tra poco il bicentenario della composizione ma anche al concetto di “infinito” in generale e nelle sue varie declinazioni scientifiche, filosofiche ecc.
Con l’occasione verrà presentato il Certamen, gara di poesia (anch’essa sul tema dell’infinito) rivolta agli studenti e ai cittadini del territorio nazionale ma anche di autori stranieri, che culminerà a dine estate 2019 con la lettura pubblica dei testi selezionati e la premiazione del vincitore.
Tra la prima tappa (17 novembre 2018) e l’ultima (settembre 2019) si prevedono tappe intermedie, eventi di poesia, riflessioni e approfondimenti sul tema, a cura del Circolo Riviera delle Palme e di altre associazioni e istituzioni. Nelle scuole del territorio saranno avviati progetti specifici di laboratorio poetico che guideranno gli studenti nella produzione dei testi destinati al Certamen. Oltre ai giovani, l’iniziativa è destinata anche a adulti e anziani, e a questo riguardo verrà coinvolta anche l’Università della Terza Età di Ascoli Piceno.
Claudio Damiani è nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo. Vive a Rignano Flaminio nei pressi di Roma. Ha pubblicato le raccolte poetiche Fraturno (Abete,1987), La mia casa (Pegaso, 1994, Premio Dario Bellezza), La miniera (Fazi, 1997, Premio Metauro), Eroi (Fazi, 2000, Premio Aleramo, Premio Montale, Premio Frascati), Attorno al fuoco (Avagliano, 2006, finalista Premio Viareggio, Premio Mario Luzi, Premio Violani Landi, Premio Unione Lettori), Sognando Li Po (Marietti, 2008, Premio Lerici Pea, Premio Volterra Ultima Frontiera, Premio Borgo di Alberona, Premio Alpi Apuane), Il fico sulla fortezza (Fazi,  2012, Premio Arenzano, Premio Camaiore, Premio Brancati, finalista vincitore Premio Dessì, Premio Elena Violani Landi), Cieli celesti (Fazi, 2016, Premio Tirinnanzi).
Nel 2010 è uscita un’antologia di poesie curata da Marco Lodoli e comprendente testi scritti dal 1984 al 2010  (Poesie, Fazi, Premio Prata La Poesia in Italia, Premio Laurentum). Ha pubblicato di teatro: Il Rapimento di Proserpina (Prato Pagano, nn. 4-5, Il Melograno, 1987) e Ninfale (Lepisma, 2013). Tra i volumi curati: Orazio, Arte poetica, con interventi di autori contemporanei (Fazi, 1995); Le più belle poesie di Trilussa (Mondadori, 2000).  E’ stato tra i fondatori della rivista letteraria Braci (1980-84) e, nel 2013, di  Viva, una rivista in carne e ossa. Suoi testi sono stati letti in pubblico da attori come Nanni Moretti e Piera Degli Esposti, e tradotti in varie lingue. Ha pubblicato i saggi La difficile facilità.
Appunti per un laboratorio di poesia, Lantana Editore, 2016, L’era nuova. Pascoli e i poeti di oggi, Liber Aria Edizioni, 2017 (con Andrea Gareffi) e recentemente, con Arnaldo Colasanti, La vita comune. Poesie e commenti, Melville Edizioni, 2018.
Davide Rondoni è nato a Forlì nel 1964. Tra i suoi libri di poesia: La frontiera delle ginestre (1985), O les invalides (1988), A rialzare i capi pioventi (1991), Nel tempo delle cose cieche (1995), Il bar del tempo(1999), Avrebbe amato chiunque (2003), Compianto, vita (2004), oltre a numerose altre opere in versi per la scena o dedicate ad opere d’arte, come Il veleno, l’arte (2005), Vorticosa, dipinta (2006) e Dalle linee della mano (2007). Ha tradotto I fiori del male di Baudelaire (1995) e Una stagione all’inferno di Rimbaud (1997). Per la saggistica letteraria e di intervento: Non una vita soltanto (2001), La parola accesa (2006), Il fuoco della poesia (2008). Ha curato diverse antologie ed è autore di testi teatrali e di programmi televisivi.
Editorialista di alcuni quotidiani, opinionista di Avvenire, è stato critico letterario nel supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore. Saltuariamente pubblica sul Corriere della Sera. Dirige le collane di poesia di Marietti e Il Saggiatore, la rivista «clanDestino» e il Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna.
Moira Egan è nata a Baltimora (USA). Suoi lavori sono apparsi in molte riviste statunitensi e internazionali, e in diverse antologie, tra cui Best American Poetry 2008, e in traduzione su Nuovi Argomenti, Poesia, e Lo Straniero. I suoi libri sono HotFlash Sonnets (Passager Books, 2013); Spin (Entasis, 2010); Bar Napkin Sonnets (The Ledge, 2009); La Seta della cravatta/TheSilk of the Tie (Edizioni l’Obliquo, 2009); e Cleave (WWPH,  2004).Con Italic peQuod ha pubblicato Strange Botany / Botanica arcana (2014) e Olfactorium (2018). Con Damiano Abeni ha pubblicato numerosi libri di traduzioni in Italia (tra gli autori ricordiamo John Ashbery, Aimee Bender, Lawrence Ferlinghetti, John Barth, Anthony Hecht, Mark Strand). Sue traduzioni da poeti italiani, realizzate a quattro mani con Abeni, sono pubblicate su numerose riviste negli USA e alcune sono raccolte nello FSG Book of 20th Century Italian Poetry (2012) e nel volume di Patrizia Cavalli My Poems Will Not Change the World (FSG, 2013).
Moira Egan ha ricevuto fellowship da prestigiose istituzioni quali la Mid Atlantic Arts Foundation; il Virginia Center for the Creative Arts; il St. James Cavalier Centre for Creativity a Malta; il Civitella Ranieri Center; la Rockefeller Foundation, Bellagio Center; la James Merrill House.
Damiano Abeni è nato a Brescia nel 1956. Ha pubblicato un centinaio di libri tradotti dall’inglese, la maggior parte dei quali dedicati a poeti nord-americani quali Mark Strand, John Ashbery, Charles Simic, Elizabeth Bishop e, tra i più recenti, a Charles Wright, Ben Lerner, Moira Egan, Frank Bidart e Anthony Hecht. Collabora con diverse case editrici e riviste letterarie. È tra i redattori di “Nuovi Argomenti” e della rivista online “Le Parole e Le Cose”. Ha ricevuto una fellowship del Liguria Study Center for the Arts nd Humanities (Bogliasco Foundation, 2008) e una delle Rockfeller Foundation Fellowship (Bellagio, 2010).
Nel 2009 è stato Director’s Guest presso il Civitella Ranieri Center. È cittadino onorario per meriti culturali di Tucson, Arizona, e di Baltimore, Maryland. Recentemente, parte di sé ha pubblicato “from the dairy of jonas & job, inc., pigfarmers” [ikonaLiber, Roma, 2017], tradotto a fronte in italiano da un’altra parte di sé.
Rossella Frollà è nata nelle Marche a San Benedetto del Tronto, dove vive. Si è laureata presso l’Università Carlo Bo di Urbino. Animata da grande curiosità intellettuale vive molteplici esperienze lavorative giovanili nel settore della ricerca sociale e della comunicazione prima di approdare alla critica letteraria e alla poesia. Nel 2012 pubblica con Interlinea Il Segno della parola, Poeti italiani contemporanei e si afferma come nome nuovo nel panorama della critica letteraria.
Sempre nello stesso anno riceve il premio Alpi Apuane per la poesia inedita. Nel 2015 pubblica con Interlinea  la sua prima opera poetica Violaine  e nel 2017 Eleanor. Non fummo mai innocenti. Dalla Bosnia alla Siria. Oggi fa della poesia la sua nuova frontiera di impegno umano e culturale. Scrive per Pelagos e altre riviste letterarie on-line.
Nicola Bultrini è nato nel 1965 a Civitanova Marche, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato le raccolte di versi La specie dominante (Aragno 2014), La coda dell’occhio (Marietti 2011),  I fatti salienti (Nordpress 2017), Occidente della sera (nell’VIII Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea – Marcos y Marcos 2004). Scrive per il quotidiano Il Tempo e collabora con altre testate (tra cui la rivista Poesia).
È presente nell’antologia Sulla scia dei piovaschi poeti italiani tra due millenni (Archinto 2015). Come studioso della Prima Guerra Mondiale ha pubblicato vari saggi, tra cui La grande guerra nel cinema (Nordpress 2008), Pianto di pietra – la grande guerra di Giuseppe Ungaretti (Nordpress 2007), Gli ultimi – i sopravvissuti ancora in vita raccontano la grande guerra (Nordpress 2005). Da anni è ideatore e animatore di eventi culturali.
Marina Benedetto è nata a Roma, si è diplomata a Parigi presso la scuola d’arte drammatica Théâtre Ecole du Passage e ha conseguito la License in Etudes Théâtrales presso l’Università Sorbonne Nouvelle – Paris III. Come attrice ha recitato a teatro in Francia e in Italia con numerosi registi tra i quali Gil Galliot, Eloi Recoing, Grégoire Ingold, Jean-Claude Fall, Lisa Wurmser, Alessandro Marinuzzi; al cinema ha interpretato piccoli ruoli con Francesca Comencini,Giancarlo Bocchi, Mario Martone, Paolo Franchi; in televisione con Betta Lodoli, Claudio Casale. Lavora come acting coach e dialogue coach al cinema, occupandosi di attori italiani e stranieri tra i quali Valerio Mastandrea, Elio Germano, Juliette Binoche, Fanny Ardant, Barbora Bobulova, Anne Parillaud, Ksenja Rappoport, Emmanuelle Devos.
Insegnante di dizione e recitazione, ha tenuto numerosi laboratori di formazione dell’attore. Ha doppiato e/o diretto il doppiaggio d’innumerevoli programmi televisivi per Canal Plus, di cui ha preparato l’adattamento dal  francese all’italiano. Ha curato il sottotitolaggio di documentari, film, e di pièces teatrali per la regia di Peter Brook e Irina Brook. Appassionata di poesia ha tradotto dal francese e dallo spagnolo vari autori (tra questi Claribel Alegría e Aurélia Lassaque) e ha recitato in numerose letture pubbliche.
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iannozzigiuseppe · 3 years
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Leonard Cohen - Poesie / 3 Morte di un casanova - Libro della misericordia - Traduzione: Damiano Abeni, Giancarlo De Cataldo - Prefazioni di Vasco Brondi e Leonardo Colombati - Minimum Fax
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paoloferrario · 5 years
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Mark STRAND, Tutte le poesie, nella traduzione di Damiano Abeni, con Moira Egan, Mondadori edizione, 2019. Indice del libro
Mark STRAND, Tutte le poesie, nella traduzione di Damiano Abeni, con Moira Egan, Mondadori edizione, 2019. Indice del libro
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marcogiovenale · 4 years
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lunedì 11 maggio, su slowforward: una maschera misteriosa legge damiano & abeni
lunedì 11 maggio, su slowforward: una maschera misteriosa legge damiano & abeni
Nel contesto della serie “5-6 minuti di” (ciclo di mp3 o video di scritture di ricerca)
su https://slowforward.net e sul canale YouTube di IkonaLíber
lunedì 11 maggio 2020 alle ore 18:00, un video inedito di testi da e su
FROM THE DAIRY OF JONAS & JOB, INC., PIGFARMERS di damiano & abeni
Ed. IkonaLíber, Collana Syn _ scritture di ricerca http://www.ikona.net/damiano-abeni-from-the-dairy/
con 6…
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pangeanews · 5 years
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Ocean Vuong non mi piace ma la Fondazione MacArthur lo ha riempito di soldi: 625mila dollari a un poeta. E noi (che siamo più bravi) stiamo a guardare, sudditi
Non amo Ocean Vuong – ma non è questo il tema. Poesia troppo ‘americana’ – maglie larghe, impeto narrativo – a volte ingenua, immediatamente riconoscibile. Ocean Vuong è giovane – tra un paio di settimane compie 31 anni –, ha pubblicato tre raccolte di poesie, la prima nel 2010 (Burnings), l’ultima, tre anni fa, Night Sky with Exit Wounds, è stata ornata dal ‘T.S. Eliot Prize’. Il suo primo romanzo s’intitola On Earth We’re Briefly Gorgeus. In Italia Vuong è pubblicato da La Nave di Teseo (bravi), nella traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan. Vuong è nato in Vietnam, i suoi l’hanno portato in Connecticut che aveva due anni, ora insegna ad Amherst, alla University of Massachusetts. Credo che la biografia – vietnamita, buoni studi, talento – abbia influito sul suo successo: Vuong scrive in inglese, non è più bravo di un lotto di poeti nostri – dico i primi che ho in capo: Francesca Serragnoli, Federico Italiano, Isacco Turina – ma non è questo il tema. Il fatto è che improvvisamente Ocean Vuong è diventato il poeta più ricco del pianeta. Per lo meno, il più fortunato.
*
Il tema qui è la MacArthur Foundation. Quella di John Donald MacArthur (1897-1978), il fondatore della fatidica Foundation, è una storia pia, pura agiografia americana. Nato in Pennsylvania, non precisamente ricco, sfanga come giornalista, poi tenta qualche impresa senza successo – il fallimento è fondamentale nell’epos Usa – poi comincia con le assicurazioni, settore dove opera il fratello Alfred. Lì sfonda, fa un sacco di soldi, diversifica le attività. Sposa Catherine T. Hyland, più giovane di 11 anni, di ceppo irlandese, piuttosto capace nel supportare l’attività del marito, che gli sopravvive di tre anni. I due, nel 1970, danno vita a una fondazione, che ha sede a Chicago e svariate sedi secondarie, tra le più ricche del pianeta. Il motto di JD è: “Io ho fatto soldi, voi immaginate cosa farne”.
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Ogni anno la Fondazione MacArthur sceglie di finanziare alcuni talenti. Il bello è che, essendo una fondazione privata, fanno come gli pare. Non si accettano candidature e i criteri sono letali quanto vaghi: “Creatività eccezionale; Possibilità di progressi sulla base di una storia significativa; Potenziale che permetta un lavoro creativo ulteriore”. Il carisma è questo: “incoraggiare persone di eccezionale talento a proseguire le proprie inclinazioni creative, intellettuali, professionali”. In un articolo pubblicato qualche anno fa sul “Washington Post”, Five Myths about the MacArthur ‘genius grants’, Cecilia Conrad spiegava che la fondazione premia artisti come artigiani, poeti come scienziati. “Un comitato di selezione segnala alcune personalità, in modo anonimo… negli anni abbiamo premiato, tra i tanti, una ostetrica, una donna che ha usato il suo negozio di parrucchiera per promuovere letteratura tra le comunità latine, un liutaio”. Quando va bene – capitò all’astrofisico Joseph Taylor – qualcuno è messo nelle condizioni, negli anni, di vincere il Nobel, altrimenti, va bene lo stesso. In effetti, i soldi messi sul tavolo dalla MacArthur Foudation non sono pochi. 625mila dollari. Il poeta Ocean Vuong – che secondo me non è migliore di un lotto di poeti nostri – ha nel conto in banca 625mila dollari.
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Mi piacciono due aspetti. L’aleatorietà delle scelte. Non devi mostrare il curriculum, non ti metti in coda. La fondazione scommette sul futuro. Inoltre. Amo la parola rischio. La borsa di studio è assegnata “per continuare a innovare nel proprio campo, per continuare a correre dei rischi e perseguire la propria visione”. I rischi si pagano. Li pagano loro.
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Romanticamente, credo che la povertà forzi il poeta e lo scrittore alla grande opera. Minchiate. La povertà, a volte, provoca frustrazione, morte. “Uno dei grandi fraintendimenti è che la creatività sia un lampo improvviso, che non richieda supporto. Non è così. La creatività ha bisogno di competenza, ha prove da superare, progetti da realizzare. A volte un esperimento non produce i risultati previsti: indica soltanto una nuova direzione da prendere. E senza un supporto finanziario, quella direzione non la puoi prendere”. Così dice Cecilia. Come si sa, esempio tra i tanti, Cormac McCarthy era povero in canna e con un matrimonio sgangherato: grazie a un paio di borse di studio riesce a pagarsi gli anni per scrivere Il buio fuori. Altrimenti, lo avremmo perso, chissà.
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Certo, poi gli americani sono geniali nel marketing. Le sontuose borse di studio sono andate anche a Valeria Luiselli, giovane (classe 1983), messicana, casa a Brooklyn, tradotta in Italia da La Nuova Frontiera e a Emily Wilson, la classicista sponsorizzata ovunque come “la prima donna che ha tradotto l’Odissea in inglese”. Brava. Peccato che gli anglofoni siano più arretrati di noi di 70 anni. Rosa Calzecchi Onesti, infatti, allieva di Mario Untersteiner, su istigazione di Pavese traduce l’Iliade nel 1950, per Einaudi, a cui seguirà la versione dell’Odissea. Per altro, l’impresa fu replicata da Maria Grazia Ciani che traduce, per Marsilio – in modo impeccabile – Iliade (1990) e Odissea (1994). Non mi pare, però, che né l’una né l’altra siano promosse con altrettanta enfasi nel nostro tarlato sistema culturale, come l’Everest della cultura scientifica ‘al femminile’. Svegliamoci, signori, abbiamo il genio sotto il cuscino e non ce ne accorgiamo.
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Mi piace il sistema delle fondazioni private? Diciamo che preferisco la Sicilia alla Florida e l’olio d’oliva alla CocaCola. Solo che. Negli Usa il denaro non puzza e lo usano per fare cultura, con spavalderia. Chi fa tanti soldi – forse perché ha il ginevrino Calvino nella tasca dei pantaloni – si compra l’eternità facendo il mecenate. Foraggiano la propria cultura egemonica? Obviously, cosa dovrebbero fare, finanziare la nostra? Ma siamo noi a fare i sudditi – guardate i libri in libreria: ci sono pile di autori georgiani o rumeni? E a fare la figura dei parassiti quando siamo felici perché nel ranking mondiale delle università quella di Bologna “guadagna tre posizioni, passando dalla 180esima alla 177esima”, evviva, mentre le prime tre posizioni sono tutte americane (MIT, Stanford, Harvard). Il potere dei soldi? Certo. Ma anche quello del cervello. (d.b.)
*In copertina: Ocean Vuong
L'articolo Ocean Vuong non mi piace ma la Fondazione MacArthur lo ha riempito di soldi: 625mila dollari a un poeta. E noi (che siamo più bravi) stiamo a guardare, sudditi proviene da Pangea.
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pangeanews · 5 years
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“Auden non mi capiva. D’altronde, per me la poesia è un mistero”: torna John Ashbery, finalmente. Il primo a tradurlo fu Aldo Busi…
Il primo fu Aldo Busi, che nel 1983, per Garzanti, traduce Autoritratto in uno specchio convesso di John Ashbery. Su Ashbery s’era laureato, a Firenze; l’anno dopo, nel 1984, Adelphi pubblica Seminario della gioventù. Strabiliando l’evento, Busi ne scrive in Vita standard di un venditore provvisorio di collant, edito in origine nel 1985, poi riscritto nel 2001. “Gli mancavano due esami finali e la sua tesi sulla poesia americana moderna, da Walt Whitman al celebre John Aninny che, ispirandosi al dipinto del Parmigianino, aveva scritto Autoritratto di una checca convessa, era a buon punto”. Pare che i due, Aldo & John, sotto la sottana della tesi e l’intrallazzo della traduzione, abbiano avuto una storia. Probabilmente hanno avuto una lite. “Non ci pensava neanche più a cercarsi una stanza, né tanto meno a far visita al supersponsorizzato e marlborizzato John Aninny per sputargli in un occhio”.
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L’evidenza della nostra cupa provincialità. Intendo, la fatica con cui qui attecchiscono i giganti d’altrove. Specifico. In questo Paese in cui fioriscono poeti come margherite – poeti, appunto, primaverili: delicati, deliziosi, sfiziosi, sfinenti – non si traducono i Titani. John Ashbery, per dire (di Saint-John Perse, tra gli scandali, ho già detto). Anche Wikipedia sa che “è considerato come il più influente poeta del suo tempo” (facendo fare la sintesi a Langdom Hammer, pavone della Yale: “nessun poeta americano possiede un vocabolario tanto vasto, tanto specifico, né Whitman né Pound”). Eppure, da noi s’è fatta una fatica matta a leggerlo. Oltre alla fatidica edizione del 1983, griffata Garzanti, ci si sono messi piccoli, ostinati, bravi editori (Il Labirinto, le Edizioni l’Obliquo, le Edizioni del Bradipo), fino a Sossella, nel 2008, con Un mondo che non può essere migliore. Ora. Non dico il ‘Meridiano’, che lo fanno a cani & porci oppure ai cari estinti, ma almeno una pubblicazione sontuosa per un editore presente in libreria… Per questo, l’Autoritratto entro uno specchio convesso edito da Bompiani nella neonata collana di poesia ‘Capoversi’ è un evento, sia lode a Damiano Abeni. Purtroppo, Ashbery, che non è nato l’altro ieri – è del 1927 – è morto due anni fa. Quel libro lì, Self-Portrait in a Convex Mirror, pubblicato nel 1975, consente ad Ashbery il Pulitzer, il National Book Award, il National Book Critic Circle Award. Insomma, è considerato tra i grandi libri di poesia del secolo. Era ora, averlo.
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“Lo speculum o specchio convesso di Ashbery è l’esatto contrario del suo desiderio e volontà, e in questa inclinazione che lo porta a distanziarsi dai padri, lo Stevens tangibile e lo Whitman spettrale, Ashbery costruisce il suo vero clinamen”, scrive Harold Bloom nell’ermetica introduzione, Frantumare la forma, che sta sulla soglia delle poesie. Ashbery doveva essere un tipo simpatico – o insopportabile, il che è uguale. Nell’intervista che gli fa David Remnick nel 1980, poi pubblicata sulla “Bennington Review” (e da cui ho stralciato passi salienti), il nostro dice che delle opinioni di Bloom gli importa il giusto, quasi nulla. Che non vede somiglianze tra la sua poesia e quella di Stevens e di Whitman. Che gli è più prossimo Auden – il quale, clamorosamente, non lo capì. I poeti, si sa, vivono da cobra, tra mistificazione e fraintendimento.
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Bisogna avere voglia di giocare, di mettersi in gioco, di far capriolare i significati, per apprezzare Ashbery.
L’ora del giorno o la densità della luce adesa al volto lo mantiene vivido e intatto in un’onda reiterata d’arrivo. L’anima instaura se stessa. Ma fin dove può fluttuare lontano attraverso gli occhi e ancora tornare sana e salva al proprio nido? Essendo la superficie dello specchio convessa, la distanza aumenterà considerevolmente; vale a dire quanto basta per asserire che l’anima è un prigioniero, trattato in modo umano, tenuto sospeso, incapace di incedere molto oltre il tuo sguardo che intercetta il dipinto.
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Guardare l’omonimo Parmigianino al Kunsthistorisches Museum può servire. La mano deformata, magra come un levriero; il viso di strabiliante giovinezza. Lo specchio non rispecchia – è un viaggio nel tempo, una sbavatura del destino.
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Ashbery rende tutti degli scolaretti, è vero. Petulanti e impudichi. Però, è pur vero che sepolta una generazione – Ashbery, Heaney, Bonnefoy, Luzi, Sereni, mettete chi vi pare – l’altra, la nostra, arranca, in resa. Torna la poesia ‘sentimentale’, dell’ombelico che non si spalanca in abisso ma resta ciò che è: salotto. Oppure la speciosa sociologia del girotondo perbenista. Non è una questione di altezza verbale, mai, ma di tensione di sguardo, di atrofia della retina, sì. (d.b.)
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Prime letture. “I miei genitori non erano intellettuali. Ma il nonno, che era professore di fisica all’università, adorava i libri. Andavo a visitarlo per immergermi nella sua biblioteca. Mi piacevano molto i libri sui miti greci di Nathaniel Hawthorne, avevo una bella edizione di Shakespeare, con illustrazioni piuttosto inquietanti. Non capivo molto, preferivo le commedie. Poi… Dickens, Sir Walter Scott, Thackeray”.
La poesia è difficile? “I primi poeti furono Shelley, Byron, Longfellow. Leggevo poca poesia da giovane. Probabilmente perché, come tutti, immaginavo che per capire la poesia fosse necessario un corso o qualcosa del genere. Pensavo che fosse impossibile aprire semplicemente un libro e iniziare a leggere. Poi ho scoperto che non era così”.
Amo Auden, disse, distrattamente, che ero come Rimbaud. “Di solito sono connesso a Wallace Stevens, ma mi sembra che W.H. Auden abbia avuto un ruolo più importante nella mia formazione. Fu il primo poeta moderno che ho letto con vero piacere. Mi selezionò per il premio Yale Younger Poets. Le cose andarono così. Non osavo inviare a Auden le mie poesie, allora mandai il mio manoscritto alla Yale University Press. Mi fu restituito. Anche a Frank O’Hara capitò la stessa cosa. Un amico comune, Chester Kallman, parlò a Auden di noi. Aveva deciso di non assegnare il premio quell’anno perché non gli era piaciuto alcun manoscritto. Allora, si è fatto consegnare i nostri manoscritti. Ha scelto il mio. Ha scritto una prefazione piuttosto anaffettiva in cui mi paragonava a Rimbaud – paragone assai lusinghiero, è ovvio, ma non credo fosse un complimento, visto che Auden era assai anti-francese. Qualcuno mi disse di aver chiesto a Auden cosa pensasse della mia poesia: rispose che non era mai stato in grado di capirne un verso!”.
Il distruttore della poesia. “La mia poesia non è legata a una particolare tradizione – lo è un po’ di più se questo legame lo sostiene qualche critico importante. Molte persone si scocciano, alzano le mani e dicono che le mie poesie non sono affatto poesie. Non mi considero un distruttore della poesia, ma uno che, a modo proprio, come può, perpetua una tradizione”.
Harold Bloom? Non lo capisco. “Harold Bloom si sforza di tracciare un percorso di influenze che mi legherebbe a Whitman e a Stevens. Una volta gli ho detto che non avevo letto i testi di Emerson di cui dice che io sarei l’erede. Rispose che comunque ero stato influenzato da lui. Non voleva sentirsi dire che non lo conoscevo. Questa faccenda delle influenze non la capisco. Penso che siano imputate da un critico per supportare le proprie argomentazioni. Un poeta è influenzato da molte cose, non solo dalla poesia, ma anche dal clima, dalla stanza in cui si trova, da qualsiasi cosa – e ogni cosa è egualmente importante”.
Faccio ciò che mi dicono di non fare. “Ciò che mi rimproverano i critici mi fa agire in direzione esattamente contraria alle loro opinioni. Ho sempre seguito il consiglio di Cocteau secondo cui devi leggere le critiche al tuo lavoro e continuare a fare cose che ottengono disapprovazione”.
Preferisco esplorare i luoghi ignoti. “La poesia confessionale non mi convince. Anch’io ho sofferto come tutti, quindi, perché non dimenticarsene e mettersi al lavoro? La poesia mi pare sia altrove. Piuttosto che affrontare le esperienze del mio passato, che mi sono familiari, preferisco con la poesia esplorare luoghi ignoti. Heidegger dice che scrivere una poesia è una esplorazione. Allo stesso modo, sono interessato alle poesie che scriverò più che a quelle che ho già scritto. Il vecchio, davvero, non mi appartiene”.
Per me la poesia è un mistero. “Non so da dove vengano le poesie. È una faccenda misteriosa. Non voglio dire che scrivo in trance, o cose simili. Al contrario, la poesia riguarda il sentirsi più sveglio del normale”.
Le poesie di oggi? Prodotte in serie. “Le poesie spesso vengono prodotte in serie, in quello stile rilassato, in presa diretta, come Ginsberg, pieno di autostrade, di foglie d’autunno, di problemi di coppia, della vita di tutti i giorni. Tutto è risolto in un pensiero piccolo e pulito, che fluttua. Un tono così lo sento in tanti studenti, e mi domando, ‘Bene, è tutto molto bello, ma perché vuoi scrivere in un modo popolare? Perché non vuoi scoprire chi sei?’. Allora, do loro degli incarichi formali. Amo le forme che occupano la mente cosciente per dare estensione all’inconscio: la sestina, la canzone. Il sonetto è troppo breve, poco funzionale, credo”.
Leggete i contemporanei. Per gli altri ci sarà tempo. “I miei consigli al giovane poeta? Leggere quanta più poesia contemporanea possibile senza scoraggiarsi per la difficoltà. Anche Keats diceva che bisogna iniziare leggendo i poeti del proprio tempo più che quelli del passato. Penso, inoltre, che sia utile imitare, consapevolmente, i poeti che ti piacciono davvero. Leggere poesia contemporanea, inoltre, ti evita di scrivere come uno che non hai ancora letto. Spessi dico a uno studente, ‘Pare che tu sia stato influenzato da…’, e lui non ne ha mai sentito parlare…”.
Il lavoro obbliga alla disciplina. “Che i poeti non possano vivere di poesia è un peccato. Sei costretto a fare qualcos’altro finché questo qualcos’altro non diventa sempre più invadente. Se poi i poeti non guadagnano molto con il loro lavoro, il problema è tremendo. Tuttavia, penso che questa situazione favorisca la disciplina. Se sei determinato a scrivere una cosa, la scrivi. Non importano le condizioni esterne, lo faresti comunque”.
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tmnotizie · 6 years
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ANCONA – La tredicesima edizione del poesia festival La Punta della Lingua parte con un week end di anteprime, dal 15 al 17 giugno​, con iniziative per bambini ​e adulti​, fra cui la presentazione della prima traduzione italiana di “After Lorca”(1957), capolavoro del poeta culto Jack Spicer per la collana Argo, e la lettura del poeta Ron Padgett​, autore di tutte le poesie del film “Paterson”, proiettato per l’occasione.
Venerdì 15 giugno si inizia con La Punta della Linguaccia. Pensieri di cose grandi​, ​un ​laboratorio di poesia per bambini dai 6 anni con Azzurra D’Agostino​. Dalle ore 17.45, al Bar Conero sulla cima del Monte Conero, l’incontro tra le parole per affrontare con i piccoli i grandi temi: quello che ci fa felici, quello che ci spaventa, le grandi domande, il mondo. Il tutto letto e riscritto a partire da poesie e filastrocche, rime da smontare e rimontare, per trovare, insieme, la nostra voce.
A seguire, alle 19.15 Poeti in classe​, ​presentazione del progetto che, sulla scorta dell’omonimo volume pubblicato da Italic Pequod nella collana La Punta della Lingua, ha portato nell’ultimo anno poeti marchigiani nelle scuole primarie della Regione. Per introdurre i più piccoli all’esistenza della poesia in carne e ossa. Con letture degli elaborati prodotti durante i laboratori. Con Azzurra D’Agostino, Evelina De Signoribus, Renata Morresi, Eleonora Del Sorbo (ed altri), interverrà il Garante Andrea Nobili ​e la dirigente scolastica Elisabetta Micciarelli. ​In collaborazione con Garante dei diritti della Regione Marche. Ingresso gratuito.
Dopo il Rifocillo del poeta ​alle ore 20.15 presso il Bar Conero (€ 10, prenotazioni 320.1830461) alle ore 21.45 si parte per l’Escursione poetica con Fabio Franzin ​e Azzurra D’Agostino. ​Una ​Passeggiata notturna, in collaborazione con Forestalp​, per i sentieri del Monte Conero. Un’esperienza immersiva tra natura e poesia accompagnata da due delle più sicure voci della poesia italiana contemporanea. Si consigliano scarpe comode e una pila. POSTI LIMITATI: escursione € 8 / rifocillo del poeta + escursione poetica € 15 – prenotazioni 320.1830461 entro il 14/6).
Sabato 16 giugno ​la giornata, tutta al nuovissimo FARgO Bar​, ​Parco del Cardeto, è dedicata a Le Marche della Poesia ​con alcune tra le più significative voci poetiche marchigiane, tra cui Fosco Giannini, ​presentato da Antonio Luccarini, e Nadia Mogini, presentata da Anna Elisa De Gregorio (ore 18.30). A seguire Cecilia Monica ​presenta “Olfactorium” (Pequod, 2018) di Moira Egan (ore 19.30): con questi nuovi versi, la poetessa americana conduce il lettore attraverso viaggi olfattivi speziati dal sontuoso linguaggio dell’arte, della poesia e della tradizione profumiera.
Insieme a Egan ci sarà Damiano Abeni per l’incontro Il traduttore e il suo doppio​. Il maggior traduttore italiano degli ultimi americani si interroga, in versi, sulla funzione deformante e cognitiva del linguaggio poetico e sulla traduzione come arte performativa. Dopo il rifocillo del poeta al FARgO bar a cura di Mi rancho (panino e birra € 10, possibilità anche di grigliate a € 16, prenotazioni 320.1830461), alle ore 21.30 Renata Morresi presenta Lella De Marchi in “Paesaggio con ossa” (Arcipelago Itaca, 2017) e alle 22.00 la presentazione della collana Lyra Giovani diretta da Franco Buffoni con due esordi originali: “Vera deve morire” dell’’italo albanese Julian Zhara​, ​sospeso tra nostalgia della lingua madre e un’autentica ossessione per la metrica italiana e “Dolore minimo” di Giovanna Cristina Vivinetto​, prima poeta transessuale italiana, in cui l’incandescenza dell’esperienza esistenziale si distilla e purifica grazie ai mezzi della formalizzazione poetica. Ingresso gratuito.
Domenica 17 giugno ​alle 18.45 Lazzabaretto della Mole Vanvitelliana, Andrea Franzoni presenta “After Lorca” di Jack Spicer (Gwynplaine, 2018), prima traduzione italiana del capolavoro del poeta culto Jack Spicer per la collana Argo. La traduzione di “After Lorca”, a opera di Andrea Franzoni e curatela di Fabio Orecchini per la collana Argo​, è la prima in Italia. Interviene il poeta e critico statunitense Paul Vangelisti. In collaborazione con Arci Ancona. Ingresso gratuito.
Alle 19.45 il Reading di Ron Padgett uno degli ospiti più attesi del Poesia festival alla Mole Vanvitelliana di Ancona. Il pluripremiato poeta newyorchese, noto in Italia come autore di tutte le poesie del film “Paterson” di Jim Jarmusch, presenta la sua prima raccolta pubblicata in italiano, in esclusiva per il festival, nella collana “La Punta della Lingua” di Italic Pequod. Traduzione di Damiano  Abeni. A seguire alle 21.30 presso l’Arena Cinema della Mole Vanvitelliana Ron Padgett presenta il film Paterson​ di Jim Jarmusch (Usa, 2016) (V.o. sub ita). In collaborazione con Arci Ancona – ingresso €4.
Chiamata alle arti: Nie Wiem cerca volontari la realizzazione del Poesia Festival! Riunione giovedì alla Casa delle Culture. Tutte e tutti coloro che fossero interessati a collaborare possono scrivere a [email protected] ed entrare a far parte dello staff dei volontari!
La Punta della Lingua – 13ma edizione (direzione artistica Luigi Socci e Valerio Cuccaroni​) prosegue dal 2 all’8 luglio con 30 eventi e oltre 50 ospiti italiani e internazionali ad Ancona, Parco del Conero e nei luoghi leopardiani con letture, performance, film, concerti e facebook poetry.
Il programma è on line su www.lapuntadellalingua.it/programma-2018/  Le foto e le biografie degli ospiti su: https://ift.tt/2sTfTxs .
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